L’Immaginario, perché?

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Immaginario: studi e ricercheJean Burgos

L’Immaginario, perché?

 “Voler sognare, saper sognare, è tutto là”

                                               (Charles Baudelaire)

Dell’Immaginario si parla molto, qui e là, da qualche anno, senza sapere bene cosa mettere dietro a questa nozione ambigua e che trascina con sè, anche quando la si vorrebbe riconsiderare, tre secoli di svalorizzazione di tutto ciò che sfugge al pensiero chiaro e distinto, di tutto ciò che sfugge ai principi ed ai precetti della logica razionale che ci ha nutriti.

La mia intenzione non sarà di confrontare, per meglio opporli, razionalità ed Immaginario – cosa che sarebbe veramente inopportuna; non sarà neanche di riabilitare l’Immaginario celebrando i suoi meriti estremi e le sue insospettate possibilità – cosa che sarebbe molto presuntuosa. Più modestamente, ma anche in modo più pratico, nel tempo che mi è assegnato e dunque in un modo necessariamente schematico che dovrete perdonarmi, vorrei solamente collocare questo Immaginario nel cuore stesso della realtà quotidiana dove si pone, prima di mostrarne gli esatti poteri e quindi l’uso che se ne può fare – che se ne potrebbe fare piuttosto, secondo le sue logiche – e questo in più ambiti che però hanno tutti in comune di farci esplorare i sentieri della creazione.

Non si tratterà quindi di fare il processo ad un razionalismo che ha nutrito nell’essenziale il pensiero occidentale dall’Antichità greca e che ha largamente fatto le sue dimostrazioni in materia di conoscenza scientifica, dentro ai limiti che si è dato; voglio dire che c’è possibilità di osservazione e di sperimentazione. Ma queste due condizioni, dietro alle quali per molto tempo si è rifugiato ciò che è convenuto chiamare spirito scientifico, non limitano singolarmente il campo della conoscenza solo a ciò che è conoscibile in questo modo, cioè secondo le garanzie che esige la logica razionale? Detto in altro modo, quest’ultima non esclude dal suo campo di esplorazione, dal momento che i suoi strumenti non sono adeguati, tutto ciò che non può interpretare e che altre culture, con maggiore o minore fortuna da molto tempo hanno saputo tenere in considerazione?

Per quanto importante, lascerei da parte questo problema che non potrebbe essere trattato in poche parole, e mi accontenterei al massimo di notare la frattura sempre più profonda che si è operata, nel corso del nostro ventesimo secolo, tra le grandi teorie scientifiche, quella della fisica in particolare, e gli strumenti di ricerca considerati scientifici. Non sembra in effetti che la logica razionale, nella sua formulazione classica, che ha avuto stranamente la peggio con la Teoria dei quanta, la Relatività o specialmente le Relazioni di incertezza, sia stata veramente scossa, tranne che in alcuni ambiti molto particolari, al punto da far saltare i limiti che poneva al campo della conoscenza. E tutto accade come se l’interazione del soggetto e dell’oggetto, per esempio, o i processi virtuali delle particelle non avessero veramente costretto la comunità scientifica nel suo insieme ad allargare il suo campo d’azione ed a dotarsi di strumenti d’indagine supplementari per arrivarci – salvo voler rimettersi al solo caso del momento, al brodo creatore o alla mela di Newton.

Le lunghe catene di ragioni care a Cartesio ed ai cartesiani sono in effetti rassicuranti e confortevoli, ma non saprebbero affatto da sole, farci uscire dai sentieri battuti – intendo dire farci uscire dal campo di ciò che è considerato conoscibile, osservabile e verificabile. Il pensiero riflessivo, in effetti, non può che ritornare su quanto già si pone, per considerarlo in altro modo, certamente, per scomporlo, analizzarlo differentemente, fatto che non è così  male senza dubbio, ma senza mai tuttavia uscire da un inventario che lascia sempre presupporre in un modo o in un altro, anche se il discorso scientifico afferma spesso il contrario, che tutto è già dato  e che si tratta solo di cercare di conoscere nel modo migliore questo dato, e quindi ad apprenderlo in un altro modo. Ora, si tratta solo di apprendere un dato o piuttosto – ed è qui che si pone il problema della creazione – si tratta di aggiungere altro a questo dato, di estendere il campo che è il suo?

Non è questo un problema puramente speculativo che permetterebbe al massimo di definire stricto sensu il concetto di creazione; no, si tratta al contrario a mio parere di un problema molto pratico e che riguarda ogni creazione, nel senso largo, ogni invenzione, nel senso etimologico del termine di venuta alla luce, di apparizione, di scoperta. Se ogni vera creazione, in effetti, è emergere di nuova realtà, essa invoca una certa rottura con la realtà posta, con ciò che chiamiamo così. Questo è da molto che coloro che si occupano di fabbricare nuova realtà, i poeti – e intendo tutto coloro, creatori di ogni tipo, con i materiali e le tecniche che sono loro proprie, che intendono produrre un sovrappiù di realtà – è da molto che i poeti lo sapevano; e penso ad un Apollinaire che ci offre, nel cuore stesso della guerra distruttrice, una bella lezione di creazione: “Quali sono i grandi smemorati Chi dunque saprà farci dimenticare questa o quella parte del mondo Dov’è il Cristoforo Colombo a cui si dovrà l’oblio di un continente Perdere Ma perdere veramente per lasciar spazio alla scoperta” (“Toujours”, Calligrammes).

Senza aspettare le catastrofi di René Thom, ma sicuramente prefigurandole, sono già espressi qui i prerequisiti indispensabili non solo alla pura sopravvivenza di un sistema che sarebbe condannato a perire se non si rinnovasse, ma anche all’accogliere una novità, che è passaggio dall’identità all’alterità.

