Il movimento nell’Immaginario. Emozione, motricità, corporeità.

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Psicoterapia con l’ITPSilvano Secco

Il movimento nell’Immaginario. Emozione, motricità, corporeità.

Tesi del lavoro.

Nel presente lavoro vorrei riflettere su questi aspetti del movimento che si presentano durante una seduta di Imagerie condotta con la tecnica dell’ITP[1] di L. Rigo e S. Uberto Rigo:

  • Il soggetto in stato di rilassamento profondo si vive, tramite l’Io Corporeo Immaginario, muoversi nel proprio Scenario. Tale movimento immaginario è reale, non apparente.
  • L’immagine possiede movimento.
  • Il corpo possiede una memoria che appare distribuita nella sua superficie e genera, sempre durante la seduta ITP, dei fenomeni localizzabili in parti diverse dello Schema/Immagine del corpo, vuoti negli appoggi, sensazioni di vertigine e altro ancora.

Parallelamente a queste tesi ho poi cercato di approfondire altri aspetti sempre relativi al movimento, ma inseriti in contesti apparentemente diversi, quali la pittura, la danza, la recitazione e la filosofia/matematica. Si tratta effettivamente di trovare i collegamenti con altri ambiti, anche attraversando il rischio di sembrare incomprensibile.

Di fatto vi sono dei pensatori come ad esempio Zenone e Valéry, Bachelard e Burgos, Ruggieri e Stanislavskij  che si sono posti dei quesiti simili in contesti di riflessione diversi:

  • le dicotomie della coscienza e dell’immaginario, del concetto e dell’immagine;
  • la questione dell’istante, ovvero della vita che è presente nell’infinitesimamente piccolo;
  • il tema dell’estetica;
  • la negazione dell’esistenza del movimento posta da Zenone o, per contro, l’assoluta presenza del movimento.

Questi studiosi hanno usato e riflettuto su e con modalità antitetiche, solo in apparenza, quali la poesia, la pittura, la danza e, contestualmente alla conoscenza, tramite l’immaginazione e la tecnica, ponendosi molte domande sugli incroci delle dicotomie.

Valéry si chiede quanto, la pittura di un oggetto, da parte di un pittore come Leonardo[2],  richiedeva, di fatto, uno studio millimetrico anatomico, fisiologico, geologico, fisico? E questo  quesito sottende la sua domanda fondamentale: come avviene la creazione? Valéry scrive riferendosi a Leonardo: “la sua pittura esige sempre da lui una analisi minuziosa e preliminare degli oggetti che vuole rappresentare … che va al più intimo od organico, alla fisica, alla fisiologia fino alla psicologia … dipingere è un’operazione che richiede tutte le conoscenze e quasi tutte le tecniche: geometria, dinamica, geologia, fisiologia”. Forse possiamo commentare che è stato senza alcun dubbio faticoso e appagante per Leonardo imparare a vedere.

E per quanto riguarda il movimento Valéry ricorre alle riflessioni sulla danza[3] per il tramite di un dialogo tra tre maschere diverse o diversi surrogati del proprio Io osservatore … acuto osservatore.

 

Il movimento.

Considero il movimento in sé alla stregua di canale sensoriale, analogo alla vista, all’udito, al tatto, all’olfatto.

Il movimento immaginato durante una seduta ITP è un vissuto concreto e misurabile attraverso degli elettrodi eventualmente inseriti nei muscoli nel mentre la persona immagina.

La persona in stato di rilassamento profondo può immaginare di muoversi in uno Scenario, in varie direzioni, correre lungo una spiaggia, attraversare un fiume, arrampicarsi lungo un sentiero di montagna e molto altro.

La semplice direzione percepita, come ad esempio percepire che la testa si gira orientandosi, è semplice fattore determinante cambiamenti.

La persona può percepire non solo mentre immagina nello Scenario, ma lì mentre è seduta nella poltrona, la direzione della propria testa o del proprio corpo spinta in avanti o, per contro, un senso opprimente di vertigine, altre volte sperimenta sensazioni di mancamento o di vuoto nella parte destra o sinistra del corpo. Altre sensazioni contengono spinte che derivano da complessi[4], o fantasmi del corpo, sono il sentire lì, nel proprio corpo, sensazioni di schiacciamento, di attrazione lungo la parte dorsale del corpo simile a quella esercitata da una calamita.

Jung con il termine complesso indica un insieme composto da ricordi, pensieri, ricordi, inconsci del tutto o in parte, che sono carichi di affettività. Egli ha identificato inizialmente la presenza dei complessi quando ha notato che una parola, un gesto vissuti come penosi causavano un ritardo nelle risposte ai test associativi. Tale ritardo dimostra che un complesso è stato colpito. Questo ha condotto poi Jung  a ipotizzare che la psiche sia strutturata come un insieme di complessi. In altri termini i complessi sono simili a frammenti psichici i quali devono la loro scissione a influssi traumatici o a tendenze incompatibili. I complessi agiscono come una personalità parziale che sfugge al controllo dell’Io.  Se per Freud il complesso è simile ad un nodo che deve essere sciolto, per Jung invece la psicoterapia deve tendere a collegare i vari complessi tra di loro e con l’Io.

Diviene quindi importante soffermarsi anche su queste micro sensazioni di schiacciamento chiedendo al soggetto che, partendo da queste, le lasci trasformare in una immagine o consenta l’emergere di un ricordo ad esso associato. Queste prassi sono oggi utilizzate da alcuni nuovi teorici nella elaborazione dei traumi.

La persona può anche immaginare una situazione passiva e trovarsi contenuta, sostenuta dalle radici di un albero, sorretta e trasportata da una nuvola morbida. Secondo l’ITP e la sua filosofia di vita, i vissuti di passività contengono elementi di movimento cenestesico con conseguente ristrutturazione dell’Immagine del Corpo. Sono sufficienti, in particolare per i bambini, pochi minuti di tempo per sperimentare in maniera salutare questa esperienza; alcuni la chiamano “noia” e non tutti i genitori o educatori riescono ad accettarla.

 

Il movimento passivo.

Nella psicoterapia con l’ITP, il vissuto di movimento passivo positivo, in stato di rilassamento profondo, determina forme elevate di ristrutturazione dell’Immagine del Corpo. Alcuni esempi di movimento passivo che i bambini richiedono ripetutamente nella quotidianità sono: l’altalena, il farsi buttare in alto dal padre, l’essere cullati, oppure l’andare in treno o fare il cavaliere sulla gamba del padre.

Tutti questi esempi si devono intendere come soddisfacimenti ristrutturanti prodotti da scosse brevi o ampie, ritmiche del corpo. Movimenti nei quali sono interessati tre tipi di vie sensoriali: quella vestibolare, quella tattile della pelle e quella propriocettiva dei muscoli ed articolazioni.

Un’altra situazione molto interessante di vissuto del movimento passivo è quello provocato dall’ascolto delle favole. Questo ascolto provoca la partecipazione passiva – in quanto che il bambino è disteso a letto ed ascolta – alle vicende e ai personaggi. La parola immaginata produce dei profondi cambiamenti nella psiche del bambino.

 

Esiste ancor prima, durante cioè la fase fetale, una sperimentazione passiva del movimento vissuto parallelamente al contenimento materno. Ritengo che le reazioni di vertigine, di mancamento, di vuoto, di crisi di panico trovino le loro radici fantasmatiche in tale periodo.

 

Caso clinico.

 

La differenza tra cinestesia e kinestesia.

La sensazione sottesa al movimento muscolare è chiamata cinestesica da non confondere con altre forme di sensazioni cinematiche quali la kinestesia e la cenestesia. Ciascuna sensazione è l’esito o espressione di differenti terminazioni nervose.

Nell’ambito del processo immaginativo la sperimentazione della cinestesia ha una funzione curativa fondamentale. Noi che facciamo riferimento ad una precisa Scuola di formazione che utilizza l’ITP, distinguiamo poi il movimento passivo dal movimento attivo, sottolineando come vi sia una sorta di successione evolutiva. In altri termini affinché il soggetto sia in grado di sperimentare il movimento attivo (cinestesi) deve aver prima sperimentato, in una sana relazione significativa con un altro essere umano (caregiver), esperienze concrete di passività e movimento passivo (kinestesi). Esempi concreti di esperienze passive sono l’essere stato contenuto in un abbraccio, l’essere ninnato.

La funzione del movimento è simile sotto certi aspetti alla funzione della vista, ovvero si pone come vertice consentendo una sintesi delle sensazioni provenienti dagli altri canali sensoriali. Uso il termine vertice pensando anche a Bion che lo adopera quando parla dei punti di osservazione da cui può partire il terapeuta o il paziente per prendere in considerazione un oggetto di conoscenza.

Vi sono delle forme sintomatologiche che ben esprimono l’intersezione, anche neuropsicologica tra movimento e vista – mi riferisco alle sintomatologie chiamate crisi di panico o altre denominate vertigini – dove sono implicati aspetti simili:

  • la postura o movimento passivo, compresa la pulsione di aggrappamento e le sensazioni kinestesiche,
  • le percezioni  che si riferiscono all’orecchio primitivo (labirinto) collegato al cervelletto,
  • la vista,
  • il movimento attivo.

Il movimento attivo in questo elenco è stato inserito non a caso per ultimo. Esso è l’elemento più relazionale interno ai processi psicopatologici (crisi di panico, vertigini) presi in considerazione.

Il movimento attivo può essere considerato un elemento relazionale o sociale perché è da intendersi come la direzione o la spinta in avanti del soggetto verso il mondo. È tale elemento che, manifestando in varie forme l’aspetto dissociativo o disintegrativo dell’essere, attiva le crisi. In terapia, prima di lavorare sulle sperimentazioni del movimento attivo si deve aver lavorato sui passaggi precedenti; il che significa che il soggetto in seduta con l’ITP (visualizzazioni guidate o imagerie libere) deve aver sperimentato positivamente delle esperienze immaginative di passività.

 

Caso clinico P.

P è una giovane ragazza, figlia unica, ma non per questo meno soggetta al complesso fraterno[5], arrivata in psicoterapia per un timore profondo di essere omosessuale. A tutt’oggi sono 42 le sedute di P. La sua psicoterapia, come tutte le psicoterapie, contiene in sé numerosi insegnamenti.

P mi ha insegnato come all’interno del processo di identificazione non sia facile approcciare e far evolvere l’identificazione con me stesso – ruolo che possiede il complesso fraterno -. Questo obiettivo viene raggiunto anche per il tramite della sperimentazione del complesso fraterno attivo in ogni persona all’interno del sistema famigliare o altri sistemi di pari come compagni di scuola, gruppi di amici, gruppi sportivi.

Ho cercato quindi di suddividere l’andamento di queste sedute in fasi successive alle quali ho dato, per comodità descrittiva, un nome.

Movimenti in vibrazioni e contenimento.

I sogni che P riporta nella prima seduta sono quelli “di un caprone che le voleva fare un solletico mortale … da piccola sognavo che il gatto e la volpe dovevano farmi il solletico mortale … Un altro sogno che ho fatto è quello della casa vecchia dove abitavo … le stanze però sono diverse, all’ultimo piano del condominio … ho le vertigini a casa ma non però in montagna … mi viene male alle gambe come se dei freni mi prendessero alle gambe e ai fianchi … andavo con il culo giù per i gradini perché avevo paura …

Questa è la breve imagerie che ho scritto: Immagina di trovarsi in un bosco di proprietà … alberi di noci … poi si localizza su collina …

Uscita dirà che le gambe le sente tremolanti.”

Questo tremore, nonché il solletico mortale del sogno, è simile ad un micro movimento interno ai muscoli, che appare però inespresso, bloccato, primitivo, una sorta di alterazione del tono muscolare.

Le prime sedute con P sono dedicate al lavoro di contenimento ristrutturante che richiama vissuti di tipo fetale. Nell’ottava seduta immagina “una sfera o goccia trasportata da una mano di una persona (forse una immagine sintetica della terapia) … lei si sente camminare di fianco su una pavimentazione tipo selciato di una città medioevale … l’immagine sembra andarsene così le propongo di riprendere il rilassamento … dice di sentirsi leggera e contenuta … Uscita dal rilassamento dirà che solo alla fine le era tornata l’immagine della sfera e lei si sentiva al suo interno leggera e contenuta.”

 

La comparsa del movimento, dell’ampiezza, della curva come indice di cambiamento.

Siamo alla nona seduta, durante la prima fase di colloquio P appare emotivamente instabile, il pensiero sembra disturbato, il viso però appare molto rilassato. Riprendendo dal diario di terapia scrivo: “immagina di sentirsi volare velocemente sopra le nuvole … poi sbatte contro un muro (equivalente ad uno choc o forte resistenza al cambiamento che deve di fatto essere superato con l’aiuto del terapeuta, la invito quindi a superare il muro appoggiandosi sulla sua sommità prima scendere) … lo supera … cammina arrivando così in una città … si trova di fronte ad una biblioteca e non sa cosa fare e questa incertezza le crea ansia … inizia così una corsa, una galoppata, sperimenta cioè un movimento globale ampio come reazione, che l’aiuta a superare il blocco determinato da un pensiero imperativo ( la biblioteca ed il successivo pensiero imperativo rappresentano l’eccesso di cognitivo, di razionale normativo, equivalenti al precedente muro) … terminata la galoppata le chiedo di guardare da sx verso dx … immagina allora una strada con curva, le suggerisco di sentirsi in questa curva e superarla … dirà durante il colloquio effettuato dopo la seduta di imagerie, che questo superamento della curva l’aveva percepito anche fisicamente … si è trovata poi di fronte ad un muro bianco e spontaneamente questo si è trasformato in una piazza (= trasformazione e superamento delle resistenze/choc) … le ho quindi suggerito, partendo dall’immagine della piazza, di localizzarsi lì e respirare ascoltando il respiro (il respiro è uno dei movimenti vitalizzanti l’essere) … le ho dato questo suggerimento partendo da una sua affermazione che sottolineava come la piazza così aperta la faceva respirare, mentre prima si sentiva oppressa dalla strada … uscita dal rilassamento appare visivamente provata e spontaneamente fa dei bei respiri profondi.

