Luigi Colusso

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Luigi Colusso, medico psicoterapeuta

Advar ha attivato a partire dal 1999 un Servizio per l’accoglienza delle persone in lutto, Rimanere insieme, aperto a tutti i lutti, anche ai superstiti, i familiari dei suicidi. I dolenti trovano con l’accoglienza la possibilità di essere seguiti con colloqui personali/familiari, gruppi di mutuo aiuto (misti per tipologia di lutto), momenti di formazione e di socializzazione.

Per i superstiti sono stati attivati nel tempo gruppi specifici, che hanno trovato ampia accoglienza.

La risposta delle persone ne suggerisce l’efficacia nell’intento nell’attraversamento della sofferenza e nel recupero dell’equilibrio possibile delle relazioni familiari e con la comunità di appartenenza.

L’esperienza di Rimanere insieme e mia personale, in riferimento al tema della giornata, si è formata e cresciuta in tanti anni grazie a quattro fattori che si potenziano vicendevolmente:

 

         Il contatto con migliaia di famiglie in lutto per decessi variamente causati. Questo perché una parte di dolenti manifesta in parte esplicitamente, specie nel periodo iniziale dei colloqui personali e del gruppo, un desiderio di morte che si spinge, quando si fa divorante, fino a immaginare di porre fine alla propria vita, perché si ritiene che non abbia più senso.

La presenza di altre persone care e le precedenti ambizioni di realizzazione personale sono evaporate, o almeno non sono apprezzate quanto potrebbe bastare a preferire la vita alla morte.

Il passaggio da una prevalenza di pensieri di morte alla prevalenza di pensieri di vita richiede un tempo non breve e un investimento che non è solo clinico, richiede il recupero di una bellezza antropologica, o almeno delle prime tracce di un suo risorgere, riconosciuto come cosa propria dal dolente. Una bellezza “relazionale” che passa necessariamente per il tramite della costruzione, passo dopo passo, di relazioni significative capaci di equilibrare il vuoto che ha lasciato la morte della persona cara, vuoto che rappresenta la causa della scomparsa della bellezza costruita nel tempo.

L’essenzialità della bellezza per l’ottenimento di un nuovo, buon equilibrio (= qualità della vita) aiuta a capire l’importanza del gruppo basato sui principi di mutuo aiuto, per i legami pieni di senso che produce e per gli stimoli che evoca grazie ai neuroni specchio, per la bellezza antropologica che di conseguenza si produce.

 

         L’accoglienza di numerosi superstiti e il loro accompagnamento per l’elaborazione della perdita così particolare, con colloqui e, per una parte, in seno a gruppi di mutuo aiuto, con operatori di Rimanere insieme presenti come facilitatori.

Le narrazioni dei superstiti sono ricche di riferimenti ai pensieri e agli scambi relazionali precedenti l’evento. Li hanno raccolti dalla persona suicida, prima che compisse il gesto.

I superstiti narrano:

  • ·         a volte delle dinamiche di sorpresa per il gesto;
  • ·         altre volte di un cordoglio anticipatorio quando il gesto è minacciato o prevedibile;
  • ·         molto spesso di contrasti e degli sforzi per comprendere l’evolvere del pensiero e delle preoccupazioni, che tante volte tradiscono l’esistenza di una disperazione legata più che al presente a un futuro, temuto come avverso e irrevocabilmente tale, quindi una disperazione legata al cordoglio anticipatorio, un sentire che può essere riconosciuto e potenzialmente oggetto di relazione, presa in carico e trasformazione.

Per questo, se si parla di tentativi di prevenzione, l’attenzione al cordoglio anticipatorio ne è certamente un pilastro.

 

         La collaborazione con alcune scuole, che sono state direttamente colpite dal fenomeno suicidario, a causa del gesto compiuto da persone presenti nella scuola o da loro familiari.

Questa esperienza ha insegnato molto: il gesto si ripercuote su un numero grande di persone, sia pure con intensità decrescente a mano a mano che ci si allontana dalla prossimità più stretta; pochissimi sono i superstiti, anche se competenti professionalmente nel loro campo, che sono in grado di reagire e intervenire efficacemente per gestire gli effetti del gesto su di sé e sugli altri; la collaborazione interprofessionale, come suggerita anche dal progetto europeo Euregenas (www.euregenas.eu), per esempio, genera empowerment diffuso, amplia la copertura delle aree della comunità locale su cui si riesce a intervenire con un progetto, e genera competente che si dimostrano utili per migliorare la qualità della relazione tra gruppi sociali differenti, che a volte in verità hanno rapporti modicamente collaborativi: per esempio insegnanti, personale ATA, studenti, familiari…

 

         I momenti formativi, necessariamente organizzati negli anni, via via più spesso, hanno coinvolto esperti di varia provenienza ed esperienza. Sono preziosi per ripensare l’agire professionale e aumentare le possibilità di intervenire precocemente, prima del gesto.

Partendo da questi due ultimi fattori (strutturati un poco grazie a un sostanzioso e nutriente contatto con i superstiti, dall’essere loro compagni, da una sofferta condivisione) due anni or sono si è creduto opportuno porre mano alla costruzione di un Tavolo provinciale per la prevenzione dei gesti suicidari, coinvolgendo persone e servizi che sono in front office.

 

 

Perché siamo qui oggi.

La spiegazione, una parte almeno l’ha offerta una riflessione di una pediatra, che mi raccontava di alcuni ragazzi seguiti professionalmente, che in tempi successivi, da giovani adulti, hanno poi compiuto il gesto autosoppressivo. Alcuni segnali suggestivi di rischio li avevano mandati già in età pediatrica, e questa è una traccia per la possibilità di un riconoscimento precoce e per un tentativo di prevenzione, basata sullo scambio di competenze e di informazioni.