Quello che nel campo dell’arte permette di distinguere il creatore dal semplice imbalsamatore o decoratore, come denunciava Saint-John Perse nel suo discorso al ritiro del Nobel, a Stoccolma nel 1960, è proprio questa disponibilità ad accogliere la novità dopo essersi messi nella situazione di provocarla; e forse bisognerebbe aggiungere che è questa disponibilità che giustamente disturba e fa sì che l’artista, diciamo il poeta, trovi così difficilmente posto in una società dove esiste solo quello che è conosciuto. Ora, se lascio da parte coloro che sono in qualche modo i poeti della scienza (non è Einstein che reclamava per lo scienziato il beneficio di una vera visione artistica?), questa disponibilità, lo si capisce facilmente, non è sicuramente il destino comune dei ricercatori quando implica, almeno a titolo provvisorio, lo sconvolgimento dei fondamenti classici della nostra logica, l’abbandono dei principi normativi e dei paradigmi in uso, a vantaggio di tutt’altra attitudine dello spirito. Questa attitudine, che invoca delle revisioni epistemologiche radicali, non è un’altra cosa rispetto a ciò che i Greci chiamavano “poiein”, il fare creatore (da cui abbiamo tratto il poeta e la poetica, nel senso aristotelico del termine); in un senso più stretto, e per maggiore chiarezza, chiameremo poietica l’insieme dei processi in azione in un luogo ed in un tempo determinati capaci di sfociare nell’emergere di una realtà nuova, di qualunque natura essa sia.

Significa che avendo ormai messo l’accento non su ciò che è ma su quello che potrebbe essere, non su ciò che è fatto ma su quello che sta per farsi, la poetica avrà per oggetto di studio le potenzialità inscritte in ogni situazione presente. Il suo campo d’azione sarà del tutto naturalmente lo spazio-tempo che va dall’operazione attuale e reale all’esplosione delle virtualità che questa operazione genera. Chiameremo Immaginario questo continuum che va dall’azione o dall’operazione attuale all’abbozzo se non il compimento progressivo di una realtà nuova attraverso la liberazione dei possibili così generati.

Abbandonando le confusioni iniziali e le ambiguità in cui si è voluto per troppo tempo rinchiuderlo, e per tagliare corto rispetto a tutti i malintesi che la nostra cultura occidentale si compiace di nutrire, dirò che l’Immaginario non è né la costruzione ideale di una ragione in delirio, né l’abbandono onirico alle delizie dell’illusione. Né utopia, né fantasma, non è evasione, fuga dalla realtà esistente, ma al contrario conversione ad una realtà più presente e ancora più concreta, perché colta nella sua immediatezza ancora prima di essere pensata. Mi spiego. In ogni istante, lo sappiamo già, si scambiano, che lo vogliamo o meno, che ne siamo coscienti o meno, pulsioni del soggetto e pressioni dell’oggetto: pulsioni che arrivano dal nostro mondo profondo che tendono ad assimilare il mondo esterno, e pressioni che dal mondo esterno vengono a pesare su di noi costringendoci ad accomodarci ad esso.  E’ questo incrocio di scambi, che dà vita a dei prodotti nuovi, che chiameremo Immaginario. Incrocio del mondo del soggetto e del mondo dell’oggetto, che esso connette in produzioni i cui elementi cessano di appartenere all’uno o all’altro di questi due mondi, l’Immaginario – che perde allora il suo carattere di anti-realtà – diviene così, al cuore della realtà presente, una riserva di possibili da cui germoglierà forse tale realtà da realizzare.

È senza dubbio questo quello che importa qui, per il nostro obiettivo: il fatto che da una parte l’Immaginario, lontano dall’essere il prodotto di un processo eccezionale, riservato ad alcune situazioni particolari o a qualche essere privilegiato, è il prodotto di un processo naturale e continuo, anche quando non ce ne interessiamo; il fatto che d’altra parte questo Immaginario, lontano dal distoglierci dalla realtà, ci costringe ad incontrare questa realtà in ciò che ha di più concreto ma anche di più effimero, nell’istante stesso del suo rinnovamento. 

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Noi tocchiamo qui, di fatto, questo sorprendente paradosso che vuole che dell’Immaginario, che continuamente e spontaneamente ci mette in presa diretta con il divenire del nostro essere al mondo ed in questo modo apre la possibilità di cogliere dalla sua nascita se non proprio la realtà da realizzare almeno una realtà potenziale, di questo Immaginario, dal momento in cui si accettano le logiche che gli sono proprie, conosciamo molto male i poteri e ancora meno sappiamo l’uso che se ne può fare.

Ed invece sono immensi i poteri dell’Immaginario, appena scopriamo che, a differenza del pensiero riflessivo che non può che ritornare su ciò che esiste già – il campo di ciò che è considerato conoscibile, cioè di ciò che è osservabile e verificabile – l’Immaginario ci offre la possibilità di affrontare e di modificare un’altra faccia della realtà, quella che sta per avvenire e potrebbe aggiungere realtà alla realtà esistente. Non si tratta più, nelle prospettive che apre, di analizzare in un altro modo il dato, di apprenderlo in modo nuovo. Si tratta di aggiungere qualcosa a questo dato, come appena detto, e così aprire la porta ad un’altra cosa che si chiama novità.

Appare allora in effetti che l’Immaginario, e precisamente perché è incrocio di scambi, è il luogo della manifestazione e della realizzazione dei possibili, o almeno dell’avvio di questa realizzazione. Cosa significa questo? Significa che da questo confronto costante del soggetto e dell’oggetto, da questo scambio permanente di forze vive in cui il mondo del soggetto ed il mondo dell’oggetto si nutrono l’uno dell’altro affrontandosi, si trasformano l’uno attraverso l’altro, il più delle volte a nostra insaputa, e da questo confronto originano delle potenzialità inscritte in ogni situazione presente, sia che ci spetti sfruttarle o meno. È proprio qui in effetti che comincia, se non la creazione propriamente detta, almeno la possibilità di creare, la creatività, che oggi si relega tanto volentieri al rango di attività ludiche e quindi accessorie. È proprio qui che comincia la possibilità di innovare, di cambiare qualcosa, di inventare, la possibilità di vedere ciò che non si era mai visto, di fare ciò che non si era mai fatto: la possibilità di giocare pienamente il gioco dei possibili e di vincere qui ciò che non si vince da nessun’altra parte.