 

La conquista dell’atto di scrittura e suo posizionamento spaziale.

È P che racconta durante il colloquio della decima seduta che “ho iniziato ad usare il metodo dello scrivere … l’ultima volta poi ho pianto e scritto … scrivendo mi sono tenuta delle sensazioni che prima cercavo fin da piccola da un uomo che mi cercasse e mi proteggesse … ora non  fraintendo più i gesti di solidarietà”. Effettivamente ogni seduta psicoterapica è anche una sperimentazione di amore in una relazione estremamente rispettosa dell’Essere. È un vissuto di protezione.

Il bisogno di protezione P lo fa proprio e lo esteriorizza anche durante la quotidianità producendo fantasie di capacità di “salvataggio delle volte mi immagino che sono al mare e salvo il mio fidanzato o mio papà”. Precedentemente nella quinta seduta aveva prodotto anticipatamente una imagerie di soccorso. Riprendendo dal diario di terapia scrivo: lei segue un uomo e una bambina … sono tra la nebbia … ci sono dei lampioni e lì si fermano … suggerisco che l’uomo si giri lentamente di profilo … è individuo losco … lo descrive nei dettagli … suggerisco che l’uomo venga distratto ( è l’equivalente dell’attivazione di una difesa psicologica simile alla tecnica di distrazione nella cura del dolore fisico) e che, di conseguenza, la bambina si allontani e si diriga verso di lei … P mi descrive la bambina ma non riesce a vedere il viso … suggerisco quindi che si fermi sotto un lampione … quindi di osservarla ed incontrare lo sguardo … P mi dice che questa bambina prova rabbia perché si sente costretta a fare delle cose che non vorrebbe fare … suggerisco a P di ascoltare la rabbia di questa bambina e poi le chiedo che cosa lei (P) si senta di poter fare ( il poter fare è l’equivalente di un permesso di agire e quindi di esistere in autonomia)… lei dice che vorrebbe consolarla … le suggerisco quindi di avvicinarsi alla bambina e poi con lei andare verso destra … P la consola, ma la sente anche come un po’ estranea … uscita dal rilassamento mi dirà che era partita con l’idea che quell’uomo fosse suo padre, ma poi ha sentito che non era così. Poi dirà che il paesaggio alla fine era cambiato, non c’era più la nebbia, si vedeva meglio e l’atmosfera era più calma. Di fatto, durante la seduta undicesima riprende un ricordo di lei bambina che curiosando nella borsa del padre aveva trovato indumenti non di sua proprietà. Elemento successivamente confermato.

In questo periodo si rafforza in P il bisogno di appartenenza, di essere riconosciuta e il senso di identità di genere verso il femminile sembra rafforzato. Riproduce varie imagerie in cui si relaziona con il simbolo dell’albero e vive esperienze immaginative piacevoli di contenimento, di accoglienza anche da parte delle radici. Sono vissuti di situazioni cariche di sperimentazioni globali di Sé, di tipo cenestesico. Il padre viene anche definito come altro oggetto fondamentale con caratteristiche di organizzatore della psiche.

È durante la dodicesima seduta che si puntualizzano e si integrano i temi del suo posizionamento tra terra e cielo, madre e padre, pensiero ed emozioni, mediante l’appartenenza al gruppo. Riprendendo dal diario di terapia scrivo: Immagina di sentirsi uccello che vola … si sente andare verso il cielo, tra le nuvole … da lì vede l’erba dei prati … verbalizza che non sa come e dove collocarsi o nel cielo o nella terra … rimane nel cielo … ha momenti di vissuto emotivo in cui sente intervenire il pensiero … Incontra gruppo di uccelli e vi si integra … li segue … si sente parte del gruppo.

Nel corso della tredicesima seduta una volta trasformato il senso di oppressione in pianto e poi in un urlo prende coscienza del suo non poter essere se stessa … perché vi sono molteplici imposizioni genitoriali.

Nella seduta successiva avviene l’evoluzione, determinata dal passaggio dal mondo/movimento vegetale a quello animale vede due rami che crescono velocemente intrecciandosi e producendo fiori … colloca l’albero prima nel campo del padre e poi lo sposta in un terreno rialzato (tentativo di differenziazione) … l’identificazione simbolica con l’albero le crea disturbo … prova sensazioni di costrizione … velocemente cerca un animale, prima un felino e infine una lupa … e con questa si identifica.

 

Io voglio essere me.

Interessante sotto vari punti di vista la quindicesima seduta perché questa imagerie le consente di elaborare il senso di solitudine/abbandono, ed avvia con decisione il recupero della propria identità equivalente alla formula “io voglio essere me e basta”, obiettivo che aveva naturalmente già ricercato nella sua storia evolutiva, fallendo.

Seduta di imagerie trascritta da P: “(n. b. Le mie prime immagini sono state condizionate, ma anche in seguito, da ciò che avevo visto poche ore prima, ovvero un telefilm ambientato nel 1400 in cui erano contemplati intrighi e pericoli) …

La prima cosa che ho immaginato è stata una sedia con i braccioli (è un simbolo che ha a che fare con la rassicurazione di poter occupare un posto), dallo schienale alto, squadrato e parzialmente imbottita sul sedile e sullo schienale. Questa vorticava affannosamente, girava su se stessa sulla medesima posizione.

Per dare un qualche cambiamento, ho immaginato poi che la sedia sprofondasse, sempre girando e al suo posto si è delineata una grande piramide a gradoni. Ogni gradone era come se fosse composto da una serie di scatole di metallo con decorazioni che potevano aprirsi e far comparire altri pezzi o viceversa facesse sparire.

Mi hai chiesto poi dove mi sentissi.

Ho trasportato l’idea della piramide “antica” all’ipotetica sala e mi sono sentita in una stanza molto alta, drappeggiata e decorata e io mi vedevo vestita come una dama, ma comunque piuttosto semplice. Ho immaginato poi di togliere il contesto storico, da cui mi ero ispirata mantenendo la disposizione della stanza così com’era: sulla mia sx c’era un corridoio che attraversava diverse stanze mentre davanti a me c’era un’altra porta che portava ad un altro corridoio che però non vedevo. La stanza era spoglia e cupa e mi sentivo in pericolo; qualcuno mi cercava per farmi del male. Dapprima ho immaginato di correre attraverso le porte delle stanze comunicanti, ma poi ho scelto la porta di fronte a me dalla quale proveniva la luce forte del sole attraverso alte finestre.

Mi hai detto di cercare un posto nel quale mi sentissi sicura.

Prima cosa che ho pensato: vado nella biblioteca-studio della casa. Mi sono sempre piaciute le biblioteche e mi avrebbero aiutato a distrarre l’attenzione. Ma una volta immagianatami là non ero tranquilla: negli studi si sa che non è sicuro, i principali complotti vengono orditi lì. Cambio ambientazione. Mi immagino uscire di corsa da un grande ingresso. Non so se con o senza portone. C’è un po’ di ghiaia e poi l’erba verde tenuta bene con degli alberi di ulivo piantati. Mi aggrappo ad un tronco di ulivo. Mi chiedi di voltarmi verso la casa e di descrivere come la vedo.

La vedevo come un vecchio casolare, ben tenuto. Dipinto di bianco ma oramai grigio dallo sporco, con finestre grandi, spoglia, silenziosa.

Poi mi hai chiesto di salire su un ramo, di trovare un punto comodo e che mi sentissi al sicuro. Mi hai detto di prendere uno specchietto, di incanalare un raggio del sole su questo e di indirizzarlo sulla casa e mi hai chiesto cosa vedevo.

Ho immaginato che dove il raggio di sole colpiva la casa tutto si colorava ed animava, le finestre diventavano più piccole e si riempivano di fiori o di drappi rossi, la casa assumeva una colorazione giallognola. Da una finestra ho intravisto un uomo che portava per mano una bambina piccola che rideva, sotto c’erano delle donne intente a cucinare e parlare. Era tutto molto rustico, ma molto accogliente e familiare.

Mi hai chiesto cosa provavo. Da un lato osservare queste cose mi scaldava il cuore, volevo essere là anch’io. Dall’altra ero un po’ triste perché non ho mai avuto una casa piena di persone nella realtà: ho dei genitori che non mi hanno mai fatto mancare niente, si ride e si scherza a casa mia, ma forse mi sono sempre sentita sola.

Uscendo dal rilassamento ho pensato (recupero dei ricordi) a diverse cose:

  • Ero già grande, ma quando ho saputo che la mia madrina della cresima dopo pochi anni di matrimonio era incinta del secondo figlio sono scoppiata in lacrime perché io ero invece ancora figlia unica
  • La nonna quando ero piccola ha detto ai miei di non avere le forze per badare a un altro nipote e di certo ha influenzato i miei
  • Essendo anche mamma figlia unica, si è sentita spesso anche lei sola e mi aveva raccontato che trovava conforto o forza nell’acquisire qualità che le piacevano da altre persone e che dovevo fare anch’io così … e così ho provato a fare per molto tempo. Uscendo dal rilassamento mi sono detta che non voglio più farlo. Io voglio essere me e basta. Prima devo sapere chi sono io e poi posso eventualmente fare così.

Pensieri mentre scrivevo ciò che è successo in seduta, mi è tornato in mente una cosa che nonna racconta di tanto in tanto. Il mio primo giorno di scuola materna. Nonna doveva venirmi a prendere per le 12,30 su ordine di mamma. Quando è arrivata io ho piantato i piedi e mi sono messa a piangere perché volevo rimanere con gli altri bambini ( = io sono io e voglio appartenere ad un gruppo di fratelli) a mangiare lì con loro. La suora disse a nonna di lasciarmi lì e venire a prendermi nel pomeriggio e così fece. A mamma venne un colpo perché non ero tornata a casa, ma fu tranquillizzata dalla nonna.”

 

Una forma di identificazione simbolica e corporea.

Dopo il rilassamento profondo non avendo immagini spontanee le chiedo di ascoltare il suo corpo. Riprendendo dal diario di terapia scrivo: “afferma che quando espira ha senso di pesantezza ( = blocco di un movimento vitale collegato a complesso materno) … è come se “nascondessi qualcosa” … le suggerisco di lasciar trasformare in immagine questa sensazione … ha l’immagine spontanea di un’onda e di denti … suggerisco una possibile ulteriore trasformazione/puntualizzazione dell’immagine in figura di animale … immagina allora una leonessa … aggiunge: “l’idea dei felini non mi è mai piaciuta perché sono opportunisti” … suggerisco di non pensare e di ascoltarsi … poi di immaginare di tracciare un cerchio attorno alla leonessa … all’inizio la leonessa le mostra i denti, poi sta seduta come una statua, poi si distende sofferente … P accetta la soluzione di offrire alla leonessa del cibo … “ora si sente bene” … “anche la mia pancia è rilassata”.

 

Forme salutari di sdoppiamento.

Questa è la seduta 19 trascritta da P: “Immaginando di far uscire l’aria dalle narici, mentre espiro, i due flussi d’aria si trasformano in due corde nere, fatte di metallo, con squame e il loro movimento è paragonabile a quello di due serpenti. (interessante questa sincronia tra il movimento del proprio respiro e il movimento dell’immagine) …

Dopo un piccolo tratto percorso sul pavimento i serpenti s’inerpicano attorcigliandosi ai lati di una grande catena verticale fissata sul soffitto e sul pavimento; questa ha grandi anelli ellissoidi di metallo nero. Le sensazioni che provo sono di completezza visiva dell’immagine (saturazione visiva dell’immagine), ma anche inquietudine per la presenza dei serpenti-corde. Nonostante ciò come mossa da una sensazione di vendetta, sento che quello è il posto giusto per i serpenti, perché devono impartire una lezione alla catena.”

Mi chiedi di liberare la catena dalle corde e di farle entrare in un contenitore. Immagino una copia di me che prende un cesto da pic-nic e, una volta che i serpenti si sono staccati, li faccio strisciare all’interno dell’apertura.

Mi chiedi come mi sento. Vedo le catene più vuote, i serpenti completavano il quadro e punivano la catena al tempo stesso. Tuttavia non mi fido di loro, sono infidi e il fatto che non ci sono più mi fa sentire un po’ più tranquilla.

Mi chiedi di esporre alla luce il cestino. E così immagino: avvicino (la copia di me avvicina) alla finestra il cesto, là lo colpisce e dapprima escono volute di fumo, poi esplode la parte da cui sono entrati i serpenti ed escono due tortore che scompaiono presto dalla visuale dietro la torre del castello. Questa immagine contestualizza dove mi trovo e la copia di me scompare … sono nella stanza di un castello, i soffitti sono alti, i mattoni in roccia scura e la catena si trova tra l’ingresso senza porta e il centro della stanza. Anche le finestre sono molto alte, senza vetri.

Mi chiedi di uscire dalla stanza, di salire sopra la torre e dire cosa vedo. Vedo che il castello è in un posto rialzato all’interno di un’ampia vallata, circondato ad arco da montagne. Ci sono numerose altre torri che compongono il palazzo.

Improvvisamente voglio salire sulla cornice della torre e buttarmi giù di piedi. Immagino di non curarmi dell’altezza perché so che mi trasformo in volo. Penso però che sono solo un essere umano, quindi riavvolgo la scena, mi butto ancora, ma ora vedo l’altezza e in volo l’aria e la gravità mi impediscono di respirare ed ho paura. Riavvolgo la scena e proseguo con la prima visione. In volo mi trasformo in un grande uccello.

Mi dici di ascoltare l’aria, sentita tra le piume e sentirmi fisicamente un uccello. Giro attorno alle torri, osservando e cercando qualche pericolo con rabbia, scendo su sentiero al limite del bosco.

L’entrata nel bosco è molto buia e cupa, i tronchi degli alberi sono grossi e altissimi e il verde delle chiome molto scuro. So di dover entrare per risolvere le cose e affrontare il nemico ( = conflittualità percepita).