Come sempre, tutto parte da una attenzione profonda verso la persona, si concretizza nella capacità di accogliere/riconoscere i bisogni inespressi, andando oltre le domande espresse, soprattutto quando le domande non sono nemmeno poste, e chi accoglie ha la precauzione di antivedere, insieme con la persona, l’avvicinarsi di perdite considerate fondamentali ed esiziali, e lavora per l’elaborazione del cordoglio anticipatorio.

Quanto ai superstiti, se si tiene presente come il tema del suicidio ferisce, agita e allontana gli operatori, i religiosi, la prossimità, promuovendo quindi il contrario di ciò che sarebbe utile come intervento della comunità di appartenenza, è facile immaginare la potenza dei sentimenti negativi dei superstiti, e il loro bisogno primario di essere accolti e accompagnati verso vissuti di normalità, per quanto possibile, e sicuramente molto si può fare con questo obiettivo.

Per riuscire in questo intento è preziosa la collaborazione della rete di contatto con chi è a rischio di compiere il gesto, con la sua prossimità e dopo con i superstiti.

È questo un obiettivo primario, infatti, del Tavolo provinciale per la prevenzione dei gesti suicidari.

 

Una riflessione sul “guaritore ferito” è utile per una maggiore comprensione dei fenomeni che generano comportamenti suicidari e poi della sofferenza dei superstiti.

Questo tema, affrontato più volte in letteratura (un esempio: Henri Nouwen, “Il guaritore ferito. Il ministero nella società contemporanea” ancora nel 1972), può in senso generale ricordare come sia normale sentirsi, nella veste di genitore, figlio, partner, amico, maestro … un guaritore nel senso di avere il potere di consolare, rasserenare, proteggere e “guarire” i problemi di vita delle persone amate.

I percorsi della vita provocano come è noto molte ferite, psicologiche, relazionali, che sono fonte di sofferenza ben più potente di quella derivante dalle ferite fisiche, che oggi molto più facilmente possono trovare sollievo.

Doversi riconoscersi nell’identità, nella funzione di guaritore ferito quando è una persona cara che causa la ferita suscita potenti reazioni negative, un vissuto di tradimento, un duro confronto con l’autostima in crisi. È quasi scandaloso e suscita aggressività. Nella relazione tra vivi dopo la reazione iniziale è però possibile un cambiamento positivo e il recupero, l’esercizio di questa funzione.

Riuscire a riconoscersi nuovamente l’identità di guaritore, e immaginarla anche più efficace dopo il trauma della ferita è molto più difficile dopo un suicidio. C’è una doppia difficoltà: il fallimento personale come guaritore e l’abbandono volontario della scena da parte dell’altro, che si confidava essere il proprio guaritore. In definitiva le identità fondanti l’orizzonte di senso personale sono in crisi totale.

Questa esperienza, propria dei familiari e della prossimità stretta della persona che compie il gesto autosoppressivo, tocca in sorte anche agli operatori professionali e volontari quando una persona di cui si prendono cura compie il gesto. In questa circostanza la ferita assume una gravità particolare, molto specifica, perché può ripresentarsi più volte e molte volte può essere temuta (con un cordoglio anticipatorio capace di mandare in burn out), e perché si somma con le ferite che si sperimentano nella propria sfera privata.

Di fatto, l’essere anche il professionista, il volontario, guaritori feriti, condizione certo in assoluto non desiderabile, si trasforma in strumento di positivo fronteggiamento della condizione di disperazione dei superstiti, come di seguito si propone.

L’obiettivo quando ci si prende cura dei superstiti è il recupero dell’equilibrio possibile, come per gli altri lutti, e l’attenzione come sempre è centrata sulle ferite più dolorose, e per i superstiti riconoscersi guaritore ferito e fallito è forse la ferita peggiore, quella ritenuta, a torto, insanabile.

Per consentire il recupero dell’equilibrio possibile, un contributo importante per l’operatore è riuscire ad accompagnare i superstiti nel compimento di alcuni passaggi, che sono:

         Accettare che l’identità di guaritore prevede come certo l’evento della ferita, anzi di ferite ricorrenti, anche gravi, quindi la normalità di questa condizione anche quando la ferita è devastante;

         Riconoscere che anche gli altri, tutti, sono guaritori, e parimenti feriti dalla vita;

         Riconoscere che la responsabilità delle ferite è sempre condivisa, e che per questo l’autostima va salvata;

         Scoprire che la ferita, quando si accetta di prendersene cura, libera gli umori negativi e si trasforma in feritoia, che significa poter osservare fatti persone e relazioni da un diverso punto di vista, prima non possibile;

         Godere dell’incontro molto prossimo e diretto con l’altro, un incontro autentico tra guaritori feriti, che consente lo scambio di doni, uno scambio che metacomunica il recupero di una identità di valore, che restituisce equilibrio rispetto alla perdita subita, quanto all’essere sopravvissuti;

         Proseguire il proprio percorso di vita con tutti i propri bagagli di perdite, di ferite, riconoscendo la loro graduale trasformazione in tappe della personale crescita umana;

 

Questo processo raggiunge la sua massima efficacia quando il processo di cambiamento dell’operatore è consensuale, condivide la crescita ed è capace, riconoscendo se stesso come guaritore ferito, di coinvolgersi con la sofferenza dell’altro, lasciandosene attraversare, ma senza trattenerla. Un comportamento che è un dono che i sopravvissuti e i dolenti in genere possono mutuare e mettere in pratica con successo.