Ogni creatore, poeta o scienziato, lo sa bene. Egli che coltiva questa disponibilità ad accogliere la novità dopo essersi messo nella situazione di provocarla. Su questo punto, lo scienziato ed il poeta, al di là di certe reciproche diffidenze, si accordano d’altra parte abbastanza bene, almeno nei principi, “poiché la domanda è la stessa, che li tiene sullo stesso abisso, e solo i loro modi d’indagare sono diversi”, come notava ancora Saint-John Perse nel suo discorso di Stoccolma. Se da molto tempo infatti il poeta ha saputo fare dell’immaginazione il motore della sua creazione, accordandole spontaneamente una fiducia di cui la sua stessa opera sarà la garante, l’uomo di scienza da parte sua difficilmente sembra allontanarsi, il più delle volte, da una reticenza autentica verso ciò che lo trascina in terra sconosciuta.

Ma fuori da ogni provocazione – che implica, il più delle volte, lo sconvolgimento dei fondamenti classici della nostra logica, l’abbandono dei principi e dei paradigmi in uso a vantaggio di tutt’altra attitudine dello spirito – perché coltiveremmo questa stessa disponibilità ad accogliere la novità se non dovessimo trarne dei benefici certi? Questo implica, in ogni caso, di mettere l’accento non su ciò che è ma su quello che potrebbe essere, non su ciò che è già fatto ma su quello che sta per essere fatto – cioè privilegiare per quanto possibile le potenzialità inscritte in ogni azione presente.

E’ proprio questo il campo operativo di ciò che abbiamo chiamato Immaginario: lo spazio-tempo che va da un’azione o da una operazione attuale, reale, in una certa situazione data, all’abbozzo se non al compimento progressivo di una realtà nuova, attraverso la liberazione delle potenzialità aperte da questa azione o da questa operazione stessa. Per quanto teorico questo possa ancora sembrare, ma arriveremo ben presto alle pratiche dell’Immaginario, appare già che ogni azione – a qualunque livello essa si situi, nella vita personale o nella vita della società, nella formazione o nella ricerca – ogni azione lascia spazio all’esperienza stessa della novità (che definisce l’immaginazione), nella misura in cui libera delle potenzialità che tante vie d’accesso ad una realtà nuova, tante proposte offre a chi vuole coglierle.

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Ma quale fiducia accordare a queste proposte dell’Immaginario, se devono avviarci in terra sconosciuta senza protezioni di nessun tipo? Più semplicemente, come mostrarsi disponibili, aprirsi, a ciò che è nuovo – mostrarsi pronti ad accogliere qualcos’altro da quello che conosciamo, a fare qualcos’altro rispetto a ciò a cui siamo abituati, ad ascoltare altri linguaggi, a scoprire altri modelli, ad inventare altri percorsi – cosicché questa liberazione dei possibili non debba essere che una piacevole divagazione che conduce dove e quando meglio gli pare chi vi si vuole abbandonare?  Senza dubbio, è questo timore – sapientemente sostenuto da tre secoli di cartesianismo, dai suoi bilanci positivi ma anche dalle sue perversioni, bisogna dirlo – che non manca o non deve mancare di trattenere chiunque non può permettersi di lanciarsi alla leggera in questa avventura.

Ma i più recenti lavori sull’Immaginario, mostrano oggi con evidenza che questa liberazione dei possibili non si effettua non importa come, né ancora di più non sfocia non importa dove, né non importa su cosa; anche l’Immaginario ha le sue logiche che condizionano l’emergere, la proliferazione l’ordinamento dei possibili. Significa che il passaggio dall’attuale al virtuale e da qui ad una realtà nuova, qualunque ne sia la natura, non si opera, come si sarebbe tentati di credere all’inizio, in modo anarchico: “l’immaginazione”, cara a Malebranche, ha le sue ragioni che la ragione ignora. Si opera secondo alcuni vettori, alcuni itinerari obbligati, attraverso i quali e sui quali si uniscono e si trasformano i materiali che ogni azione attuale libera e la cui convergenza, imponendo una coerenza ai tragitti dell’Immaginario, detta anche il senso delle sue produzioni.

Poiché l’Immaginario, lo si sa ormai dopo averlo per molto tempo presentito in modo confuso ma imperativo (non sono i creatori di ogni sorta che mi potranno smentire), l’Immaginario dà senso. Un senso che non è significato, secondo l’accezione linguistica del termine – quello che rappresenta un segno, un gesto, un fatto, ciò a cui rinvia, ciò che contiene, che denota – ma un senso che è una direzione obbligata, una direzione imposta a cui nulla potrebbe sottrarsi. Ciò verso cui bisogna andare e che senza dubbio non si raggiungerà mai (non è per questo che per ogni creatore un’opera non è mai compiuta, al massimo interrotta a questo o quel momento della sua creazione?), ma anche, ciò che “vale la pena” – la pena di continuare, di andare ancora più lontano, di non fermarsi – e vedremo bene come l’Immaginario, e non è uno dei suoi meriti minori, ci fa passare dal fatto al valore, come valorizza le potenzialità presenti e così facendo le gerarchizza.

Quello che si può fare dell’Immaginario – l’uso migliore che se ne può sperare, i vari benefici che se ne devono trarre, ma anche il suo pieno impiego e gli stimoli che dovrebbero permettere di utilizzare al meglio le sue potenzialità – tutto ciò nella pratica come nella teoria, poggerà in definitiva sui processi e sulle condizioni dell’emergere di una realtà differente – nuova – attraverso l’esercizio dei possibili, attraverso le virtualità che si chiamano e si respingono, si organizzano e si smantellano, si strutturano e si distruggono, si ravvivano e si rinnovano nel prender corpo, nel prendere senso.

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Così appare che è già possibile apportare qualche risposta, sul piano generale, alla questione del sapere quale potrebbe essere il buon uso dell’Immaginario, o piuttosto il buon uso delle logiche che gli sono proprie e che sono evidentemente tutte paradossali.