Mi dici di chiudere gli occhi, di ascoltare il vento, di sentire l’odore del sottobosco, gli uccellini che cinguettano. Sento che quello che devo fare non poi più così importante e mi sento più sollevata e positiva. Trattengo queste sensazioni. Sto uscendo dal rilassamento e mentre lo sto facendo sono in una radura in mezzo al bosco, inondata dal sole e dall’atmosfera tranquilla. Anche il verde dell’erba e delle foglie è più chiaro e ci sono fiori e farfalle.”

 

Identificazione con se stessa.

Questa è la mia trascrizione della 21 seduta di P. Riprendendo dal diario di terapia scrivo: “Immagina di trovarsi tra montagne ovvero in una particolare collocazione spaziale a V e di fronte a lei una montagna ( = figlia tra genitori) … poi si colloca su un piano in discesa … dietro il nulla … poi immagina sempre dietro dei funghi giganti …

Suggerisco volo … lei immagina di alzarsi in volo ed essere trasportata da correnti d’aria … si sente sdoppiare … si osserva mentre affiancando una delle due montagne va oltre … immagina luce … va verso la terza montagna  ( = catena del figlio) la tocca e ha sensazione di toccare il talco … si sente abbracciare.

Questa è la sua trascrizione della stessa seduta: “La prima cosa che sono riuscita ad immaginare è stata quella di visualizzare due ripidi pendii davanti a me … non illuminati, in ombra, ma si distingueva il verde scuro dei pini e pure le loro punte lungo il profilo.

Questi versanti andavano ad unirsi più a valle formando una vallata a V (non ho visto il fondo) e dietro a questa si stagliava invece una montagna di roccia nuda, il sole la illuminava perfettamente, era a forma triangolare, lungo il suo profilo si vedevano piccoli speroni sporgenti.

Mi hai chiesto di sentirmi lì e dire dov’ero. Ero su un piano verde, erba tagliata molto bassa e davanti a me poi essa proseguiva lungo una discesa e sotto di me c’erano ancora pini.

Mi hai chiesto cosa mi sentissi di fare. Volevo girarmi, ma quando l’ho fatto alle mie spalle c’era una grandissima parte di roccia grigia, altissima e qualcos’altro davanti che non capivo, come se fosse una casa a forma di gigantesco fungo (quelli rossi con le macchie rosse).

Allora mi hai detto di immaginare di avere un aliante e volare via. Ho immaginato di provarci ma l’aliante non riusciva a procedere, c’erano correnti ascensionali che mi portavano su  per poi farmi cadere indietro, c’era come un muro d’aria.

Poi ho provato ai lati e sono riuscita a vedermi passare, radente il versante, oltre … tuttavia se provavo a sentirmi fisicamente là non riuscivo ancora a passare.

Mi hai detto allora di provare a vedermi superare il muro d’aria, senza sentirmi là e di proseguire.

Ho immaginato di arrivare alla montagna illuminata, di riuscire a toccarla e di sentire come se fosse talco al tatto, era chiara e lucente, anche se grezza.

Improvvisamente ho avuto l’istinto di immaginare che la montagna assumesse parziali forme umane e che mi abbracciasse. Mi sentivo ritrovata, non completa, ma ritrovata.

Con questa sensazione sono uscita dal rilassamento.”

 

Accelerazione verso il cambiamento. Simbolo del bivio.

Questa è la trascrizione di P della sua 23^ seduta: Mi hai chiesto cosa riuscissi ad immaginare.

Di preciso non riuscivo a focalizzare chiaramente nulla, vedevo solo sopra di me dei raggi solari, un cielo azzurro intenso e terso e sotto le punte di una catena montuosa innevata. Mi sembrava di guardare attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica: le immagini sembravano una foto di un paesaggio preso col grandangolo, coperto però da una sottile nebbia, come se avessi gli occhi socchiusi. Tuttavia queste cose non mi interessavano, non volevo metterle a fuoco e ho come immaginato un’altra me che spingesse via le immagini e rimanesse in uno spazio vuoto e nero.

Mi hai chiesto come mi sentissi … e mi sentivo in bilico tra diverse sensazioni: triste, arrabbiata, delusa … più che una sensazione di cattiveria era una sensazione che lasciava l’amaro in bocca, che legava i denti, che opprimeva la mente.

Così mi hai chiesto di non pensare a nulla e di buttare fuori con respiro queste sensazioni … e così ho deciso di espirare con forza dalla bocca … avevo bisogno di liberarmi dal peso e così ho buttato fuori l’aria sempre più forte, più e più volte fino a sentire la mente sgombra e frizzante per l’ipossia.

Dopo essermi fermata mi hai chiesto come mi sentissi. Mi sembrava di essere spinta in avanti, quasi di volare e volando, avere una accelerazione in avanti. Mi hai detto di seguire l’accelerazione in avanti e dire cosa mi sentissi di fare. Sentivo di seguirla, di proiettarmi in avanti, di aprire le braccia di fronte ad un bivio e che le mie braccia percorressero, allungandosi, entrambe le vie, mentre io continuavo a proseguire o almeno avevo la sensazione anche se visiva … mentre continuavo a vedere il bivio.

Mi hai chiesto cosa provassi … e mi sentivo bene … mi sentivo pulita, cristallina, ma con la forza di poter aggredire l’aria, ma senza cattiveria; solo sferzarla. Mi sembrava di individuare i problemi, di ridurli a una piccola macchia e di schiacciarla sotto i piedi. Mi sono immaginata in piedi, diritta a piedi uniti, uno sfondo bianco e sotto i miei problemi che non mi incutevano nessuna sensazione. Io ero semplicemente sopra e li avevo visti. Nessun rimprovero, nessuna vendetta, solo la fine di una cosa e forse l’inizio di una migliore.”

 

La difficoltà dei distacchi. Simboli dei passaggi, la passerella.

Ogni psicoterapia è un progetto di vita che come ogni progetto si va estendendo con la forza della lentezza, la strategia della gradualità.

Questa è la trascrizione di P della sua 24 seduta caratterizzata dalla ri-sperimentazione di movimento passivo che prepara la successiva seduta nella quale sperimenterà il movimento attivo: Ho immaginato di vedere una passerella di legno che sporgeva verso un piccolo lago di montagna. Inizialmente non distinguevo molto, vedevo solo questa passerella che a volte stava ferma ed era tale, e a volte invece dondolava fissa ad un perno come nei giochi dei bambini. Se essa stava ferma mi immaginavo sopra la passerella, se si muoveva osservavo la passerella dalla riva.

Il paesaggio era articolato in questo modo: da sinistra a destra, come mi avevi chiesto tu di descrivere, vedevo davanti a me il lago, poi un piccolo particello verde che circondava il lago, poi una fascia di una vegetazione di un verde più scuro, fatta di pini ed infine le montagne. A sx c’era una casetta di legno posta un po’ sulla riva e un po’ nell’acqua, mentre a dx la conca si restringeva e veniva a formarsi un canale che portava a valle. Anche l’acqua del lago convogliava in questa apertura tramite un ruscello.

Mi hai chiesto cosa mi sentissi di fare. E così mi sono diretta verso l’apertura e quindi verso valle. Ma inizialmente non riuscivo a vedere cosa ci potesse essere al di là. Man mano che procedevo il paesaggio cambiava: le colline erano più dolci, i colori erano quelli dell’autunno, gli alberi con foglie larghe, il fiumiciattolo che scorreva verso valle.

Mi hai chiesto di sentirmi proprio là, di sentire il vento, gli uccelli cantare, di avere dei buoni scarponi e di camminare fra le foglie, di avere con me uno zaino con le mie cose, quelle più necessarie. Mi hai chiesto come mi sentissi. E io mi sentivo felice per questa nuova avventura, stavo andando verso qualcosa di nuovo. Ma dall’altro, voltandomi indietro, ero anche triste perché non sapevo se sarei mai più tornata indietro. Non avevo voglia di tornare indietro, quello che mi faceva male era il distacco.

Mi hai chiesto cosa mi sentissi di fare … e ho deciso di fermarmi perché non ero ancora pronta a proseguire … mi hai detto allora di fermarmi, di trovare un giaciglio comodo e di accendere il fuoco. Io però non mi sentivo sicura di proseguire e mi hai chiesto di chiamare un cucciolo di animale per farmi compagnia. Io ho immaginato un piccolo capriolo, ma per quanto lui fosse carino e da un lato utile perché sensibile ai rumori di pericolo, non mi dava sufficiente forza e sprint.

Hai richiamato dal folto della foresta la mamma capriolo, mi hai chiesto di guardarla negli occhi, accarezzare il suo mantello e descrivere cosa faceva. E la mamma era venuta a riportare il cucciolo indietro, invitandomi a seguirli, ma io non potevo dovevo andare avanti.

Mi hai chiesto di immaginare che là vi fosse un grosso e grande albero cavo, di entrarvi e trovare ristoro in una stanzetta ricavata là accogliente. Di stendermi su un letto e riposarmi. E così ho fatto. Ma avevo visto una scala a chiocciola che saliva nell’albero e non volevo riposare, ma salirci su. Ci sono salita fino circa a metà e da una apertura fatta come una porta sono finita su n ramo molto grosso, coperto da foglie arancioni e lì sono stata subito meglio perché dall’alto potevo controllare la situazione, potevo saltare e volare via, per poi tornarci perché quello era il mio punto di appoggio.

 

Dal movimento passivo al movimento attivo e infine l’azione.

P ha vissuto in successione: la seduta 24 con la sperimentazione del movimento passivo, la successiva con il movimento attivo e nella seduta 26 l’azione e l’avvio delle imagerie in forma drammatizzata, dei complessi quali l’ombra, il simbolo dell’asse del mondo, il simbolo materno del ragno. È come se la drammatizzazione, smile alla messa in scena in un teatro di un racconto interiore richiedesse queste precedenti sperimentazioni dei vissuti in passività, equivalente all’avvio della fase ristrutturante, e in movimento attivo, inteso come avvio propedeutico alla fase conflittuale.

Effettivamente le sedute 23, 24, 25, 26 se lette osservando la loro struttura interna hanno una cinematica che va in progressione. Mi riferisco cioè al tipo ed articolazione dello scenario, i personaggi, la storia che vi è rappresentata con i suoi dettagli emotivi di partecipazione di vari personaggi, la presenza del corpo, ovvero delle sue tensioni e tono che divengono via via sempre più movimento.

 

Nella seduta 25 P inizia l’imagerie riprendendo l’immagine dell’albero della seduta precedente. Riporto quindi quanto scritto da P: “Con il rilassamento ho immaginato un albero con una folta chioma. La particolarità dell’albero era che era completamente viola e risaltava sullo sfondo nero. Poi si è messo a girare … il tronco si è assottigliato e si è trasformato in un pezzo di cavolo che sempre ruotando su se stesso, ha perso il gambo ed è diventato una ruota di legno con grossi raggi. Questa ruota poi l’ho vista attaccarsi sul lato posteriore sinistro di una carrozza di altri tempi, tipo quelli da fiaba. Il tutto sempre dello stesso colore viola. Vedevo la carrozza da dietro che correva su un sentiero battuto nel bosco e qua e là dai lati verso la strada comparivano queste nuvole a spruzzi viola; era se la carrozza stesse scappando da queste.

Poi mi sono concentrata ed ho cercato di cancellare queste colorazioni strane: la carrozza era colorata con colori pastello: verde mela chiaro, azzurro carta da zucchero e panna. Gli alberi erano molto alti, tronco fine, distanti circa due metri e mezzo o tre gli uni dagli altri. Il sottobosco era molto pulito; qua e là qualche cespuglio verde.

Mi hai chiesto come mi sentissi. Ho provato a sentirmi nella carrozza per capire se fosse mia, ma non mi sentivo a mio agio in quel posto ero stretta. Per cui sono tornata fuori, nella posizione posteriore sinistra di partenza. ( La carrozza della favola, delle fantasie infantili, dell’infanzia prefabbricata e imposta se ne va e lascia il posto al suo movimento pulsionale).

Mi sono immaginata in sella ad un cavallo. Mi hai chiesto nuovamente come mi sentissi. Mi sentivo sul cavallo, ma in quel momento la carrozza era andata via per la sua strada e io avevo voglia di correre con il cavallo.

Mi hai detto di sentire bene i piedi sulle staffe, le gambe sul corpo dell’animale e sulla sella, le redini in mano e di guidare il cavallo. In realtà il cavallo faceva un po’ di resistenza e improvvisamente volevo correre come un cavallo, non cavalcando un cavallo.

Mi hai spronata a cavalcare, a sentire l’energia della corsa, a sentire i muscoli che lavoravano e mi hai chiesto cosa sentissi. E io sentivo che avevo bisogno di correre per sfogarmi. Ho sentito la forza, l’adrenalina/energia che si sprigionava correndo. Vedevo il bosco passare di lato ma io continuavo a guardare in avanti. Sentivo di poter quasi bruciare l’aria e il terreno sotto di me. Poi lentamente mi sono sentita più stanca e col fiatone sono tornata me stessa cadendo in ginocchio per terra e rivolgendo la testa alla volta di foglie. Ma improvvisamente mi sono accorta della mia posizione: ero in ginocchio vinta dalla situazione. E io non potevo e non dovevo essere vinta. Per cui mi sono rialzata di nuovo combattiva. Ero in un posto sempre nel bosco in cui alla mia dx c’era un pendio, mentre alla mia sx c’era una parete di roccia di 3-4 metri coperta parzialmente di vegetazione di lato e sopra da alberi. Dove mi trovavo io c’era un piccolo fazzoletto di terreno pianeggiante. Potevo sia osservare pericoli che potevano venire da sx. da dietro gli alberi sono spuntati dei lupi ringhianti e dentro di me ho cominciato a montare la rabbia. Non avevo paura dei lupi perché sapevo che in qualche modo sarei stata in grado di sconfiggerli. Temevo più la rabbia che provavo.

Allora mi hai detto di immaginare di avere un cofanetto e che dentro questo vi facessi convergere tutta la rabbia. Mi hai chiesto poi di chiuderlo e di metterlo al collo. Mi hai chiesto come mi sentissi. E stavo bene, mi sentivo un po’ più leggera anche se sentivo che la rabbia era comunque parte di me. I lupi che prima erano avanzati in cerchio ora stavano retrocedendo e poi sono scomparsi. Il tema del lupo lo riprenderà nei sogni successivi alla 31^ seduta.

