Il Mutismo Elettivo


In questo numero della Rivista di Psicoterapia Immaginativa affronteremo il tema del mutismo elettivo o mutismo selettivo. Il bambino pur sapendo parlare in determinate situazioni e solo in queste non usa il linguaggio verbale, presenta posture rigide.

In tutti i casi clinici che verranno presentati il lavoro psicoterapico con i bambini prediligerà lo spazio che diventerà proiezione dello spazio psicologico interno. Lì, nello spazio relazionale terapeuta-stanza, il bambino sperimenta in un ambiente protetto, vari spazi simbolici. Saranno poi favorite regressioni d’età che daranno la possibilità ai bambini di ri-sperimentare forme di realizzazioni simboliche o reali. Alcune volte i bambini incontreranno anche il loro piccolo Io abbandonico e se ne prenderanno cura.

La voce viene riscoperta, ritrovata, riconquistata. La voce si genera da una corrente area a livello della glottide, come residuo dello scambio gassoso proveniente dai polmoni. La voce perciò si appoggia al respiro come i muri di una casa si appoggiano alle fondamenta. E questi bambini come ben si potrà ascoltare in tutte le terapie vivevano in strutture di personalità dai confini incerti o inesistenti, abitavano crolli interiori, case senza mura.

Nella voce si esprime nell’hic et nunc la caratteristica emotiva dell’Io della persona. La voce definisce i limiti, come la cornice delimita un quadro, ovvero la parola. La parola esprime la sfera simbolica, poiché in essa rappresentandosi la realtà delle cose, il loro nome, consente gli scambi sociali.

La voce, che come tale precede e contorna la parola, è il risultato di un complesso strumento musicale che dinamicamente dipende da:

La voce è costituita da questa materialità: il tono, il timbro, la prosodia. Nel mutismo elettivo questa materialità sembra dissolversi come una fitta nebbia dove si nasconde un piccolo Io. La psicoterapia consente questo ritrovamento.

In un lavoro di presentazione del lavoro su un Caso Clinico intitolato Il Doppio come piccolo-io-abbandonico in una gemella con mutismo elettivo e pubblicato nel libro “Il Doppio. Il nostro gemello invisibile” scrivevo che la terapia con il gioco deve essere considerata un’opera creativa, perché il segno – inteso come traccia prodotta da una immagine tattile, kinestesica, acustica o visiva – si trasforma, grazie al movimento interno all’Immagine, o in altri termini,  muta tramite l’azione dell’Immaginare, del parlare o del modellare una materia, in presenza del terapeuta.

La terapia è quella situazione umana che permette, attraverso il gioco, la combinazione del segno con l’azione e quindi la sua trasformazione.

Pankow G. parlando di un suo caso clinico scriveva “…gli diedi in mano una matita e gli mostrai come era facile bucare la pasta. L’atto del bucare la pasta è un simbolo,  cioè la presenza di una assenza…La funzione del simbolo  consiste nel condurre ad un riconoscimento”. Si tratta di aiutare il soggetto, tramite la psicoterapia, a riconoscere il desiderio come proprio e che è in grado di desiderare. E’ importante che il soggetto si riappropri del suo desiderio e della capacità di desiderare.

“Esistono – afferma ancora G. Pankow – due modi di servirsi della funzione del simbolo: attraverso lo stesso atto o attraverso il segno, in particolare la parola. Poiché il bambino non voleva parlare, il mio primo passo verso il riconoscimento è stato stabilito da una azione”.

Quindi la questione terapeutica fondamentale, anche in questo caso clinico, è stata quella di inventarsi l’atto o lo spazio che aiutasse F a manifestare il suo Doppio abbandonico. Prima di arrivare a questa rappresentazione del Doppio abbandonico, che in lei è avvenuto tramite il racconto del sogno del “coniglietto”, vi è stato un periodo di preparazione laborioso che ha portato F a costruire uno spazio, il muro, dove collocare i suoi messaggi scritti. F infatti durante le sedute non ha mai parlato, il lavoro si è svolto utilizzando solo la scrittura. Io non ho mai avuto il piacere di sentire la voce di F.

Con F siamo partiti dalla fusione. Per molte sedute, che coprono l’intervallo dei primi due mesi di terapia, si è cercato di stabilire, con il suo corpo, un rapporto di fiducia e di riconoscimento, in uno spazio terapeutico contenitivo, che fosse solo suo.

Pankow specifica che “la prima funzione dell’Immagine del Corpo riguarda unicamente la sua struttura spaziale, in quanto forma o gestalt…Per preparare il malato al contatto con l’altro noi cerchiamo di condurlo al riconoscimento ( o accettazione ) dei limiti del suo corpo – e quindi il corpo, come lo spazio, si soggettivano.

La seconda funzione dell’Immagine del Corpo riguarda la struttura in quanto contenuto e senso…e dà accesso all’altro ed alle relazioni umane”.

Dopo questo primo periodo F partì per le vacanze. Quando la rividi, al suo rientro, notai che era diversa. Mentre nei due mesi precedenti avevamo, tra le altre cose modellato palline con il didò, in quel primo giorno, dopo le vacanze, uscimmo all’aperto: giocammo sul prato verde con il pallone verde grande e poi assaggiammo i fiori dolci del caprifoglio. Anche nelle sedute successive usammo molto il pallone. F lanciava, più e più volte, il pallone contro il muro della stanza e contro una torre di cubi in legno con forza e sorridendo, lasciando le posture rigide, mentre il respiro si faceva voce sottile, esprimeva così le sensazioni di liberazione dalla tensione.

Successivamente iniziammo il gioco della costruzione di un villaggio. Prima però con dei cubi di plastica costruimmo una muraglia simile ad un recinto che delimitava lo spazio, dove lei poi costruiva il villaggio.

Per chiarire la funzione simbolica del recinto ed del muro possiamo richiamare quanto scritto da J. Chevalier[1] nel “Dizionario dei simboli”: “Al suo arrivo Tora, il dio Lug vince una partita a scacchi con il Re Nuada e accumula la sua posta nel recinto di Lug (Cro Logo)…Si tratta probabilmente di un recinto per il bestiame. La nozione di recinto Sacro è meglio espressa dalla parola “fal”  vuol dire nello stesso tempo siepe, muro e per omonimia sovranità, principe, potere e paese…I mistici medievali lo chiamano la cella dell’anima, il luogo sacro delle visite e della dimora divina. E’ su questa città del silenzio che l’uomo spirituale si ritira per difendersi da tutti gli attacchi esterni, dei sensi e dell’ansia…”

Il muro quindi può essere considerato, anche tradizionalmente, come un recinto protettivo che chiude un mondo ed impedisce che vi penetrino le influenze nefaste del mondo esterno, una sorta di protezione, una seconda pelle.



[1]              J. Chevalier, “Dizionario dei simboli”,  Rizzoli, Milano, 1988, pp. 283-284.