La prima risposta, è che l’Immaginario, e sarei tentato di aggiungere solo l’Immaginario, ci permette di uscire dal campo del conosciuto, questo campo confortevole e rassicurante anche se non lo coltiviamo tutto intero. Di uscire dal campo del conosciuto, a cui naturalmente e ragionevolmente ci aggrappiamo, di obbligarci a lasciare la presa per giungere non ad una irrealtà o una surrealtà ma piuttosto ad una realtà altra, una realtà non ancora riconosciuta dal pensiero ma pur sempre una realtà; realtà dell’istante vissuto proprio nel momento in cui essa emerge, e carico di tutte le potenzialità che essa suscita. Ora, uscire così dal campo del conosciuto, non è lanciarsi alla cieca in una folle avventura che ci sfugge, ma non è soprattutto tentare un percorso intellettuale che si controllerà a distanza: è accettare di compromettersi rischiando completamente in terra sconosciuta, poiché l’Immaginario, l’abbiamo visto, all’incrocio di due mondi, coinvolge in una stessa esperienza il soggetto e l’oggetto, che non significano più niente l’uno senza l’altro, ma si mettono al contrario a significare l’uno per l’altro.

Corollario di questo stacco dalla realtà esistente, con il campo del conosciuto, una seconda risposta alla domanda posta, sarà molto naturalmente che l’Immaginario, così definito, ci mette nello stato di accettare nel modo giusto quello che non è ancora conosciuto, di accettare quello che non assomiglia a ciò che si conosce e che si ritiene vero: ci mette nella condizione di accogliere l’altro. L’altro, il contrario dello stesso, cioè la novità in tutte le sue forme: ciò che è diverso e per questo disturba; ciò che rompe con quello di cui si ha abitudine, l’insolito; ciò che non risponde ai nostri riferimenti, ai nostri criteri, alle nostre regole, e che di colpo mette in discussione. Mette in discussione e ci mette in discussione. In quanto l’altro è anche ciò che viene a contraddire l’autorità del dato, l’autorità del passato, l’autorità di un eredità individuale o sociale, l’autorità di una convinzione o di un consenso. Così, aprirci a ciò che è nuovo, a ciò che per noi non ha ancora esistenza nel recinto della nostra realtà quotidiana, è non solo darci la possibilità di estendere il nostro campo d’esperienza smettendo di fermarci al campo del conosciuto, ma anche darci la possibilità di uscire da noi stessi sciogliendo i legami che ci stringono, questi freni di abitudine e di ragione che accettiamo tanto volentieri.

Da qui una terza risposta alla nostra domanda, che deriva dalla precedente, e che è che l’Immaginario, allargando il campo della realtà esistente e mettendoci nella condizione di accogliere (che non significa necessariamente adoperare) ciò che è decisamente nuovo e quindi l’altro, l’Immaginario arriva ad abbattere le divisioni tra l’io ed il mondo, senza dubbio, ma anche le divisioni che stabiliamo spontaneamente, in nome di una ragione che vuole distinguere per classificare, tra le cose dell’io come tra le cose del mondo. Nella misura, lo abbiamo appena visto, in cui mette in discussione autorità e retaggi, in cui rivaluta convinzioni, credenze e certezze, nella misura in cui confonde riferimenti e referenze, in cui scardina regole ed abitudini, anche a titolo provvisorio, l’Immaginario opera una salubre rimessa a nuovo dei rapporti tra l’io ed il mondo. Nello stesso modo, inizia dei nuovi approcci all’io ed al mondo, apre la via a dei nuovi modi di conoscenza, che non hanno niente di empirico, obbliga ad inventare dei nuovi linguaggi in presa diretta su un soggetto ed un oggetto in continuo movimento, ma capaci anche di superare le frontiere tra le diverse discipline. I processi dell’Immaginario del tecnico e dell’architetto, dell’ingegnere e dell’artista, dell’astrofisico e dello storico, dell’informatico e del medico, potrebbero in effetti veicolare dei materiali molto meno disparati di quanto non si sarebbe tentati di credere, qualunque siano gli orientamenti, ed in ogni caso non sono essenzialmente diversi. E non è uno dei minori meriti dell’Immaginario quello di permettere così l’osmosi delle diverse discipline, sostenendosi le une alle altre ed arricchendosi le une dalle altre, sostituendo il semplice trasferimento di competenze e di saperi, a cui si fa grande caso oggi, con uno scambio dei saper-essere inseparabili ormai dai saper-fare.

Ecco una nuova e quarta risposta che ci viene data, quando l’Immaginario non contento di innovare altri percorsi, di aprire altri spazi, di stabilire altre comunicazioni con i campi che si credevano fino ad allora privati e tra campi che si credevano fino ad allora estranei l’uno all’altro, ci insegna che non c’è esperienza del mondo che non sia anche esperienza di sè. Le vere strade della conoscenza, conoscenza del mondo e conoscenza degli altri, passano dall’interno, come diceva già Novalis, non c’è autentico sapere che non sia segnato dal vissuto, non come una tara a cui bisogna rassegnarsi, ma come una firma che è opportuno rivendicare. È proprio questa naturalmente una delle lezioni dell’Immaginario, il quale compro-mette, l’abbiamo visto, il ricercatore nell’oggetto della sua ricerca, che lo segna e segna di ritorno questa ricerca della firma del ricercatore. E’ ben lontano, mezzo secolo in effetti, il tempo in cui l’epistemologo poteva opporre conoscenza ironica e conoscenza simpatica, la prima riservata allo scienziato, la seconda al poetante; più lontano ancora quello in cui il dogma dell’obbiettività e dell’esattezza scientifica, presto ridotta alla peggio dalla fisica quantistica e dalle relazioni incerte, rendeva sola ragione di una conoscenza che aveva garanzia certa solo in base a quanto era indipendente dalle procedure d’indagine e da colui che la conduceva. Nella prospettiva dell’Immaginario, al contrario, trovare è anche trovarsi, ed il segno del superamento della realtà prima, il segno di accesso ad un po’ di realtà supplementare, sebbene modesta, è precisamente questa doppia impronta che l’esperienza imprime al sapere ed al ricercatore, all’oggetto ed al soggetto, e che fa sì che né l’uno né l’altro non siano più dopo quello che erano prima.