Così ho preso a camminare nel bosco senza una meta, solo per il gusto di farlo toccando di tanto in tanto qualche tronco. Sono scesa poi lungo il pendio sbucando in un “ramo” di un grande “lago” di erba alta di color del grano maturo. Attorno invece tutte colline verdi. Ero senza meta ma la cosa non mi preoccupava: ero là e basta. (Interessante direi questo suo viversi “là e basta” senza una meta, senza cioè che il pensiero la guidasse, bensì fosse il suo Essere lì a prevalere.) Mi hai detto così di trovare un giaciglio comodo di sdraiarmi e chiudere gli occhi per riposarmi, per poi uscire dal rilassamento.”

 

Nella seduta P elabora fra i vari aspetti quello della energia contenuta nella rabbia per il tramite dei simboli del vulcano e della lava, nel cui nucleo materiale ritrova una delle varie forme del movimento.

Riporto quindi quanto scritto da P: “Quando ho iniziato ad immaginare mi sono venute in mente immagini di alberi verdi. Tuttavia volevo provare ad immaginare qualcosa di diverso dal solito. Così invece di immagini colme di particolari quali sono gli alberi di una foresta ho immaginato di essere un deserto, tipo quelli americani o dell’Asia centrale: era terroso e roccioso, niente vegetazione, piatto se non per qualche guglia di roccia fina confinate in un gruppetto. Il tutto però era molto offuscato, ombreggiato, i contorni poco precisi, come se fossi contro luce. Si vedeva bene però la linea di separazione e il contrasto tra cielo e terra.

Non essendoci niente attorno ho cercato di provare ad immaginare qualcosa che mettesse azione. Ho immaginato quindi un cratere da impatto meteoritico (è l’equivalente di un vulcano passivo). Ho immaginato di entrarci anche se il percorso era poco limpido.

Mi hai detto di calarmici dentro con una corda e di descrivere. E io vedevo la ripida parete da dove ero scesa, la corda, e i ciottoli alla base della parete che formavano una fascia detritica. Facevo fatica ad immaginare altro; così ho inserito una cosa che amo: ho immaginato un vecchio libro tra i detriti. Era in pelle, polveroso, con le pagine ingiallite che lo rendevano molto accattivante. Mi sono accucciata e l’ho sfogliato. Da un lato mi sentivo come rapita da lui, come un bambino al negozio di caramelle: era colmo di sapere, era saggio, aveva vissuto, aveva conosciuto altre epoche e rappresentava la conoscenza. Dall’altra però era come se volessi alzarmi e lasciarlo là, che non mi apparteneva, che cercavo altro e volevo andarmene.

Mi hai detto così di rimanere, aprirlo, sfogliarlo e dire quello che provavo. Ero felice perché andavo alla conoscenza, mi affascinava il suo contenuto, la scrittura, i disegni, la calligrafia, la possibilità di scoprire qualcosa di nuovo. Però era anche triste perché il libro era come se non volesse “mostrarsi” o si rifiutasse, anzi mi rifiutasse. Non potevo avvicinarlo.

Mi hai chiesto dove mi sentissi e cosa mi sentissi di fare. Ero sempre nella stessa posizione e posto. Mi sono alzata e voltata verso il centro del cratere. Ma non riuscivo ad immaginare altro. Mi hai detto allora di dirigermi verso il centro del cratere, di immaginare la lava e di provare a raccoglierne un po’, di sentire il suo calore nel contenitore.

E io l’ho fatto ma la lava si raffreddava e cristallizzava diventando un blocco spumoso ma grigio. Ho riprovato più volte ma ottenevo lo stesso risultato.

Allora mi hai detto di riprovare, ma questa volta di immaginare che il nucleo centrale non si raffreddasse e continuasse ad essere caldo. Ed ho immaginato che il nucleo centrale fosse sferico, che girasse su se stesso, ancora caldo ma non caldissimo, e il suo girare faceva sé che parte della “polvere di lava” gli aleggiasse attorno e venisse trascinata nel movimento.

Mi hai chiesto cosa provassi. E mi sembrava di vedere una cosa spettacolare, era bellissimo! Era come un gioiello e il cuore si è riempito di emozione, la stessa che ho provato quando ho trovato il libro ma questa volta senza la “paura” di sentirmi respinta. Con queste sensazioni mi hai fatto uscire dal cratere e dal rilassamento.”

 

Le sedute 27 e 28 sono dedicate all’esperienza con il Doppio. L’ombra che P immagina alla 27 è da intendersi come P stessa interpreterà durante la settimana nel mentre trascrive la seduta: “A casa ho scritto ( imagerie della 27 seduta) … mi sono agitata … ho ripensato all’ombra … cerco me stessa … cerco di amare me stessa … cerco di amare nelle altre (donne) me stessa … sto cercando una sorella.

Con molta fatica, dopo il rilassamento ho provato ad immaginare qualcosa. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata l’immagine di un ambiente, una stanza buia. L’unica fonte di luce proveniva da dietro la mia visuale. Sul pavimento davanti a me quindi si stagliava il contorno squadrato di una porta e la mia ombra, non intera, solo dal busto in su. Era piuttosto semplice come ombra: una testa e un corpo standard.

Mi hai chiesto cosa mi sentissi di fare. E io sono uscita in corridoio dove c’era la luce, in modo da riuscire a vedere meglio l’ombra perché facevo fatica a trattenerla.

Mi hai detto di giocare con l’ombra, di sentirla, di muovere il mio corpo con l’ombra e sentire l’ombra collegata e poi mi hai chiesto come mi sentissi. Un po’ mi divertivo a far muovere l’ombra, a giocare con lei. La facevo rimpicciolire e ingrassare abbassandomi, l’assottigliavo mettendomi di lato, e la facevo allungare tantissimo tanto da andare a finire nel soffitto e sovrastarmi.

In quei giochi mi trovavo in un piccolo labirinto per bambini. Ogni tanto c’erano anche specchi ma ero più interessata all’ombra rispetto al riflesso.

Poi però tutto è sfuggito e non sono più riuscita ad immaginare nulla e mi hai fatto uscire dal rilassamento.”

 

Nella 29 seduta sperimenta il movimento attorno all’asse del mondo simboleggiato da un bastone. Riporto quanto scritto da P:  “Dopo il rilassamento, ciò che ho immaginato è stato un bastone. Era come fosse una punta di una matita che rotolava in modo rotatorio utilizzando la parte del legno temperata. Poi il bastone si è alzato e la parte si è conficcata nel terreno molto fangoso. Lì ho vissuto il bastone per intero: era un bastone vecchio, non levigato, era molto scuro ed aveva delle schegge sporgenti. Ho focalizzato poi cosa c’era attorno: vedevo dei recinti rettangolari non molto grandi il legno era dello stesso del bastone sembravano box per cavalli; questo sulla sx. sulla dx invece c’era un piccolo edificio in legno. Ovunque c’era terreno molto fangoso, con molte impronte. Il bastone era piantato nel centro dell’aia tra i recinti e l’edificio, in uno spazio non troppo aperto.

Mi hai chiesto cosa provassi. E sentivo sentimenti contrastanti: se guardavo dalla prospettiva del recinto verso il bastone mi sembrava che questo fosse fuori posto, una cosa inutile, ingombrante e da togliere. Se invece stavo vicino al bastone piantato sentivo come un’attrazione da com-petizione, da sfida ma non nel senso che volevo sfidarlo per fargli male ma volevo mettermi in competizione con lui, mettermi alla prova, avere una scarica di adrenalina, instaurare un legame con lui che comunque poi si sarebbe risolto con un qualcosa di pacifico.

Mi hai chiesto di immaginare che da fuori campo giungesse un cavallo, che con un balzo gli fossi in groppa, di sentire l’animale sotto di me, i suoi muscoli sulle mie gambe, il suo respiro, il suo manto e di iniziare a correre con lui, mi hai chiesto che cosa immaginassi. Ho immaginato che in groppa al cavallo iniziavo a girare attorno al bastone più e più volte e più giravo e più a fondo guardavo il bastone tanto che questo ha iniziato ad arroventarsi nella parte superiore sempre di più.

Mi hai chiesto cosa sentissi. E io non so cosa significasse, ma sentivo che quel bastone dovesse stare là, come un chiodo o un perno, che dovesse ricordarmi qualcosa come monito anche se non so cosa e che io dovessi continuare a girare.

Mi hai detto di sentire queste cose, di sentire la sua importanza e potenza, così come vengono e con queste sensazioni uscire dal rilassamento.”

Per quanto strano ed inverosimile questa seduta e il simbolo del bastone che sembra così insignificante di fatto tocca un nucleo importante del suo disturbo. P inizia a sognare entità maligne e poi ritrova un suo vecchio sogno, quello del lupo di Cappuccetto Rosso.

La seduta 31 è di fatto preceduta da una seduta in cui P è uscita dal rilassamento senza immaginare perché colta da una improvvisa vertigine che l’ha fatta agitare. Riesce all’inizio a percepire la sensazione di occupare il posto e sentirlo come suo, ma immediatamente questo vissuto provoca una reazione di choc che si accompagna ad una reazione molto forte di vertigine che le fa spalancare gli occhi ed uscire dal rilassamento. La tranquillizzo e le chiedo di rimanere seduta sulla poltrona.

Quando la rivedo (seduta 31) mi racconta alcuni sogni interessanti che forse elaborano il nucleo dello choc non elaborato durante la seduta 30.

I° sogno: “Da piccola sognavo spesso il lupo di Cappuccetto Rosso … l’ho sognato … ho sognato invece un chiwawa che aveva una grande aggressività che quando ha visto la mia cagnolina! … la sua essenza si ingrandiva e aggrediva il mio cane.”

II° sogno: “Ho sognato un aborto … cioè c’era una infiorescenza … che non era un feto ma nel sogno l’avevo associato. Come un pezzo di carne. Era buttato sul lavandino di casa. E mi son detta: questo è mio fratello. È comparsa mia madre e mi dice: l’ho perso. Era lasciva, come se non se ne fregasse. Io avevo la sensazione che l’avesse abbandonato senza alcun riguardo.

Dopo ho sognato di quei cani della pubblicità della carta igienica Scottex. Un labrador nero. Ho sognato questa madre molto buona con un cucciolo piccolo e se l’è mangiato … mi sembrava di aver in bocca anch’io … come se una parte di me fosse nella sua bocca, come se stesse schiacciando una parte di me … una sensazione schifosa … ma come fa una madre a mangiare il proprio cucciolo?!”

Il suo commento al sogno è: a volte mi immagino come sarebbe se avessi dei fratelli ed effettivamente il pezzo di carne e l’aborto riguardano proprio il complesso fraterno e dei probabili vissuti della propria madre. È come se i complessi del padre, della madre e della fratria stessero agendo contemporaneamente.

Questa è la trascrizione fatta da P della Imagerie 31: “In prima cosa ho immaginato uno scudo bianco ( = strumento di difesa che ricorda lo scudo di Teseo durante l’incontro con Medusa)  fatto di quel materiale delle cucine moderne, lucido, con la parte superiore tronca e quella inferiore a punta e una sporgenza tipo spigolo che correva lungo tutta la lunghezza dello scudo.

Non distinguevo i contorni o comunque ciò che mi circondava; sapevo solo di dovermi proteggere da proiettili che non vedevo, sparati da non so chi … sentivo i colpi ma li paravo tutti.

Mi hai chiesto di rilassarmi e di riprovare ad immaginare. (Avevo proposto di riprendere il rilassamento perché troppo tesa e il rilassamento non sembrava profondo, le immagini troppo visive, lo Scenario estremamente vago.  Considerati i sogni ho ipotizzato che P si trovasse di fronte ad una conflittualità estrema.)

Ho visto delle scale di legno massiccio. Erano dei ripiani in legno incastrati nel muro e senza struttura o ringhiera o corrimano. Il muro era grezzo e molto bianco. Queste scale si trovavano a collegamento tra il piano terra e il piano di una casa ristrutturata ma che aveva l’idea del rustico … Il piano terra era poco luminoso e l’arredamento era pure molto scuro. Parallelamente alle scale c’era un tavolo di legno massiccio, come le scale (solo che queste erano più di color mogano o di certo più chiare come tonalità) e sedie con schienale molto alto tutt’intorno. C’era pure una credenza anch’essa fatta nel medesimo modo.

Sono salita al piano superiore. Là la luce era decisamente molto più presente. Anche il questo caso le scale finivano come all’improvviso sul piano (per capirci, come quando si sale in soffitta che c’è la botolo, solo che in questo caso era aperto senza protezione). Parallelamente alle scale c’era un tavolo di vetro a forma ovale con sopra un cestino, le sedie attorno erano leggere e anche qua c’era una credenza ma il legno era molto molto chiaro. Le finestre erano molto ampie ma vedevo solo la luce e non i contorni. Tutte queste cose le ho visualizzate frontalmente e alla mia sinistra, la parte destra ha avuto poca attenzione. Procedendo sulla sinistra, a sinistra della credenza, c’era una porta aperta. Pensando di trovare finalmente la camera da letto mi sono diretta verso la porta e l’ho attraversata. Ho trovato una stanza molto più piccola della precedente, forse più della metà più piccola, più scura e c’era l’ennesimo tavolo, stavolta rotondo, sempre in legno, ma di un legno più leggero rispetto a quello del pian terreno.

In quel momento mi sono sentita girare tantissimo la testa e tutto il corpo, come trascinata in giù da un vortice che girava in senso orario. (Ricordo quando in precedenza P aveva scritto che la parte destra del corpo aveva partecipato poco durante la visualizzazione. Ora la parte superiore del corpo sembra entrare prepotentemente in scena provocando questa rotazione.)

