Silvano Secco

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Silvano Secco psicoterapeuta ITP.

 

Il suicidio, incidenti, autolesionismo negli adolescenti.

Il fenomeno del suicidio e gli altri fenomeni collegati verranno analizzati, in questo lavoro, all’interno della dimensione psicologica scegliendo come guida la teoria psicodinamica in primis, anche se parallelamente si dovranno prendere in considerazione, almeno genericamente, gli aspetti statistici o sociologici. Anche l’elemento neuropsicologico appare interessante ed utile per comprendere questi fenomeni così complessi ed indecifrabili.

 

Da dove nascono le sofferenze degli adolescenti?

Sempre in termini generali possiamo affermare che le angosce che gli adolescenti subiscono sono determinate da:

  • ·         sofferenze psicologiche determinate dai conflitti intergenerazionali
  • ·         diversa maturazione tra zone cerebrali prefrontali e sottocorticali
  • ·         evoluzione biologica del corpo e della psiche
  • ·         etc.

 

Il corpo.

Sappiamo che il corpo viene scelto/usato inopinatamente dagli adolescenti in molteplici modi perché è l’oggetto psicologico più a portata di mano. Più la sofferenza è incombente e dolorosa, più il corpo viene scisso da tutto il resto che è la persona.  [1]Il corpo, come un vestito di pelle, viene adagiato su un appendino.

Il corpo viene in-vestito da tali sofferenze, da diacronie evolutive/maturative e inconsapevolmente, usato dall’adolescente mediante gli agiti come ad esempio i comportamenti auto lesivi, le diete estreme, l’uso di sostanze psicotrope, gli sport estremi, l’abbandono scolastico, le gravidanze.

Altre volte, le sofferenze si manifestano mediante i disturbi somatoformi che le agiscono più sul piano della raffigurazione come ad esempio le somatizzazioni, le dismorfobie, l’ipocondria.

 

Il deficit di mentalizzazione.

Quello che manca agli adolescenti non sono le informazioni relative ai modi da utilizzare per mettersi in pericolo o per attuare un suicidio o i rischi connessi ad esempio al fumo o alcool. Anzi, molti adolescenti possiedono informazioni dettagliate. Gli adolescenti conoscono bene il funzionamento della moto o delle sostanze come la cannabis o la possibilità di rimanere in gravidanza. Quello che non riescono a pensare e a gestire, sono i rischi connessi a tali strumenti, anzi li usano in funzione di un controllo illusorio dei rischi mentre in altre situazioni è proprio il rischio che attrae la loro attenzione distorcendo la percezione della realtà. Il rischio in sé trattiene la forza della seduzione, contiene un piacere mortuario della vita; come se per assaporare o comprendere il senso/significato della vita fosse necessario sperimentare il letto di morte. A tal proposito rammento il mito[2] di Psiche ed Eros: il padre, ascoltando il suggerimento degli dei, mise Psiche nel letto di morte, da dove poi Zefiro la condusse nel giardino del palazzo di Eros.

 

Come atto fallito.

Una delle ipotesi più interessanti, utili ai fini della comprensione dei fenomeni – suicidio, atti autolesionistici, i disturbi somatoformi, disturbi del comportamento – è quella di considerarli come dei tentativi estremi falliti di controllo delle angosce. La domanda sottesa è: perché sono atti fallimentari? Nell’adolescente gli stati di disregolazione affettiva, emotiva o sensoriale, verificatesi precedentemente durante i primi due anni di vita, si trasformano in stati d’angoscia non più controllabili. Vi è, come conseguenza, un deficit di mentalizzazione ovvero di elaborazione mentale degli stati d’angoscia.

Il modo che ogni adolescente, inconsapevolmente, sceglie dipende dalla sua storia evolutiva, perché queste angosce sono state, di fatto, sperimentate durante i primi due anni di vita, e ciascuno ha già elaborato un proprio stile, propri schemi di risposta. Il problema quindi è duplice: 1) come far riconoscere all’adolescente tali schemi, 2) come interrompere il circolo vizioso o loop dove egli si viene a trovare durante questo momento evolutivo.

Per un altro verso, manca a questi adolescenti una struttura mentale esterna che li aiuti. Per struttura esterna si intende un buon gruppo di coetanei, un adulto competente che evitando etichette patoligizzanti riesca a riconoscerne la sofferenza e ricondurre nell’alveo della normalizzazione evolutiva l’adolescente. Sembra che la scrittura, lo scrivere ( e di questo ne parleremo nel prossimo Seminario sull’arte ed il suicidio) non sia una buona strategia d’aiuto.