Ed è proprio questa possibilità di far emergere qualche realtà supplementare, e che si chiama creatività, che apporta una quinta risposta alla questione di sapere a cosa serve l’Immaginario, o almeno quale uso fare delle logiche che gli sono proprie. Nella pratica, lo vedremo subito, nel quotidiano di ciascuno come in seno alla vita di gruppo o della società, la sua importanza è grande da garantire la vita stessa, cioè la possibilità di trasformazione dell’individuo o del gruppo. E’ proprio questa libertà di individuare le potenzialità che ogni azione attuale libera, di tessere ed amplificare queste potenzialità nei loro multipli prolungamenti, di ordinarle orientandole e trovando loro senso, che definisce la creatività, questa procedura maggiore dell’Immaginario. E consideriamo qui non solo lo schema organizzatore di ogni ricerca di novità, ma anche la traccia dinamica di questa ricerca. Ancora bisogna notare che se l’Immaginario fornisce sia un modello d’organizzazione sia un modello di sviluppo, la creatività resta semplice immagine di una realtà nuova da realizzare, e dunque solo progetto, lettera morta, se non è investita da qualcuno capace di occuparsene e di metterla in opera effettivamente. Da cui la necessità di un apprendistato e di un esercizio della creatività, che una pedagogia dell’immaginario saprà e dovrà realizzare.

Proprio attraverso questa creatività e ciò che essa propone, si profila una sesta risposta alla nostra domanda. Poiché la stimolazione dell’Immaginario che deve permettere la messa in opera effettiva della creatività inscritta in ciascuno (ed intendo sia ciascun individuo che ciascun gruppo che abbia un interesse comune) può avviare una vera strategia di sviluppo. Voglio dire che, in alcune condizioni ed a certi livelli di stimolazione, l’Immaginario non permette più solamente di estendere puntualmente il campo del conosciuto, di accogliere ciò che è altro e dunque dissimile, di aprirsi a dei nuovi percorsi, a dei nuovi linguaggi, di introdurre l’essere senza il sapere, il vissuto nell’esperienza, e di esercitare infine al meglio la creatività in azioni isolate di passaggio dall’uguale all’altro, passaggio da potenzialità a realtà nuove, altrimenti detto in azioni di innovazione ed invenzione. Permette, l’Immaginario, di realizzare, di mettere in opera, in modo più largo e su più grande scala, una strategia di più vasta apertura, che non si accontenta più di lasciare di colpo il campo rassicurante del conosciuto, ma di avviare nel tempo un distacco più radicale con la realtà prima, ed un investimento più ambizioso su terre nuove. Significa che l’Immaginario, perché i suoi processi si inscrivono subito in un divenire che non si prolunga se non trasformandosi, invita ad instaurare delle autentiche strategie di sviluppo e dunque di trasformazione, sia dell’essere che del gruppo. Ed è vero, se ci si ricorda della sua natura e delle sue funzioni, che fornisce nello stesso tempo il punto di partenza dello sviluppo  (la motivazione iniziale che giustifica il passaggio dall’uguale all’altro, il passaggio da una realtà sconosciuta ad una realtà nuova), il motore dello sviluppo (la sua dinamica essenziale, quando immaginare è deformare le immagini fornite dalla percezione e quando si definisce esso stesso come incrocio incessante di scambi), così come fornisce anche gli incentivi dello sviluppo (se l’immaginazione è inizialmente capacità di apertura, l’Immaginario non è forse rifiuto di ogni chiusura, di ogni sistema chiuso destinato a perire?).

Questa strategia di sviluppo, di trasformazione, questa metamorfosi mai conclusa, il creatore la conosce bene, lui che subito ne usa insieme per se stesso e per la sua opera, che lo crea nello stesso tempo in cui lui la crea. E questa potrebbe essere l’ultima risposta alla domanda posta in partenza, la settima, quella fornita da questa creazione a doppio senso. Poiché alla fine dei conti, da qualunque punto si consideri l’Immaginario, è sempre sulla creazione che sfocia; la creazione intesa come azione di far venire all’esistenza, di dare realtà, e non più come questo semplice potere di inventare che definiva la creatività. Ma che non ci si sbagli: per quanto esemplare possa essere la creazione dell’artista, perseguendosi di opera in opera in una stessa creazione sempre continuata, per quanto specifica possa essere e per questo così singolare, per quanto fuori dal comune, essa non è altro, a ben guardare, che un caso particolare della realizzazione di potenzialità poste alla luce e riattivate; non è altro che un caso particolare della produzione di realtà nuova a cui l’Immaginario lavora banalmente e quotidianamente. Ugualmente, a fianco della creazione del poeta o del pittore, del musicista o dello scultore, del drammaturgo o dell’architetto – creazione a partire dalla quale, tuttavia, è particolarmente facile da mettere alla prova una pedagogia dell’Immaginario – ci sono delle altre forme di creazione a cui non ci si interessa inizialmente e che invece rispondono agli stessi principi e precetti, agli stessi vincoli dell’Immaginario: creazione di sè – alcuni hanno potuto fare della loro vita un’opera – ma anche creazione di uno spazio nello spazio dove “vivere meglio e più lontano”, secondo la bella formula di Saint-John Perse; creazione di un linguaggio dei segni, di una scrittura dei gesti, puri prodotti dell’Immaginario che bisogna imparare a decifrare sempre secondo i codici dell’Immaginario; creazione di un paesaggio sociale, di un luogo comune di convivenze, di un microcosmo silenzioso in cui gli esseri non devono che guardarsi per comunicare pienamente. Ogni creazione disegna nello spazio un tentativo di risposta all’angoscia dell’uomo davanti al tempo, segna un superamento della chiusura, dell’isolamento dell’essere nella sua finitezza, indica nel presente una certa presa sull’avvenire, e con questa risposta, questa apertura, questo superamento, segnala il perfetto uso dell’Immaginario, ma anche il trionfo delle sue logiche.

***

Tutto ciò è molto bello, mi direte (non ho parlato di estetica, di organizzazione armoniosa e deliziosa di forme, ma unicamente di poietica, cioè dei processi per fare emergere un po’ di realtà supplementare), tutto ciò è bello ma generale, oltre ad essere molto astratto; che buon uso, nel particolare e concretamente, si può fare dell’Immaginario, e come arrivarci se le sue logiche non sono quelle della ragione?