Tu mi hai chiesto di provare ad esprimere questa sensazione con immagini o ricordi. Sentivo infatti come dei pesi agli avambracci e tra la gola e lo sterno, come se qualcuno mi stesse tenendo ferma e schiacciando. Però non mi è venuto in mente nulla. Ho immaginato dove potrei aver visto questo muro in realtà. Ho pensato ad una casa di montagna che avevamo preso in affitto una volta quando ero piccola. Ed ho incanalato questa sensazione in un grosso e brutto ragno giallo e nero che era nel buco sulle assi di legno tra la fine delle scale di legno esterne e l’ingresso probabilmente ad un vecchio fienile.

Mi hai detto di prendere lo scudo che avevo immaginato prima e di cercare di colpire il ragno più e più volte finché non lo avessi schiacciato. Però lo scudo era troppo grande, poco preciso e il ragno saliva nello scudo e mi attaccava e io sentivo la paura prendermi il collo e la schiena e stringermi nella sua morsa.

Allora mi hai detto di immaginare una spada lucente, di sentire l’impugnatura nella mia mano e di infilare la punta nel buco. Io così ho fatto e ho iniziato ad attorcigliare e arrotolare tutta la ragnatela attorno alla spada, intrappolando così anche il ragno al suo interno. E l’ho fatto con molta meno paura, quasi con sicurezza e decisione. Del tipo “preso, fatto”.

Poi mi hai detto di esporre la lama e il bozzolo alla luce, di far colpire con un raggio di luce potente la punta e di bruciare tutto finché non fosse rimasto nulla.

E così ho fatto. Il buco mi sembrava più pulito, “disinfettato” e “sterilizzato” ed era anche più luminoso … mi è sembrato quasi di essere diventata piccola piccola e di aver fatto un’ispezione sotto le travi per accertarmene. Però non ero ancora tranquilla perché ero all’ingresso della stanza che era il fienile ed ho pensato a quanto altro c’era lì dentro! Quindi mi hai detto di entrare e fare lo stesso procedimento di pulizia sulle pareti. Io ho completato anche le fughe e gli angoli con la punta della spada finché non è stato pulito tutto. L’ambiente sembrava molto più grande e chiaro ora ero del tutto tranquilla.

Ho immaginato di sbattere il piede a terra per rimarcare la cosa e mi sono avviata verso l’uscita della stanza … e del rilassamento”.

 

La poietica di Bachelard e di Burgos.

 

Il movimento nel processo immaginativo.

L’immagine che si produce in una Imagerie, come nel sogno, non è mai solo visiva, bensì è formata dalla compartecipazione di tutti i canali sensoriali, compreso il movimento. Il Soggetto, in stato di rilassamento profondo, quando si sente entrare nello Scenario viene chiamato Io Corporeo Immaginario. La persona che fa l’Imagerie è come se si sentisse lì, nello Scenario, in contatto con i suoi oggetti e personaggi, con i suoi drammi.

Lo Psicoterapeuta accoglie e condivide queste immagini e i loro drammi. È una Immaginazione vissuta  non in termini animistici, ma multisensoriale o cross modale, che si compenetra nella Natura del paziente, come fa un pittore quando della peonia dipinge il suo candore, il suo profumo, la sua luce, il suo movimento o la perla nell’orecchio della modella che ne vivica il suo essere perché essa possiede la luce.

Burgos J. usa volentieri il termine poietica per indicare del processo immaginativo l’atto creativo. Quest’ultimo è un movimento continuo di un’immagine, in uno spazio e in un tempo simultanei, capace di sfociare nell’emergere di una realtà nuova.

È necessario puntualizzare, anche se di sfuggita, una questione essenziale in merito al tempo, ovvero il tempo a cui noi ci riferiamo è l’istante, l’improvviso.

Bachelard G. e Burgos J. ci insegnano come l’Immaginario, l’Immaginazione e l’Immagine agiscano, si muovano e ci muovano. La loro attivazione in ambito psicoterapico determina processi curativi, ma anche creativi.

Bachelard osserva che la casa possiede una propria spazialità o geografia affettiva, basti pensare o meglio immaginare la sua verticalità che conduce alla soffitta o alla cantina. Tale movimento lungo l’asse produce/attiva memorie diverse collegate a parti psichiche differenti. Il movimento verso il basso, la cantina, ripropone il tema dell’incontro con la terra o con le acque scure, mentre il movimento ascensionale verso la soffitta conduce al razionale ed anche al controllo delle paure. Il movimento orizzontale porta all’esterno, al cosmo e al macrocosmo, alla rotondità espansiva; del resto il giardino, con i suoi muretti o aiuole, è simile ad una stanza esterna, la prima stanza esterna di una casa il cui tetto è il cielo. “La verticalità è assicurata dalla polarità della cantina e della soffitta … la razionalità del tetto alla irrazionalità della cantina …”

 

Bachelard parla di un movimento particolare delle immagini, ovvero del processo di estensione/espansione operato dalle immagini. Quello che colpisce è come anche Cartesio nelle sue riflessioni sulla materia parlasse di res extensa. Cartesio affermava[6]: “Non c’è dunque che una stessa materia in tutto l’universo, e noi la conosciamo per questo, solo che essa è estesa” “La natura della materia o del corpo preso in generale, non consiste in questo, che è una cosa dura e pesante e colorata o che tocca i nostri sensi in qualche altro modo, ma solo in questo, che è una sostanza estesa in lunghezza, larghezza e profondità … La sua natura consiste in questo soltanto: che essa è una sostanza che ha estensione”.

Cartesio sembra esprimere quello che noi sperimentiamo in una Imagerie o rêverie solitaria, ovvero viviamo una esperienza con la materia vissuta come in estensione. Accanto alla materia Cartesio concepisce un solo altro elemento il movimento, o meglio lo spazio e il movimento.

L’estensione/espansione  è uno degli aspetti particolari del funzionamento dell’Immaginazione, che sappiamo operare sulle immagini deformandole: “Talvolta la casa subisce un processo di ingrandimento, di estensione. Per abitarla bisogna avere una grande elasticità di rêverie” afferma Bachelard.

Lo spazio in Imagerie è uno Scenario vissuto, uno spazio che per tal motivo si espande, tutti gli oggetti tendono ad espandersi.

 

L’effetto del contenimento dato dalla casa sull’essere, anche nella forma/immagine di una crisalide, è proporzionale alla condensazione del riposo che noi vi possiamo trovare. Bachelard scrive:“Più condensato è il riposo (= rilassamento profondo con sensazioni di pace, serenità), più chiusa è la crisalide (= questo avviene quando ci si sente contenuti come in  un abbraccio che protegge e il corpo tutto viene percepito, così come viene vissuta la pelle psicologica che contiene), più l’essere che ne esce (il movimento o cinestesia è un’esperienza parallela a quella dello spazio che contiene) è l’essere di un altrove (= l’essere stesso ne viene trasformato e con lui lo spazio), più grande è la sua espansione (= vi è una proiezione dell’essere nell’Infinito e contemporaneamente l’essere sperimenta la materia come espansione).

Il soggetto può sentirsi contenuto o in movimento nello scenario di campagna, all’interno di una casa o di un mobile o di un fiore e lì sperimentare forme di regressioni e movimenti piccoli, sentendosi oggetto tra oggetti.

Ecco, come esempio, la trascrizione di una breve ma intensa seduta di psicoterapia con Imagerie di una giovane donna V. In questa Imagerie, la 18, V si appropria delle sue emozioni e si pone la questione di quanto lo psichico condizioni la parte fisica. Nello stesso tempo rivive le fasi di sviluppo senso percettivo e di conquista del linguaggio in una dimensione spazio temporale che sta tra il fetale e la nascita psicologica.

Imagerie:“Mi sento piccola di fronte all’armadio ( = corpo materno) di scuola, lo apro … dentro ci sono tante scatole … ci sono dei gessi che provocano fastidio ( = corpo materno che contiene tanti fratelli) … mi siedo all’interno dell’armadio … sono  perplessa perché mi sento ora oggetto tra gli oggetti, ora una bambina di pochi mesi”. Il sentirsi all’interno dell’armadio provoca una regressione a fasi fusionali e, contemporaneamente, vive il proprio interno come tanti oggetti piccoli in movimento. “Scendo dall’armadio gattonando ( = risperimentazione del movimento in gattonamento durante la seduta con ITP) … mi avvicino alla lavagna … salgo su uno sgabello … scrivo tanti LA – LA – LA – LA … ora compare il mio nome con la data di nascita”. V prova intense emozioni, le lacrime scendono a bagnare il viso, sente che si sta impadronendo del nucleo del linguaggio.

Durante il colloquio mi dirà che nell’Imagerie si sentiva piccola di pochi mesi e contemporaneamente sentiva i ricordi degli oggetti concreti vissuti che si mescolavano con l’armadio.

 

Il fenomeno del raddoppiamento dell’immagine e la differenza tra rêverie e imagerie.

Bachelard dopo aver preso confidenza con il nido introduce delle considerazioni interessanti relativamente alla semplicità delle immagini e ad un processo collegato, quello del raddoppiamento delle immagini: “Il nido come immagine di riposo, di tranquillità, si associa, immediatamente all’immagine della casa semplice. Dall’immagine del nido all’immagine della casa o viceversa, i passaggi non possono che avvenire sotto il segno della semplicità. Van Gogh, pittore di molti nidi e capanne, scrive al fratello: “La capanna dal tetto di canne mi ha fatto pensare al nido di uno scricciolo”. All’occhio del pittore, si verifica forse un raddoppiamento di interesse, se, dipingendo un nido, pensa una capanna, pensa ad un nido. Davanti a tali intrecci di immagini, sembra di sognare due volte, di sognare su due registri: l’immagine più semplice si raddoppia, è se stessa ed altro da sé.”

Bachelard non dà importanza al dramma, alla concatenazione di fatti, al racconto, bensì ad una e semplice immagine che da sola può produrre modificazioni (di cura). Egli non è riduzionista, bensì punta a dar valore al Dio delle piccole cose, in quanto fenomenologo dà importanza all’essenza, alla sostanza della materia. Cerca il nocciolo, va oltre la corteccia e la polpa, poiché è lì che si cela il seme, la vita dell’immagine.

 

La differenza tra rêverie e imagerie.

Vi è quindi differenza, così come ne parla Bachelard, tra rêverie e imagerie. La prima è semplice-efficace immagine che in Bachelard viene scritta. La seconda appare più complessuale, si manifesta in uno scenario, l’immagine si vive in un movimento trasformativo, viene raccontata in un dialogo con lo psicoterapeuta.

In Bachelard la scrittura prende il posto del dialogo. La scrittura e il dialogo sono delle strategie che aumentano il movimento già intrinseco all’immagine.

 

Imagerie di secondo grado.

Dobbiamo però porre un’altra considerazione partendo dall’osservazione di Bachelard che scrive come vi siano due registri. A cosa si riferisce? È interessante la risposta poiché richiama quello che Virel definiva Imagerie di secondo grado, quando cioè il soggetto viene invitato di sognare che sta sognando. L’Imagerie mentale di primo grado si forma spontaneamente dal pensiero onirico. Una volta che il soggetto è immerso nello stato iponoide e nello Scenario, mediante il suo Io Corporeo Immaginario allora può sognare che sogna.

La caratteristica di questo secondo piano dell’Imagerie mentale è quello di evocare dei ricordi. Il soggetto, come ipotizzo sia anche la proposta di Bachelard, rivive i ricordi come se si trovasse in quel tempo, in quel luogo, con quei personaggi. Bachelard per essere precisi scrive: “L’esuberanza e la profonda ricchezza di una poesia sono sempre fenomeni del doppione risonanza-retentissement: la poesia pare ridestare in noi echi (risonanza) profondi (retentissement) in virtù della sua esuberanza”

Le formulazioni utilizzate dal terapeuta possono essere diverse, si può suggerire al soggetto di collocarsi in un posto tranquillo e protetto e lì, mentre ha gli occhi chiusi e dorme, ricevere un sogno. Oppure, seguendo le indicazioni di P. Janet, invitare il soggetto a fissare un cristallo fino a vedere delle immagini al suo interno. Si può anche invitare il soggetto a guardare l’interno di una sfera di vetro, o fissare una lastra lucida dove si vanno precisando delle immagini.

In un modo più strutturato il terapeuta invita il soggetto a raggiungere un luogo protetto, caratterizzato da una atmosfera di mistero. Dovrebbe essere uno spazio contenitivo, raccolto come ad esempio una sala, una stanza, una nicchia, un angolo. Successivamente il terapeuta dovrebbe chiedere al soggetto una descrizione minuziosa e suggerire la presenza di una poltrona, di un trono dove sedersi. Il terapeuta dovrebbe anche chiedere al soggetto i vissuti, al fine di rafforzare l’inserimento dell’Io Corporeo Immaginario. Una volta curati tutti questi aspetti il terapeuta potrà suggerire di immaginare di chiudere gli occhi e davanti agli occhi chiusi chiedere che si affacci un ricordo. Una volta apparso il ricordo il soggetto dovrà ripercorrerlo e verbalizzarlo. Dopo la descrizione del ricordo si chiederà al soggetto di riaprire gli occhi in Imagerie e descrivere minuziosamente quanto vede attorno a sé.

Virel scrive: “Mentre l’Imagerie mentale è un fenomeno di immaginazione, l’imagerie di secondo grado è una memoria”. Viene chiamata di secondo grado perché si manifesta successivamente all’imagerie spontanea apparsa per prima.

 

Le immagini possono curare?

Qual è il rapporto tra gli oggetti esterni e le nostre rêverie? Le immagini possono modificare la nostra psiche alla stessa maniera delle sostanze psicotrope? È proprio così, tutti i pazienti ne sono testimoni, si sentono modificati da ciò che immaginano e se ne meravigliano.

Le immagini possono curare analogamente alle sostanze mediche psicotrope: “La coscienza immaginante tiene il proprio oggetto in una immediatezza assoluta (l’immagine che immagina)”.  Bachelard si collega ad un articolo di Jean Delay che spiega come le sostanze psicotrope siano componenti chimiche o naturali che hanno un tropismo psicologico. Ricordo che tropo in filosofia antica è un termine che indica i modi scettici della sospensione dell’assenso; mentre Aristotele lo usa per indicare i vari modi di operare del sillogismo, una figura traslata: metafora, metonimia e altre ancora. Quindi egli suggerisce: “E uno psicologo raffinato potrebbe usare delle immagini psicotrope. Perché vi sono delle immagini psicotrope che stimolano lo psichismo trascinandolo in un movimento continuo.”