La sofferenza ed i conseguenti vissuti/comportamenti possiamo scriverli lungo un continuum. Più si procede verso la patologia maggiormente l’angoscia appare elevata, minore però è il contatto con l’angoscia perché si attivano delle scissioni sempre più estrema. Il contatto con la realtà sia interna sia esterna diventa flebile ed i livelli di riflessione sono inadeguati.

 

Schema di continuum:

Comportamenti a rischio evolutivo Autolesionismo Incidenti (sport, stradali, casa, scuola, lavoro) Tentativo di suicidio. Suicidio riuscito

 

Come esemplificazione la situazione di un adolescente condotto nel mio studio dal genitore, anche su propria esplicita richiesta, in consulenza psicologica perché era stato trovato piangente disteso sul pavimento della sua camera. Questo adolescente dichiarava di essere angosciato ed impaurito dalla presenza, nella sua mente, di tre personaggi quelli che lui chiamava il suo compagno immaginario (= il suo Doppio) da sempre presente in lui ed altre due presenze relativamente recenti: una entità che lo obbligava a punirsi ed una terza, quella più attuale, gli suggeriva/imponeva di compiere atti e desideri non accettabili anche a sfondo sessuale. In sintesi erano le tre istanze individuate da Freud e vissute concretamente da questo adolescente molto intelligente e sensibile, come l’Io, il Super Io e l’Es. Quando gli venne spiegato l’arcano mistero egli si rappacificò continuando così la sua vita.

 

La caduta.

Tutti i comportamenti a rischio hanno a che fare in un modo o nell’altro con il tema della caduta forse perché è una esperienza che si è iscritta nella memoria del nostro corpo già durante la nascita, che presso certe tribù avviene ritualmente per caduta al suolo.

La caduta contiene  il significato di rottura che consente il passaggio da un livello superficiale ad un altro sempre più profondo, verso il basso cioè verso il corporeo.

Il rischio è come la pausa tra l’inspirazione e l’espirazione. È una pausa simile alla caduta che conduce ad un cambiamento tramite una rottura di livello tale da consentire il passaggio ad un altro livello. La caduta si trova come esperienza nelle favole e nelle storie, ricordiamo ad esempio Alice nel Paese delle meraviglie.

 

Durand G. nel suo libro[3] nel Capitolo dedicato ai simboli catamorfi (= verso il basso) parla molto dei diversi significati della caduta.

 

Anche i cambiamenti più profondi dell’animo umano sono preceduti da una caduta. Ricordiamo la caduta di San Paolo così come viene descritta negli Atti degli Apostoli e artisticamente rappresenta dal Caravaggio.

 

 

Adamo una volta caduto nel peccato verrà punito con la morte.

Il concetto di caduta nell’alveo della cristianità presuppone il passaggio dall’armonico rapporto con Dio padre e la Natura, alla rottura di tale legame; un po’ come succede al bambino quando deve procedere verso la crescita ed entra nelle fasi critiche dello sviluppo, la pubertà e l’adolescenza.

 

I comportamenti a rischio.

Alcune definizioni psicologiche di comportamenti a rischio possono essere queste: sono dei tentativi di mettere alla prova i livelli di controllo e di autonomia, di conoscenza del Sé profondo e quindi una ricerca di Sé.

Situazioni consigliabili ed accettabili ai fini di una sana sperimentazione sono i viaggi di vacanza, i viaggi studio, tutte situazioni parzialmente strutturate con presenti degli adulti o gruppi positivi. I viaggi sono delle condizioni accettabili, ma anche ricercate durante le vacanze, che consentono al soggetto di uscire dagli schemi della quotidianità e di inoltrarsi in territori che possiedono il fascino del non conosciuto. Vengono così a crearsi delle situazioni di rischio quasi calcolato: una escursione in canoa, una immersione subacquea, una scalata in montagna, etc.

I comportamenti di fuga o per contro di isolamento sociale sono dei tentativi estremi di evitamento, dei comportamenti a rischio.

 

Rischio come condizione neuropsicologica specifica.

La ricerca del rischio da parte dell’essere umano si colloca tra l’esigenza biologica e la necessità di esternalizzare la sofferenza che deriva dai conflitti.

L’adolescenza è quella condizione biologica che spinge l’individuo alla ricerca di situazioni rischiose, per lo più scelte in contesti esterni alla propria cerchia famigliare. È una ricerca del rischio inteso come ricerca del senso del limite.

L’adolescente per maturare necessita di situazioni contenenti elementi di rischio, dove potersi tenere sospeso tra il senso della vita e quello della morte. Questa ricerca del limite inteso come momento di sospensione tra il senso della vita ed il senso della morte è di intensa attrazione. È la stessa situazione e posizione in cui si trova ogni artista nell’atto creativo.