Inizialmente dirò che conviene per questo imparare come prima cosa ad abitare l’istante, imparare ad incontrare il presente e tutto ciò che lo riempie. E’ nell’istante che si operano infatti gli scambi che nutrono e dinamizzano le forze dell’Immaginario, è quindi proprio nell’istante che si potrà cercare di cogliere ciò che fino ad allora non si era percepito e che non comincia ad essere se non proprio quando lo incontriamo. E cominciare ad essere è cominciare a liberare delle potenzialità, delle possibilità di essere altrimenti, è già lasciar intravedere un più lontano, abbozzare un sentiero della creazione. Cioè, per quanto paradossale possa apparire, è nell’attenzione piena alla stessa realtà, nel volgersi alla “materia prima” ed alle sue manifestazioni più elementari, che si opera l’apprendistato dell’Immaginario. L’incontro immediato con la cosa, con la realtà sensibile, si chiama sensazione: non sono lontano dal pensare che l’apprendistato della sensazione – la sua scoperta, la sua esplorazione, la sua cultura – è il primo grado, ma indispensabile, dell’apprendimento dell’Immaginario. Ecco che d’altra parte se ne parla oggi (si sono appena avviate delle scuole del gusto, e perché non del tatto o dell’odorato?) come se lo si scoprisse adesso, ma con quale ritardo rispetto ad altre civiltà, che l’uomo è tanto meglio inscritto nel mondo, nel cuore del mondo, quanto meglio è riunito ad esso. Sono le sensazioni che stabiliscono i ponti, che rinforzano i nostri legami con il mondo, che ci permettono di sentire battere il cuore del mondo, ma ancora di più sono loro che, nel momento, fanno scattare l’impressione della novità, la possibilità di allargare il conosciuto, di prolungare il suo spazio, di andare più lontano ma anche di essere di più. Allora come non accordare loro, ed in mille modi, il giusto posto che gli spetta?

Imparare ad abitare l’istante (come si è potuto per tanto tempo, nel nostro mondo occidentale, farci credere che immaginare fosse distogliersi dal tempo e dalla realtà presente?), è imparare anche ad essere disponibile; di una disponibilità che non è quella di uno spirito che rifiuta la prevenzione e la partecipazione per meglio riprendere le cose dal loro cominciare e non rischiare più di precipitare nell’errore secondo il metodo cartesiano, ma quella di un essere pienamente attento a ciò che sta succedendo, e quindi che sta divenendo, cambiando, trasformandosi. Una disponibilità simile si rivela così nello stesso tempo tendenza ad aprirsi costantemente a ciò che è nuovo e tendenza ad accogliere ogni cambiamento come fattore del vivente. Questa doppia tendenza, che lascia intendere ancora che l’apprendistato dell’Immaginario sarà tanto migliore quanto lo sarà lo sguardo portato sulla situazione presente, è all’osservazione che bisogna chiedere di coltivarla, per quanto curioso questo possa sembrare. E sarei tentato di dire a questo proposito: diffidate di coloro che sono abituati, a torto, a qualificarsi come sognatori e che, a buona distanza dal mondo esistente, sono iscritti tutto l’anno agli abandonnés absents; infatti il loro sognare, che è evasione, divertimento, distacco dal reale, è tutto il contrario del vero sogno, che è invece attenzione al reale, infossamento in una realtà colta nei minimi dettagli delle sue metamorfosi e dunque percezione di una produzione di realtà nuova: solo questo è creatore. Cito qui questa ammirabile sentenza di Baudelaire, nei suoi Journaux intimes: “voler sognare, saper sognare: è tutto qua”.

Imparare a sentire, imparare ad osservare per affinare l’Immaginario aumentando la presenza dell’essere al mondo, è anche imparare ad inscriversi in un divenire dove l’io ed il mondo sono coinvolti in uno stesso gioco – il gioco dei possibili – in cui lo spazio ed il tempo si compensano l’un l’altro. Di questi giochi compensatori dello spazio e del tempo che mettono alla luce i meccanismi fondamentali dell’Immaginario, ma anche le diverse modalità della creazione, non dirò niente qui per non allungare il mio discorso. Mi accontenterò al massimo, per il momento, di far notare che il “da realizzare” che ci fa incontrare l’Immaginario volge risolutamente la schiena al “da realizzare” di cui ci parlano le diverse utopie. Mentre queste ci propongono delle costruzioni del pensiero, della ragione – risuonano sempre  strani rumori razionalisti e pesantemente scientisti dietro le più sagge come dietro le più folli utopie – l’Immaginario invece investe sempre nel vivente (ho già segnalato prima l’isomorfismo del cambiamento e del vivente ma anche l’isomorfismo del vivente e dell’Immaginario); cioè esso include sempre nel “da realizzare” che indica e prevede, il vissuto di colui che prolunga il presente nel futuro con l’aiuto delle potenzialità dettate nel presente e capaci di generare qualche realtà nuova. Come il buon apprendistato dell’Immaginario, in balia delle sue logiche, richiederà un totale investimento dell’essere in ciò che fa, per quanto possibile, una totale immersione dell’individuo o del gruppo nell’azione intrapresa. Ecco chi chiede di cambiare le abitudini, i pregiudizi, per compromettere così l’essere in ciò che fa.

Ma se conviene, per immaginare bene ed in modo veramente fecondo, coinvolgersi così, conviene anche, cosa che non è contradditoria immaginalmente, imparare ad uscire da sè in qualche modo. Uscire da sè, non per mettersi a distanza da sè, per metter a distanza l’io dal mondo nella prospettiva dicotomica che definisce la riflessione, ma uscire da sè per prolungarsi in terra sconosciuta, vivere al momento giusto altri percorsi, provare altri saperi, rischiare altre reti di relazioni. Uscire da sè, nell’ordine dell’Immaginario, è imparare ad essere più lontano senza tuttavia lasciare il qui (“Sempre andremo più lontano senza mai avanzare”, ci dice Apollinaire in un tardo poema e decisamente premonitore, “E di pianeta in pianeta, Di nebulosa in nebulosa, Il don Juan delle mille e tre comete, Anche senza muoversi da terra, Cerca le forze nuove, E prende sul serio i fantasmi” (“Toujours”, Calligrammes). E potrebbe essere, a questo proposito, quando si tratti effettivamente di cercare le forze nuove, che la frequentazione dei creatori ed attraverso loro la frequentazione delle loro opere, sia un aiuto inestimabile. Ma uscire da sè per essere al di là, e questo i creatori non finiscono mai di dircelo, è anche uscire da sè per essere di più: l’esperienza di sè fuori dalle frontiere in cui ciascuno è inizialmente confinato porta all’evidenza che sono anche il superamento di sè e la valorizzazione dell’essere che qui si incontrano.