Effettivamente è quello che succede in una seduta con l’ITP durante la quale si lavora con le immagini e delle immagini possono essere suggerite dallo psicoterapeuta quando il paziente si trova in difficoltà. “L’immagine psicotropa mette un po’ d’ordine nel caos psichico. Il caos psichico, è lo stato della psiche inattiva, l’esser-meno del sognatore senza immagini.” Bachelard offre qui una descrizione di cosa noi possiamo intendere per Immaginario malato. L’Immaginario è malato quando è bloccato. Però è l’immagine stessa che ci sveglia dal torpore: “L’immagine ci svegli dal nostro torpore e il nostro risveglio si annuncia in un cogito.”

Una delle caratteristiche della rêverie, ce lo dice anche la signora L. nel suo scritto, è il senso di felicità che si prova quando si entra nella rêverie. Lo stesso affermava Bachelard.

Riporto come esempio quello che ha scritto una mia paziente e che ho letto anche lo scorso anno. Ecco cosa scrive la signora L.: “Amico (il suo diario) mio tutto è molto particolare per me il mio mondo è come magico e riuscire a farlo vedere sentire ad altri è difficile perché sai non ci sono come parole frasi che possono come illustrare il mio mondo la dolcezza del mio mondo amico è come se nel mio mondo non c’è sofferenza è come se la sofferenza viene addolcita ha come un colore diverso amico in mezzo ai miei fiori in compagnia dei miei esserini del mio cagnolino il silenzio dove sono come al centro è come se da un movimento di vita i miei fiori comunicano il loro colore ha il sapore della dolcezza e della vita sai amico il mio comunicare con loro assume un movimento un’immagine sai amico anche la semplice inclinazione di un fiore sbocciato comunica è come se assume una sua personalità sai dietro nel mio spazio dentro il mio spazio ho delle fioraie che contengono una specie di gigli che hanno vari colori ed ognuno ha una sua dolcezza un suo sapore hanno il gambo molto lungo ma non sono tutti della stessa lunghezza e questo ha crea un movimento sono come una famiglia dove c’è un fiore che ha come una sua posizione che assume come una forza una sua personalità e la sua dolcezza è come se tutti gli altri gigli attorno hanno come una forma di spensieratezza di leggerezza sono come dei bambini allegri con la loro vivacità spensierata le loro piccole inclinazioni è come se personalizza il loro essere  amico quando uno di questi fiori sfiorisce amico è come se si posiziona dietro ad un fiore che sta per sbocciare o che è già sbocciato come per dare spazio e come posizionarsi in una sua riservatezza amico i suoi petali cadono in modo molto delicato e con una dolcezza molto delicata  e dolce come per far si che la sua sfioritura assuma una dolcezza e tutto questo nella sua riservatezza sai è come se non c’è sofferenza nella sua sfioritura ma gioia e serenità amico a volte quando sono la nel mio silenzio entro come dentro un mondo tutto particolare e magico è come se immagino delle cose che quando vado dal Dott. S. (psicoterapeuta) ed entro in quella stanza che è il mio spazio protetto dove mi sento protetta è come se libero le mie immagini se le mie immagini si sentono libere e protette quello che vivo  dentro lo spazio del mio mondo qui a casa ma che come le devo tenere chiuse perché ho anche paura amico perché non conosco o non so cosa ma amico la dentro il mio spazio dal Dott. S. mi sento protetta il silenzio che come mi accoglie mi avvolge e mi scioglie  sai è un silenzio come profondo un silenzio che si diffonde come verso il mio interno è come se  permette di liberare senza capire quello che vivo che sento nel mio spazio a casa sai è come portare il mio mondo quello che vivo qui nel mio spazio a casa in questo mio spazio protetto amico è difficile da dirti tutto questo perché è molto particolare sai io lo chiamo come magico sai a volte immagino di essere come una bambina piccola ed essere come ai piedi dei miei fiori sulla terra e loro mi proteggono creano come un’ombra che mi protegge ma amico è come se qui a casa vivo tutto questo e altre cose che immagino che vivo quando sono la dentro il mio mondo ma tengo tutto come chiuso ma amico quando arrivo la dal Dott. S. dentro il mio spazio il silenzio è come se magicamente mi permette di liberare di lasciare vivere tutto quello che vivo qui a casa amico a volte nella mia quotidianità  ci sono tante domande tanti perché ma che non trovano risposta e sai amico quando sono dentro il mio spazio dal Dott. S. è come che se senza capire e come spontaneamente nel mio comunicare con lo spazio con il Dott.S. è come se riesco a sentire trovare come delle risposte ma che non sono risposte come dirette ma trovano un collegamento amico è come se in una ramificazione anche lontana trovo sento come un qualcosa che mi conduce che si collega sai non sono come risposte dirette anzi molto lontane è come se non sono risposte ma un qualcosa si collega e è come se quando esco da la dal mio spazio senza come capire è come se un qualcosa prende come luce un colore ed è come se cosi magicamente un qualcosa si collega è come se percorre come un filo che va come a una origine è come se dare un colore a un qualcosa sai amico non so come dirti è come se attraverso un qualcosa di non materiale sento come un collegamento  ma che non è risposta perché sento un qualcosa che come si illumina e che come fa dei collegamenti è come essere lontani e magari quel qualcosa ha un significato che si collega ad un altro qualcosa non lo so se riesci a capirmi amico perché non riesco a dirti bene scusami sai è come se dare  spazio a delle cose che loro ti conducono come in un qualcosa in un altro spazio mi capisci amico  ed è come se magicamente tutto prende un suo spazio una sua posizione è come se un colore conduce in un altro colore formando come uno spazio colorato mi capisci amico uno spazio colorato dove come magicamente i colori si posizionano come dentro il loro piccolo spazio mi capisci amico”

“Amico mio se riuscissi a vedere i miei gigli che ho dietro dentro il mio spazio amico mio anche tu sentiresti di comunicare con loro amico il loro movimento amico è come”.

 

La poietica di Burgos.

I greci chiamavano poien il fare creatore. Burgos usa volentieri questo termine poietica per indicare i processi in azione, movimento continuo in uno spazio e in un tempo (= istante ) determinati, capaci di sfociare nell’emergere di una realtà nuova.

Egli però su questo emergere della realtà nuova afferma che l’accento non deve essere posto su ciò che è, ma su quello che potrebbe essere. Questo potrebbe significa che vi è una probabilità di esistenza.

Ne deriva che la poietica avrà per oggetto di studio le potenzialità inscritte in ogni situazione presente. Platone nel Cratilo definisce pothos come il desiderio struggente per un oggetto distante, che non può essere raggiunto, ma non per questo meno importante, poiché esso può dirigere la nostra curiosità verso la scoperta. Alessandro Magno, si racconta, quando guardava lontano veniva come spinto ad andare oltre. Lo spazio, come distanza, come sguardo rivolto all’orizzonte liberava il suo pothos. Liberava il suo desiderio per qualcosa che era sempre altro. L’altro è un’immagine che, di fatto, può essere raggiunta solo attraverso l’Immaginazione. Durante una terapia con l’ITP l’Immaginazione in generale e l’Imagerie nel particolare, provocano il movimento, equivalente ad un viaggio nello spazio interiore, alla ricerca dell’altro perduto o mancante.

Ne deriva che l’Immaginario è simile ad un continuum che va dall’azione, movimento continuo, operazione attuale verso l’abbozzo di una realtà nuova. Il suo obiettivo non è mai la completezza dell’azione in sé. Non è importante che la realtà sia completa, anzi. L’importante è che la creazione sia incompleta, mancante, perché collegata al desiderio. Possiamo infatti definire il desiderio come qualcosa al cui centro manca e per questo diviene spinta ad agire. Ancora, questo avviene perché quando c’è movimento si genera la liberazione dei possibili.

 

Patologia dell’Immaginario.

Ricordo che l’immagine in sé, in quanto dinamica, ha sempre movimento, non è mai fissa; pena una forma di patologia dell’Immagine stessa, di fissità, o di ripetitività fine a se stessa come avviene nei flash back dei soggetti con PTSD (Sindrome Post Traumatica da Stress).

L’angolo è uno dei più inquietanti/rassicuranti rifugi dell’anima dove la voce diventa silenzio e il movimento lascia spazio alla postura, la quale in fin dei conti è una sua particolare declinazione.

Il vissuto dell’angolo, l’angolo costruito è una forma concreta di autoterapia estrema, simile agli strumenti stringitrici del soggetto autistico ad elevato funzionamento. L’angolo è microcosmo porta o finestra verso l’Infinito, che Borges chiama l’Aleph.

L’angolo dove l’individuo si rannicchia, dove il bambino scappando dagli adulti o dal mondo si rifugia, o dove l’Essere si immobilizza, acquista così il suo valore. L’angolo è uno spazio che ha un suo valore sia psicologico, che geometrico.

Due donne, diverse, con una storia di abusi diversi, l’una abusata dal padre e altri uomini, l’altra dalla madre, mi raccontano questa loro precoce e tardiva ricerca: “Sento un bisogno estremo di protezione, non so da chi, non so da dove, ma devo proteggermi. Allora mi rannicchio su di me, abbraccio le mie ginocchia e sto lì in silenzio nel mio angolo.” Una di queste due donne per un certo periodo durante le sedute si sedeva per terra, tra la sedia e un mobiletto, costruendo così il suo angolo in terapia.

È tale la disperazione in questi esseri umani che solo l’angolo di una stanza o l’interno di un armadio, possono contenere, trattenere, condensare l’Essere  o il Sé, che altrimenti andrebbe in brandelli, in giro per lo spazio della casa o dell’Universo.

Il blocco mentale o il blocco dell’Immaginario trova nell’angolo o nell’Aleph, così ben descritto da Borges, la soluzione concreta perché questo spazio, l’angolo, raccoglie l’Essere per poi proiettarlo nello spazio.

Stando concretamente rannicchiati nell’angolo, il passato (il trauma) non ha più memoria e il presente non è presente. La persona allora procedere in un al di là, equivalente a fare un passo oltre i ricordi, riattivando forse l’Immaginario.

Cosa significa entrare nell’Immaginario? Alice[7] e per il suo tramite il suo scrivano, Charles Dodgson, ma anche Jorge Luise Borges attraverso l’Aleph, quindi da un pozzo il primo scrittore o da una cantina il secondo, entravano in contatto con il punto d’incrocio (l’angolo) dove si determinano, di fatto, infinite immagini. L’Immaginario si attiva, nella sua funzione, in questo spazio e il soggetto si trova proiettato nell’Infinito.

Jorge Luise Borges nel suo Aleph[8] lo racconta così:

“ … in un angolo della cantina c’era l’Aleph. Spiegò che l’Aleph è uno dei punti dello spazio che contengono tutti punti

… il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli

… in quell’istante gigantesco, ho visto milioni di atti gradevoli o atroci; nessuno di essi mi stupì quanto il fatto che tutti occupassero lo stesso punto, senza sovrapporsi e senza trasparenza

… ogni cosa era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’Universo. Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi l’argentea ragnatela al centro di una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra) …

… per la Megenlehre (l’Aleph) è il simbolo dei numeri transfiniti, nel quale il tutto non è maggiore di alcuno dei componenti

… I fedeli che si recano alla moschea di Amr, al Cairo, sanno bene che l’universo è racchiuso nell’interno di una delle colonne di pietra che circondano il cortile centrale.”

 

Stanislavskij e Ruggieri.

 

L’attore e la recitazione.

Secondo il regista Stanislavskij[9] l’attore nel recitare deve compiere un lavoro di identificazione che procede a due livelli, quello immaginativo e quello concreto.

Il lavoro concreto consiste nella individuazione e riproduzione dei gesti, atti e piccole azioni che come tali definiscono puntigliosamente le caratteristiche del personaggio.

Il lavoro immaginativo è di fatto il processo di concentrazione sulle rappresentazioni mentali di quelle azioni o gesti di quel personaggio in un determinato scenario/contesto.

L’attore non deve assolutamente cercare di riprodurre direttamente l’emozione, questo perché essa nasce per via indiretta, cioè tramite i gesti e le azioni concrete. In altri termini, e questo interessa anche noi terapeutici, l’emozione nasce anche dai gesti, dalle modificazioni corporee, dai movimenti. I prodotti immaginativi, anch’essi al pari dei gesti, funzionano come deterrenti, come stimoli che generano emozioni.

L’ITP partendo dalla pratica del contesto psicoterapico sostiene anche l’inverso, seguendo e proponendo un modello circolare, cioè quello per cui dalle emozioni si può risalire ai gesti o tensioni, o meglio si suggerisce al soggetto in rilassamento di lasciar trasformare le sensazioni/emozioni in immagini in uno Scenario dove interviene il movimento. Del resto la parola emozione significa giustamente movimento interno.

Il modello psicofisiologico proposto da Ruggieri[10] è questo:

  1. gli stimoli esterni o interni (rappresentazioni mentali, immagini, ricordi) agiscono su centri sottocorticali specifici come l’ipotalamo o il sistema limbico e tramite questi stimolano il sistema muscolare ed il sistema neurovegetativo
  2. questi ultimi (muscoli e visceri) mediante un sistema d’informazioni di tipo reafferenziale, a feedback, comunicano alla mente la presenza dell’attività in fase di esecuzione o in fase di immaginazione
  3. la mente o sistema nervoso centrale sintetizza tali informazioni di base sensoriali cutanee, visive, acustiche, propriocettive (provenienti dai muscoli, tendini e articolazioni)
  4. quando questa informazione sensoriale di ritorno viene sintetizzata, allora assume la forma di vissuto/emozione/sentimento, di cui il soggetto ha perso le radici sensoriali, ha smarrito la coscienza della provenienza, ma di fatto, questo è fondamentale per noi.

Per noi è essenziale evidenziare come le emozioni, i sentimenti hanno le loro radici nel corpo. Ogni stimolo, esterno o interno, viene scritto e trasformato in engrammi corporei. Sono engrammi viscerali e motori, che diventano auto segnali.

Le modificazioni corporee generano i sentimenti, i vissuti, le emozioni e viceversa queste modificano il corpo nelle sue molteplici strutture.

Cosa provocano le tensioni muscolari? Tali tensioni così come bloccano i processi emozionali allo stesso tempo inibiscono il processo immaginativo. È particolare come le persone che si sottopongono a manipolazioni delle contratture hanno come contro altare, la manifestazione di crisi di rabbia, di pianto incontrollabile, di terrore. Solo la canalizzazione o trasformazione di questa energia in immagini può determinare il processo immaginativo e non facilitare solo il meccanismo dell’abreazione.

Per risolvere questi problemi Stanislavskij suggeriva di lavorare sulle posture, ovvero sulla riconquista del tono muscolare. Egli suggeriva inoltre un lavoro a livello immaginativo, sconsigliando l’attore di riprodurre sforzatamente i vissuti emozionali. Sforzatamente ovvero per il tramite della coscienza o dei soli pensieri. Egli invitava l’attore ad immaginare tutti i piccoli atti concreti, i dettagli della situazione che come tali potevano indurre le emozioni. In altri termini il personaggio veniva definito mediante i suoi gesti, le sue azioni concrete, il lavoro sui suoi oggetti, inseriti sempre in un contesto o scenario. Il contesto del personaggio diviene lo scenario interiore dell’attore. Similmente, nell’ITP o nei sogni lo Scenario è il mondo interiore, è la spazializzazione del mondo fantasmatico del soggetto.

Egli invitava l’attore in un lavoro di presa d’atto del proprio immaginario, aiutandolo a conquistare un senso di fiducia verso il proprio immaginario. Infatti l’immaginazione di una azione, di un gesto sul piano fisiologico è azione.

Per recitare una parte, un ruolo è importante che l’attore possieda una propria personalità che adatterà di volta in volta. La mancanza di personalità, di identità produce un vuoto nel senso che la maschera non potrà appoggiarsi. La mancanza di personalità produce dei rischi per l’attore, in quanto che egli può essere risucchiato dal personaggio.

A tal proposito possiamo affermare che i muscoli contribuiscono alla formazione dell’immagine del corpo e forniscono una prima caratterizzazione della sintesi, ovvero l’azione e il senso di vitalità primordiale. Il sistema cinestesico segnala livelli infiniti, nelle loro sfumature, di tensioni e distensioni. A livello psichico sarà il processo narcisistico che unificherà le tensioni/distensioni muscolari.

Il senso estetico dell’attore consiste nel raggiungere una giusta distanza, un corretto dialogo tra la maschera del personaggio con i suoi gesti e il proprio Io.

Noi tutti siamo contemporaneamente attori e persone, siamo noi e recitiamo dei ruoli sociali. Noi tutti siamo costantemente alle prese con degli apprendimenti.

I bambini più difficili ed infelici sono quei bambini che presentano un Disturbo specifico della funzione motoria (F 82 ICD 10). Mi riferisco ai bambini goffi, o con disprassia evolutiva che si associa ad altre alterazioni. In altri termini bambini che hanno un sistema motorio alterato sono bambini che hanno un futuro molto difficile sui piani degli apprendimenti e della vita sociale. Sono bambini che non riescono a portare le maschere della vita perché è come se fossero vuoti.

 

L’estetica del movimento.

 

Il movimento in sé dell’Immagine.

Possiamo affermare che ogni immagine in sé si trova in una situazione di movimento, è in movimento. Questo perché ogni immagine possiede una cinesi interna.

Affinché avvenga questa trasposizione, sia del movimento in sé sia dell’immagine, sul piano Immaginario, il soggetto deve trovarsi in stato di rilassamento o come affermava Bachelard G. in stato di riposo. In altri termini il movimento immaginato, il movimento vissuto presuppone la sospensione della motricità e l’assunzione del riposo o passività.

Intendiamoci, uso il termine passività in una accezione particolare, non come assenza, o immobilità, ma come accoglienza.

Nella tessitura[11] di un tappeto il nodo o legame, è il punto d’incrocio in cui agiscono le forze contrastanti sull’individuo, offrendogli stabilità. La linea orizzontale, quella più in sintonia con la questione della passività, così come ne parliamo qui, è la linea della trama, rappresenta lo sviluppo di uno degli stati dell’essere, o gradi dell’Esistenza, raffigura lo svolgersi degli avvenimenti in un certo stato, riproduce le applicazioni concernenti i diversi stati, racconta il principio femminile o principio passivo.

La linea verticale è la linea dell’ordito, mutabile, unisce tra loro tutti gli stati di un essere o tutti i gradi dell’Esistenza collegandone i punti corrispondenti, rappresenta il principio attivo o maschile.

I legami della tessitura è come se riparassero, grazie alle linee orizzontali, una iato, la separazione altrimenti esistente tra le linee verticali. Questo significa che l’Essere umano per completarsi ha bisogno dell’azione contemporanea della trama e dell’ordito, delle relazioni tra l’ambito femminile e maschile, sempre presenti e compenetrati.

Qualsiasi immagine in sé possiede movimento, è cinematica e attivatrice di modificazioni e nello stesso tempo, quando è presa nell’Immaginario, ne viene ulteriormente deformata e trasformata.

Considerando l’aspetto cinematico dell’immagine da un punto di vista psicologico si può parlare di estetica dell’immagine. L’immagine provoca bellezza, piacere, dolore.

 

La danza del ballerino e il soggetto autistico.

Un’immagine può produrre spontaneamente una successione di altre immagini. Una sorta di cinematica spontanea, una specie di figliolanza generativa.

Nella danza artistica tutto il corpo, anche la singola punta di un dito, disegnano linee. Tutto il corpo del ballerino è in ogni momento, ininterrottamente, una composizione lineare, in continuo succedersi. La danza è una ricerca folle, nella sua bellezza estetica, di riempimento delle superfici infinite, una investigazione dello spazio tramite il tracciare una storia fatta di linee, un tentativo – fallito nel soggetto autistico – di dare dei limiti allo spazio.

L’estremo opposto della danza è il movimento del soggetto autistico che traccia linee, abbozza percorsi, imitando l’indecisione del soggetto errante. Qual è la differenza tra un ballerino e un soggetto autistico? Il bambino autistico è in continua oscillazione tra la ricostruzione del punto in movimento (dondolamento) e la ricerca dell’oggetto perduto, della meta che sembra giocare a nascondino dietro l’angolo, costringendolo così a tracciare linee erranti, imprevedibili.

Formuliamo delle ipotesi: il bambino autistico ha perso qualcosa e con il suo movimento ripetitivo cerca di ricostruire il senso della perdita? Il bambino autistico sta cercando disperatamente un orientamento? Lavorando con soggetti ad elevato funzionamento autistico sembra proprio così. Una signora racconta che quando cammina per la strada, in particolare se c’è molta gente, si sente la testa girare, ma non è solo questo, non è propriamente una vertigine, puntualizza. C’è dell’altro. Vi è il disorientamento, la perdita di punti di riferimento. Poi i piedi e le gambe … ebbene questi non sanno proprio dove andare. Ha cioè perso se stessa.

 

Il gesto e l’estetica.

Quando noi ci poniamo come spettatori di una danza possiamo affermare che l’estetica del gesto ha a che fare con quello che rimane di ciò che appare e scompare dell’atto, nel medesimo istante. L’istante prende il sopravvento.

Direi che lo stesso fenomeno avviene quando ci poniamo, con tutta calma e riposo, per un tempo prolungato, di fronte ad un quadro. Cosa succede? Accade che l’immagine, altrimenti statica se viene guardata in maniera frettolosa, quando la fissiamo affascinati per un lungo periodo di tempo, si trasforma in immagine estetica che si muove, provocando piacere sensoriale. In questo caso è il colore in primis che determina il movimento dell’immagine, delle sue forme. È il colore che da visivo diventa o sussume, nel senso che assorbe o provoca, movimento nell’immagine. È un movimento immaginario che provoca, quando ne siamo spettatori, un senso di meraviglia: le figure nel quadro si muovono! … e provocano emozioni. Sottolineo che la parola emozione significa movimento interno.

La danza richiede una gestione millimetrica dell’equilibrio, una padronanza del corpo e dello spazio. Una padronanza che fa oscillare il ballerino come l’autistico in quel rapporto tra il punto, la linea e lo spazio – che poi ripeto è quello che succede anche nella pittura -.

È interessante a tal proposito vedere come si è sviluppata la disciplina scientifica che si chiama cinematica dai suoi esordi ai nostri tempi. Essa ha iniziato la sua ascesa scientifica partendo da studi fotografici che volevano comprendere se ad un certo punto effettivamente le zampe di un cavallo, quando corre, sono tutte sollevate. In altri termini lo studio fisico della cinematica è iniziata dalla immobilizzazione dell’immagine. È senza alcun dubbio un paradosso che ritroveremo quando accenneremo a Zenone e a Valéry.

Non ci può essere fotografia del movimento se non scivolando nel paradosso dell’istante che popola l’immagine. Infatti osservando la foto di una danzatrice, di un uccello in volo non si può non vedere, o meglio, immaginare anche il suo movimento. Come può avvenire che l’immagine, resa immobile dalla foto della macchina fotografica o dalla tela di un quadro, possa essere in movimento e quindi diversa da sé, in ciascun momento, diventando così viva?

E’ possibile ricercare il senso del paradosso riferendosi al linguaggio dei miti dove si trova il tema del Doppio. Ad esempio nella tragedia scritta da Euripide, vi è descritta la dinamica della duplicazione di Elena, il cui fantasma è talmente reale da causare la guerra di Troia. Infatti la bella Elena che sembrava essere il motivo per cui si uccidono fra combattenti, non si trovava a Troia. In quel luogo si trovava la sua immagine indistinguibile dalla donna reale, ovvero il fantasma, mentre Elena in carne e ossa si trovava in Egitto dove l’aveva condotta Ermete. A Troia lei esisteva come soffio d’aria, come idolo – che è fatto della stessa radice di idea -, come nome/Elena ripetuto all’infinito ovvero parola che in sé comunque è azione, come fantasma.

Ho letto a tal proposito un bellissimo mito hawaiano che ricorda e ricalca il paradosso di Elena e anche i paradossi di Zenone. In questo mito come in altri miti esiste amore appassionato ed agisce l’inganno perpetrato tramite una forma rudimentale di cinema-tica :

“Il re Konikonia invaghitosi di una dea del mare, Lalahona, tenta di conquistarla mediante un inganno, sapendo dal fratello di lei che è innamorata dell’immagine scolpita del marito, temporaneamente assente. Innanzitutto Konikonia fa mettere un’immagine del marito nella sua casa, poi due immagini identiche davanti alla porta ed altre due ancora all’entrata della cinta reale. Altre immagini dovranno essere poste in fila indiana fra la cinta e la spiaggia. Inoltre sarà necessario allineare delle piroghe fra la spiaggia e il banco di corallo e mettere un’immagine sopra ogni piroga.

Infine un’altra immagine viene legata ad una lenza e poi gettata in fondo alla scogliera dalla canoa più lontana.

Tutto viene predisposto.

Quando l’immagine attaccata alla lenza tocca il fondo del mare davanti alla casa della dea, costei crede che suo marito sia tornato e lo abbraccia, ma scorgendo un’altra immagine in superficie sale per baciare anche quella.

Così passando di immagine (significante) in immagine (significante), questa dea dal cuore un po’ leggero arriva alla casa del re: vi entra e si corica accanto all’ultima immagine.

Quando si addormenta, Konikonia prende il posto dell’immagine.

“Il matrimonio è così consumato”.

In sintesi sono due gli elementi contenuti nel paradosso del mito hawaiano:

  1.              I.      La dea scambia l’immagine-significante-Dio-suo marito per la simbolizzazione oggetto-significato-re-un uomo.
  2.           II.      Confonde le relazioni spaziali con le relazioni temporali, il simultaneo con la successione: la dea è illusa di vedere, nella serie di statue, suo marito in movimento, passando da un’immagine all’altra.

 

Valéry P. e la danza.

 

Da “Poesie”[12]: Le vane ballerine vennero, lievi fiori, figurine d’oro, fanciulle sottili e sì vaghe, cui una tenue luna si frange: ora in fuga melodiosa vedile alla selva illuminata. D’iris e di malva e di rose notturne son le grazie schiuse di notte ai loro balli. Quanti velati effluvi quelle dita d’oro dispensano! Si sfoglia il dolce azzurro nel bosco morto, un’esile acqua splende appena, di rugiade antiche il pallido tesoro, il cui silenzio in fiore sale: ancora in fuga melodiosa vedile alla selva illuminata. Mani hanno gentili per i calici amati, poca luna sulle pie bocche; le braccia leggiadre con assopiti gesti, sotto i mirti amici, fulvi legami e carezze si sciolgono … Ma alcune, prigioniere meno del ritmo e di remote arpe, vanno con un sottile passo al lago sepolto a ber dai gigli l’acqua fragile dove dorme il puro oblio.”

Questa poesia può ben essere la visione di un balletto come viene descritta in L’anima e la danza, ovvero la riproduzione di un quadro di ballerine di Degas, e si legga a tal proposito anche il libro Danza. Disegno[13].

Di fatto Valéry pur essendo attratto dall’aspetto immaginativo non riuscirà quasi mai a prendere le distanze, come invece ha fatto Bachelard, dall’aspetto concettuale. Di fatto, molte delle sue considerazioni sono estremamente interessanti per quanto riguarda il nostro punto di vista.

Valéry sosteneva che è attraverso il sensorio e i suoi stati che noi iniziamo il percorso di costruzione delle cose e dello spazio. Qual è il ruolo del movimento in questa costruzione? Ogni sensazione in sé sprigiona movimento e la danza riesce a spiegare bene tutto questo.