Ma il buon uso dell’Immaginario ci permette anche, cosa che non è di minore importanza quando se ne misurano le molteplici conseguenze, di imparare a leggere l’altro. Leggere l’altro, intendo imparare così a decifrarlo, ad identificarlo, a distinguerlo, ad affrontarlo, a riconoscere sia la sua comune appartenenza sia la sua irreducibile differenza. Ecco chi non si improvvisa e che comunque dovrebbe singolarmente aiutarci ad uscire dai nostri limiti, rinnovare il nostro modo di essere ed vedere, ad esplorare nuovi campi e scoprire, alla fine dei conti, dietro l’infinita diversità delle modalità di attitudini e di approcci, se non delle finalità comuni almeno una certa comunanza di pensiero. Ora, dico che una tale lettura si apprende come ogni lettura, a condizione che la disponibilità di cui parlavo non venga meno. Porto come prova, tornerò per un attimo sul ruolo dell’Immaginario nella ricerca, il fatto che un comportamento possa ormai essere decifrato come una scrittura dell’Immaginario; cosa che rimette fondamentalmente in questione le tesi comportamentiste, e consente di instaurare una comunicazione anche con quelli che non possono, o non possono più, comunicare. Allo stesso modo, a fianco dell’esperienza del riempimento nel momento, dell’esperienza del divenire e del vivente, dell’esperienza dell’uscita dai limiti del sè, bisogna fare posto all’esperienza dell’altro, sia come individuo che come gruppo. Un’esperienza che non è apprendistato della tolleranza o del diritto alla differenza, ma considerazione, attraverso l’Immaginario stesso, del contributo che è proprio della produzione della nuova realtà.

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Incontrare ed abitare il presente, inscriversi nel “da realizzare”, uscire da sè, leggere l’altro; ecco chi designa concretamente, nelle sue grandi linee e schematicamente, il programma d’azione dell’Immaginario e le possibilità che offrono le logiche che gli sono proprie in più di un campo. Non saprei esaminare qui tutti questi campi d’applicazione, generali e particolari, ma sono sicuro che il dialogo che seguirà – dal momento che mi propongo qui soprattutto di porre dei problemi e di suggerire qualche risposta – permetterà di andare più avanti in questa direzione.

Per altro si è già rimarcato che, senza rinnegare in alcun modo l’eredità di un razionalismo che nutre essenzialmente il pensiero occidentale dell’antichità greca, e che ha dato le sue prove in materia di conoscenza scientifica nell’esplorazione del dato, l’Immaginario non solo travalica ampiamente questo dato e consente di estendere il campo del conosciuto al di là dei suoi limiti, ma anche inaugura dei cambiamenti, rinnova dei modi di essere, propone di superare delle frontiere e di imparare differentemente i problemi. Non saprei certo affermare che questa è una panacea universale capace di superare tutte le difficoltà e di guarire tutti i mali. Ma posso affermare – potremo tornare su questo punto se voi volete – che è un eccellente investimento quello che si fa nell’Immaginario. Investire nell’Immaginario, significa prima di tutto, non cambiare gli obiettivi che ci si è dati, ma darsi altri mezzi, sempre nuovi, per raggiungerli, ed innanzitutto accettare altre logiche che quelle del pensiero razionale; questo significa rimettere in causa le strategie di sviluppo non costruendo, per una lunga serie di ragioni motivate, dei progetti di obiettivi che talvolta assomigliano molto a delle utopie tanto sono distanti, ma facendo partecipare in tutto il loro essere, vissuto compreso, quelli che li elaborano e li mettono in opera; questo vuol dire permettere a ciascuno di contribuire a suo modo, al suo livello, alla realizzazione di un Immaginario collettivo che nutrirà, e a dinamizzare questo grande corpo vivente sempre in mutamento che è il gruppo o la società; questo significa far attenzione a non chiudere nessuno nella sua funzione, nel suo ruolo, nella sua specialità in cui svolge al meglio i servizi che gli si chiedono, e dove trova un rifugio confortevole e rassicurante; questo significa infine consentire a ciascuno, per quanto si può, di trovare posto nel momento, di non assentarsi più dal presente, di incontrarsi in questo e quel modo incontrando le cose e gli altri, e per altro di essere più al mondo e di uscire dalla sua solitudine essenziale sui sentieri della creazione. Solo a questo prezzo ci sarà possibilità di cambiamento dei comportamenti, di cambiamento delle relazioni, di cambiamento delle prospettive e si potrà parlare forse infine, seriamente di prospettiva.

Si vede già da ciò che l’apprendistato dell’Immaginario, intendo l’esercizio dei mezzi per stimolarlo al fine di utilizzarlo al meglio e raccogliere da lui qualche vero beneficio, non si improvvisa. Dal momento in cui si riconosce la sua importanza, il ruolo che può giocare a diversi livelli, diviene indispensabile accordargli il posto che gli spetta di diritto o dovrebbe spettargli, e di cessare di accontentarsi di azioni puntuali e disordinate che disconoscerlo, o passare accanto allo scopo ricercato. L’ho detto prima: sembra indispensabile, per scoprire e far scoprire l’esistenza ed i poteri delle logiche dell’Immaginario, coltivare prima di tutto ciò che consente un incontro diretto, immediato, totale, con la realtà prima, senza il passaggio del pensiero. E’ alla scoperta ed all’affinamento delle sensazioni che bisogna domandare l’impressione decisiva di appartenenza a questa realtà – ciò che si chiama la simpatia – la quale impressione genererà presto la scoperta della sua trasformazione come della trasformazione progressiva della realtà prima. Perché la sensazione rivela di colpo potenzialità, possibilità dell’emergere di realtà nuove, è proprio da essa che deve iniziare ogni formazione. Ma l’Immaginario, a nostro dire, l’esercizio della sensazione, ci avvisa già a questo proposito, che non potrebbe esserci vera formazione che faccia astrazione dal vissuto. E’ l’essere intero che dovrebbe avviare l’acquisizione di ogni sapere, ed in tutti i casi è l’essere tutto intero che mobilita tutto i trasferimenti riusciti di conoscenze, di competenze; tanto è vero, e sarà senza dubbio merito del nostro ventesimo secolo di avercelo dimostrato, che l’essere non si dissocia dal mondo, né il tempo dallo spazio, ma che l’essere stesso non si dissocia in funzioni indipendenti le une dalle altre e che possano ignorarsi. La considerazione del vivente, del vissuto, nella formazione, ma anche la partecipazione di questo vissuto alla formazione, sfociano ormai in quello che bisogna chiamare una pedagogia dell’Immaginario. Una pedagogia di cui cominciamo qui a parlare e che precisamente si rifiuta di opporre le nozioni di oggettività e di soggettività come si vuole in una prospettiva razionale, all’interno di un pensiero riflessivo.