In L’Ame et la Dance, si trovano a dialogare tre personaggi Socrate ( = la saggezza), Fedro ( = l’immediatezza) e Erissimaco ( = l’analisi), che saranno diversamente attratti dalla prima ballerina Atiktè ( = l’Inaccessibile). I tre personaggi son lì per parlarsi mentre osservano le proprie emozioni provocate dai movimenti della danzatrice e dei loro stessi movimenti e sensazioni indotti. Vi è una esplosione interiore di opposti, di sensazioni che si compenetrano: Ora il reale, ora l’illusione ci coglie; e l’anima ha come risorsa solo il vero, che è la sua arma e la menzogna la sua armatura”. L’anima si serve quindi di questa duplicità il vero/arma e la menzogna/armatura. Secondo Erissimaco entrambe tendono allo stesso fine come la notte ed il giorno, il caldo e il freddo.

La parte di Valéry incarnata da Socrate afferma che la vita stessa è movimento, che in sé ha qualcosa di misterioso, mai cioè del tutto definibile concettualmente: La vita è una donna che danza, e che cesserebbe divinamente di essere donna se lei potesse obbedire all’elevazione che ha fatto fino alle stelle. Ma siccome non possiamo proseguire all’infinito, né nel sogno né nella veglia, così lei ritorna sempre se stessa; cessa di essere fiocco di neve, uccello, idea, ciò che dunque piacque al flauto che lei fosse, perché la Terra che l’ha mandata, la richiama …” (136-137). A questo rispondo le danzatrici alzandosi così che egli riesce a cogliere il loro linguaggio: “Le loro mani parlano, i loro piedi sembrano scrivere … Qui, la certezza è in gioco; si direbbe che la conoscenza ha trovato il suo atto e l’intelligenza ad un tratto acconsente alle grazie spontanee …” (137-138). Ecco, qui Valéry in poche parole dischiude alcuni elementi essenziali: le mani parlano e i piedi scrivo, la conoscenza e l’intelligenza si introducono nella vita tramite l’istante.

Subito dopo Fedro, il semplice e immediato, coglie l’aspetto della compartecipazione sensoriale: “Guardate quella! … si flette, prende in prestito e restituisce così perfettamente la cadenza, che se io chiudo gli occhi, la vedo esattamente attraverso l’udito.” Le immagini diventano molteplici: “Alcune donne fanno mille cose: Mille fiaccole, mille peristili effimeri, delle spalliere, delle colonne … le immagini si fondono, svaniscono … io sogno questi contatti inesprimibili che si formano nell’animo, tra il tempo, tra le bianchezze e i gesti di quelle membra a tempo, e gli accenti di questa sorda sinfonia sulla quale tutte le cose sembrano dipinte e portate … io respiro un profumo di moscato e composito, questo miscuglio di ragazze incantevoli.”

L’effetto di Athiktè, forse anche perché è stato preparato o introdotto dalle altre ballerine, mentre gira in cerchio, è quello di trasportare i tre personaggi verso una trasformazione: “ … questo esserino fa pensare … riunisce su di sé, assume una maestà che esisteva confusa in noi tutti e che conviveva impercettibilmente con gli attori di questa corruzione … una semplice andatura ed ecco la dea; e noi, quasi degli dei! (146). Al che risponde Erissimaco che lei addirittura ha una funzione pedagogica e quasi catartica, rafforzando così l’osservazione precedente del tesserino che fa pensare: “Lei ci insegna ciò che noi facciamo, mostrando chiaramente ai nostri animi ciò che i nostri corpi compiono in maniera oscura. Alla luce delle sue gambe, i nostri movimenti immediati ci sembrano dei miracoli”. E Fedro lo segue in questo cogliendo addirittura l’insegnamento della matematica: “L’ampiezza dei suoi passi è in sintonia col loro numero che proviene direttamente dalla musica. Ma numero ed ampiezza sono d’altronde, segretamente armonizzati con la natura”.

Valéry con le parole di Fedro entra nel tema antico dell’Estetica così come era intesa dalla scuola pitagorica. Contemporaneamente inizia a porre le basi per affrontare il difficile argomento del rapporto tra spazio e tempo, così come sono presenti nella disamina del movimento, ovvero gli aspetti della durata e dell’istante, e per converso il tema dell’immobilità che in alcuni suoi scritti ha risolto nella valorizzazione della lentezza, ovvero nella scoperta della lentezza. Tutto ciò avviene quando Athiktè si immobilizza e Socrate commenta: “Istante assolutamente vergine. E poi istante in cui qualcosa deve spezzarsi. La gravità cade ai suoi piedi; e quel gran che si abbatte senza alcun rumore lo fa capire. Non si deve vedere il suo corpo solo in movimento … Qualche cosa rompersi … E tuttavia è anche come una saldatura.”

Di fronte a questo silenzio del movimento insorge Erissimaco: “Voglio vedere con una tenera emozione, spuntare su questa giovane piena di vita, il sacro movimento”. E quando lei, quasi rispondendo al desiderio di Erissimaco, si muove e danza Fedro osserva: “Ed ecco che lei si fa una dimora un po’ al di sopra delle cose … e si direbbe che si sistemi un nido sulle sue bianche braccia … lei incrocia e discrocia, trama la terra con la durata … oh l’affascinante opera, il preziosissimo lavoro delle sue dita dei piedi intelligenti che attaccano, che schivano, che amano, che si inseguono e volano via!”.

Valéry per il tramite di Socrate pone la domanda: che cos’è la danza? Essa è atto puro prodotto dalla metamorfosi di tutte le sensazioni concatenate, integrate, sintetizzate dal movimento. La danza è simile al fuoco, la danzatrice è simile alla fiamma: Ma cos’è una fiamma se non il momento stesso? Quello che c’è di più folle e di gioioso e di formidabile nell’istante stesso! Fiamma è l’atto di quel momento che sta tra terra e cielo. Amici miei, tutto ciò che passa dallo stato pesante a quello sottile, passa attraverso il momento di fuoco e luce …

La grande danza non è forse questa liberazione del nostro corpo tutto posseduto dallo spirito della menzogna, e dalla musica che è menzogna, e inebriato dalla negazione della nulla realtà?

Vedete questo corpo che saltella come la fiamma sostituisce la fiamma, vedete come schiaccia e calpesta ciò che è vero? Come distrugge furiosamente, allegramente, il luogo stesso in cui si trova, e come si esalta degli eccessi dei suoi cambiamenti?”

Eccolo (il corpo) finalmente in questo stato paragonabile alla fiamma, nel mezzo degli scambi più attivi … Non si può parlare di movimento … Non si distinguono più i suoi atti dalle sue membra …”. Ecco, qui Valéry tocca con maggiore coraggio il paradosso dell’annullamento del movimento, affrontato anche da Zenone e da altri, ovvero abolisce la durata, l’estensione dello spazio nel tempo, la compenetrazione dello spazio nel tempo, la scomparsa del corpo nel movimento.

La fiamma è antitesi estrema, è distruzione che avvia un processo trasformativo che conduce alla sintesi e questo avviene nell’istante, nell’immediatezza: “Guarda, guarda! Lei danza laggiù e ci fa vedere ciò che tu cerchi di dirci … lei fa vedere l’istante … lei carpisce alla natura degli atteggiamenti impossibili, sotto l’occhio stesso del tempo … che si lascia ingannare … lei attraversa impunemente l’assurdo … divinizza nell’istante, e ne fa dono ai nostri sguardi!

La danza continua e come la terapia raggiunge il centro, l’asse del mondo: “Lei resterebbe immobile al centro del suo movimento. Isolata, isolata simile all’asse del mondo …

È viva o è morta? Athiktè parla: “Io non sento nulla. Non sono morta. E tuttavia, non sono viva (179).

E ancora Socrate le chiede da dove ri-torni e lei: “Io ero in te, oh movimento, fuori da tutte le cose.

 

Zenone e il movimento come illusione.

 

Zenone come si sa ha inventato quattro paradossi per dimostrare che il movimento se preso nelle reti del pensiero o noumeno non esiste, è un’illusione. Egli aveva agito in difesa di Parmenide il quale sosteneva che la realtà non può essere colta attraverso la sua manifestazione fenomenica, ma attraverso un processo di riflessione razionale, concettuale.

 

Il paradosso.

Il significato etimologico di paradosso richiama con la parola doxa, l’opinione comune a cui l’altra parte della parola para evidenzia il contrappunto, ovvero il “contrasto con l’opinione comune”. Il termine paradosso indica anche l’uso di ragionamenti logici, ma privi di soluzioni apparenti che fungono però da stimolo di riflessione, come i koan giapponesi.

Il paradosso compie un lavoro importante allorché non si riesce a superare la soglia qualsiasi essa sia. Però il paradosso individua la soglia senza, per così dire, vederla in dettaglio, né mostrandola, se non fingendo di introdurvi quando ascoltate la frase o in altri casi un semplice gesto.

Di fatto il paradosso porta con sé un insegnamento raffinato o altrimenti inconcepibile, in altri termini non concepibile attraverso il pensiero comune. Vedi a tal proposito uno dei paradossi più famosi quello di “Achille e la tartaruga” che si può comprendere solo utilizzando un linguaggio matematico e filosofico in cui si cerca di spiegare l’infinitesimamente piccolo che spiega perché Achille piè veloce perse la gara. Per andare oltre bisogna sempre lasciare le proprie certezze, il pensiero razionale. Elena spiega a Menelao che la guerra di Troia è stata combattuta per riconquistare il suo, di lei, fantasma, mentre lei in carne e ossa, di fatto, era non molto lontana da Atene e non era mai stata di fatto rapita e portata a Troia.

Il paradosso consente l’accostamento di realtà opposte, un po’ come fa Magritte che cerca di stupire disegnando immagini per cui: ciò che si vede in un oggetto è un altro oggetto nascosto. Nell’opera intitolata L’impero di luci egli rappresenta contemporaneamente il giorno e la notte, come per dire: una cosa può essere contemporaneamente due cose diverse nello stesso spazio/tempo. Questo significa che, a questo livello, la cosa rappresentata non è ancora una sintesi.

Il paradosso è quindi un momento di passaggio che sospende il tempo per dare ad ogni persona il suo tempo, se vuole e lo accetta, per approdare successivamente ad una comprensione più profonda. È un tempo, quello del paradosso, in cui vi è spazio solo per lo stupore, un momento in cui la persona non si fa domande razionali, bensì vi è una distruzione o un mettere in silenzio il pensiero razionale.

Il paradosso è simile al linguaggio fattuale di cui parla Bion, un momento cioè in cui qualcosa sta per avvenire, ma non si ancora che cos’è. Ecco che l’artista o il filosofo o il matematico vi si inserisce e cerca darne una rappresentazione.

 

Il paradosso della freccia.

Assumiamo che esista un corpo in movimento. Per fissare le idee, assumiamo che tale corpo sia una freccia.

I^ Osservazione: La freccia si muove.

II^ Osservazione: Ad ogni istante la freccia è in una posizione ben determinata. Per cui se un corpo si muove, ad ogni istante, esso è in una posizione ben determinata, ma sappiamo che la freccia si muove; dunque ad ogni istante la freccia è in una posizione ben determinata.

III^ Osservazione: La freccia non si muove. Se ad ogni istante, un corpo è in una posizione ben determinata, esso non si muove, ma abbiamo appena provato che, in ogni istante, la freccia è in una posizione ben determinata. Dunque la freccia non si muove.

Conclusione: nessun corpo in movimento può esistere.

Diciamo che le ipotesi sono tre e ben distinte. Di fatto per arrivare alla conclusione almeno una delle tre è falsa.

Possiamo tentare di comprendere, sempre che sia possibile abbracciare nella sua complessità, questo paradosso se consideriamo che noi sovrapponiamo quotidianamente in maniera spontanea due rette che di fatto andrebbero distinte: la retta dello spazio e la retta del tempo. La freccia, in altri termini, la vediamo muoversi e ne sperimentiamo il suo movimento, perché la collochiamo su tali rette. Però, di fatto, queste due rette non sono in un rapporto isomorfico.

Seguendo lo stesso ragionamento che poi è anche esperienza, possiamo affermare gli “istanti” così fondamentali se da un punto di vista geometrico/spaziale sono dei punti di un segmento spaziale R continuo da un punto di vista temporale sono in uno spazio tempo T discreto. In R vi sono segmenti convergenti, in T segmenti temporali divergenti.

Il movimento appare quindi come una variazione dello spazio nel tempo, una trasformazione dello spazio nel tempo.

 

 

Qual è il tuo volto originario,

prima della nascita del padre e della madre?

Mostramelo …” koan



[1]L’ITP è l’acronimo che si riferisce alla Tecnica Immaginativa del Profondo inventata da Leopoldo Rigo.

[2] Valéry P., “Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci”,  Abscondita, 2007.

[3] Valéry P., “L’anima e la danza”, Mimesis, 2014.

[4] Complesso è un termine usato seguendo il pensiero di Jung che a sua volta si è ispirato allo studio delle idee fisse di Janet, ovvero quel materiale più o meno inconscio (“Il progetto della psicologia complessa”) di tipo emotivo ed affettivo che avvolge le immagini, i pensieri. Jung immaginava i complessi come frammenti di psiche dove si trovano percezioni, sentimenti, volontà. Ricavò concretamente le sue definizioni partendo dal test di associazione di parole. Il complesso è una unità con proprio nucleo dove la coscienza ne viene fagocitata e governata.

[5] Il complesso fraterno è l’analogo di tanti altri complessi, forse il più conosciuto è quello edipico, che per esistere psicologicamente non necessita della presenza concreta di un fratello o sorella.

[6]Cartesio, Principia Philosphiae.

[7]Mi riferisco al libro di “Alice nel paese delle meraviglie”.

[8] Borges J. L., “L’Aleph”, Biblioteca Adelphi, Feltrinelli, p. 131-137, 2009

[9] Stanislavskij S. C., “ Il lavoro dell’attore”, Laterza, Bari, 1985-

[10]Ruggieri V., “Mente corpo Malattia”, Il Pensiero Scientifico, Roma 1988.

[11] R. Guenon, “Il simbolismo della croce”, Rusconi, Milano, 1973, p. 119-126.

[12] Valéry P., “Poesie”, Feltrinelli.

[13] Valéry P., “Degas. Danza. Disegno”, Feltrinelli, Milano, 1980.