Non saprei oggi parlarvene come si conviene, non è il mio scopo, e mi accontenterò di segnalare, per non lasciarvi l’appetito, che una tale pedagogia implica di cessare di opporre l’approccio ironico e l’approccio simpatico dell’oggetto o del soggetto da conoscere, per svelare al contrario la loro necessaria complementarietà. Darò come solo esempio quello dell’approccio all’opera di creazione che si è convenuto chiamare artistica, per esempio il poema o il quadro. Sono pronto a mostrarvi, prove alla mano se volessi, ciò che può portare, che può solo portare una lettura dell’Immaginario. Una lettura suscettibile non di interpretare e quindi di tradurre, quindi di ridurre e di fissare, ma di sgombrare tutti gli elementi in opera in questo poema o in questo quadro, ed il modo in cui si organizzano gli uni in rapporto agli altri, in un modo quasi scientifico, non lasciando niente al caso; ma una lettura capace anche, in un secondo tempo, di ridare senso o questo quadro riscaldando l’Immaginario raffreddato dalla sua scrittura con una lettura che coinvolge il lettore nella sua piena partecipazione, il confronto con il suo proprio Immaginario con l’Immaginario dell’opera, e infine la rimessa in vita di questa, la sua rimessa in funzione e quindi di far convergere tutte le forze che contiene secondo una coerenza che detti il suo senso.

Oggi non mi avventurerò per queste vie sebbene appassionanti e nuove. Vorrei solamente, per terminare, evocare in qualche parola facendo un po’ la sintesi di tutto ciò che ho accennato fino a qui, la parte dell’Immaginario – una parte che non si potrà più ignorare – nella ricerca. Ciò che propone l’Immaginario in questo campo, sono innanzitutto altre logiche – logica dei possibili, legata a ciò che è in divenire, o logica paradossale che mette in discussione i dogmi della ragione; ma comunque logica poiché, in ogni caso, le potenzialità che ogni azione libera non si ordinano a caso ma si articolano, si attirano e si deformano, si legano e si trasformano secondo certe necessità imperative di un altro ordine che non è razionale. Sono altre modalità di stimolazione e di messa alla prova della creatività che l’Immaginario propone, altri esercizi sulle potenzialità, altri passaggi ad una realtà nuova, altre terre nuove da esplorare. E si vede così che si scoprono nuovi campi di applicazione, quando è anche l’iniziazione alla ricerca che è messa in causa, la formazione all’innovazione, l’apertura a nuove prassi, l’apprendimento delle strade stesse della creazione. Senza che sia il caso di dedicarsi al solo studio della prassi, in cui c’è ancora molto da fare, non deve essere senza interesse, per chiunque abbia la volontà di ricerca o il compito di ricercare – certi manager l’hanno già compreso, IBM, UBS, … – di confrontarsi un giorno con ciò che ho chiamato la logica dell’Immaginario: le connessioni del reale e del possibile, le fratture creatrici, le compatibilità ed incompatibilità dei possibili, la convergenza di schemi genetici o forze dell’Immaginario, la loro coerenza portatrice di senso, nonostante i problemi che fanno della creazione una cosa diversa dal caso e lasciano pensare che anche creare si possa apprendere.          

Ma vorrei fermarmi un istante, per concludere con una pratica, sul campo insieme psicologico e terapeutico della comunicazione non verbale, che l’Immaginario è forse il solo ad esplorare. Dal momento in cui colui che emette o vorrebbe emettere un messaggio, perché è privato della parola, che non può o non riesce a governare il contenuto di informazioni da far passare, dal momento che non può usare alcun codice esistente né appoggiarsi a dei referenti identificabili, potrebbe essere che la decifrazione di un’occupazione dello spazio da parte di una gestualità che diventa autentica scrittura dell’Immaginario sia il solo modo di stabilire un legame con chi è murato nel suo psichismo o il suo silenzio. Mettendo l’accento sulle potenzialità inscritte in questo linguaggio di gesti – per quanto infimi o disordinati essi siano – contemporanei alla loro enunciazione, molto più che sui materiali che usa questo linguaggio, e considerando trascurabili le risposte che questi gesti potrebbero apportare ad alcuni riflessi primordiali, la decifrazione paziente delle potenzialità inscritte nella situazione presente permette di considerare la gestualità non più come un insieme di movimenti che si sforzano di tradurre nello spazio un messaggio già costruito e che non potrebbe dirsi in altro modo, ma come una vera costruzione che trova confusamente il proprio dire ed il proprio senso in una certa occupazione dello spazio, avvicinandosi così ad una scrittura dell’Immaginario. Dei lavori che si fanno oggi in questo senso in alcuni servizi ospedalieri che accolgono afasici – in seguito a traumatismi cranici o accidenti vascolari – e soprattutto in un istituto specializzato che si occupa di bambini autistici, lasciano intendere, tramite le vie che aprono e più ancora tramite i primi risultati ottenuti, che l’Immaginario può effettivamente e concretamente venire in soccorso ad una realtà che esso sa esplorare e decifrare al di là di quello che si osa sperare.

E’ su questo messaggio consolante, e che lascia intendere che l’Immaginario attraverso le sue logiche non ha finito di interrogarci e di sorprenderci, che mi fermerei non senza avervi invitato, come si deve, “a voler ed a saper sognare, poiché è tutto qua”.