Dobbiamo affermare, ripetendoci, che la messa in atto o agito impulsivo da parte degli adolescenti di comportamenti a rischio non sono dovuti a mancanza di informazione. Gli adolescenti per un verso possiedono una propensione spontanea verso il rischio, che è specifica propensione in questa fase di sviluppo. Per un altro verso vi è nell’adolescente un deficit di mentalizzazione o di elaborazione anche di ordine neuropsicologico che non gli consente di operare in parallelo tra componenti emotive e aree cerebrali di controllo dell’azione, di riflessione. Questa difficoltà ad operare in parallelo tra aree cerebrali diverse, ovvero quella depositaria delle emozioni e quella dove troviamo le capacità riflessive, in questa fase dello sviluppo stanno maturando in maniera diversa.

[4]

La ricerca del rischio e la messa in atto di comportamenti a rischio sono, come abbiamo accennato sopra, anche una forma di esternalizzazione, di rappresentazione di conflitti intrafamigliari o intrapsichici tra le diverse istanze psicologiche che stanno emergendo come le faglie che spuntano durante un terremoto interno alla terra.

Questo significa che per aiutare un adolescente dovremmo far emergere il sommerso, le sofferenze determinate dai conflitti. Il dare le parole in un colloquio alle sofferenze può essere di aiuto per un adolescente. È questo che alcune volte i genitori si aspettano da uno psicologo quando conducono i figli chiedendo aiuto miracoloso.

Chi si occupa di psicoterapia sa che il paziente quando lascia emergere questa sofferenza sommersa può confonderla e così affermare che non va bene, perché lo fa star male. Dobbiamo quindi chiarire: quello che senti, questa sofferenza, è quella che hai già sperimentato e che era sommersa. Non è la scrittura da prediligere, ma è l’atto di parola che può produrre abreazione ed effetto catartico.

 

A cosa serve l’assunzione/sperimentazione del rischio.

Vi è assunzione del rischio quando è presente una percezione, anche se limitata, dei pericoli associati all’azione, quando vi è un livello di partecipazione della coscienza. È come se il soggetto fosse in bilico tra la coscienza ed il vuoto che attrae.

Uso il termine assunzione nel senso di: far proprio qualcosa in termini coscienti o parzialmente coscienti. L’assunzione del rischio e la sua sperimentazione entro certi limiti è salutare perché aiuta l’adolescente a raggiungere iniziali forme di identità, di maturità, di indipendenza.

Nei comportamenti a rischio di tipo patologico non esiste alcuna assunzione del rischio da parte dell’adolescente. Ovviamente stiamo parlando di assunzione come atto di coscienza.

Nell’anoressica o nella bulimica vi è la sperimentazione di Sé come cibo che cade nel vuoto intestinale.

Nella persona che si getta da una finestra vi è la sperimentazione del vuoto spaziale, come per Psiche che posta nel letto di morte dal proprio padre venne presa da Zefiro, il vento di Zeus, che la condusse da Amore.

Nella persona che corre a tutta velocità con la propria moto vi è il confronto con la sfida, ovvero con l’ignoto, la fuga dal vuoto, per comprendere chi è più veloce.

 

Alcune motivazioni alla ricerca del rischio.

La ricerca del rischio può avere varie motivazioni come:

  • ·        la necessità di opporsi alla passività,
  • ·        la ricerca di sensazioni o sensation seeking,
  • ·        il bisogno di fuggire dall’angoscia o dalla depressione
  • ·        etc.

 

Comportamenti a rischio e passività.

La ricerca del rischio può essere determinata dalla necessità di allontanarsi dalla passività vissuta in maniera negativa, come immobilizzazione del corpo, come esperienza di costrizione.

Possiamo distinguere una passività positiva ed una passività negativa. Il neonato vive fisiologicamente delle sane esperienze di passività. Quando la persona non ha sperimentato in un contesto protetto, come l’abbraccio contenitivo del genitore, delle sane esperienze di passività, sostituisce questa deprivazione con i suoi opposti quali la maniacalità o la sensation seeking. Nella sua quotidianità, questi tipo di persona, non riesce a dormire normalmente, non riesce a vivere ed apprezzare i momenti di tranquillità, mentre invece durante la giornata sfoggia una energia in apparenza inesauribile.

Nelle sedute con l’ITP, queste persone in particolare durante le prime sedute hanno la necessità di sperimentare molte Imagerie passive, totalmente inattive e riescono a raggiungere il movimento partendo da Imagerie di osservazione e di sperimentazione posturale. Con Imagerie di osservazione intendo ad esempio immaginare di osservare il movimento lento di una foglia che si stacca dall’albero o il volo di un gabbiano. Con Imagerie di postura intendo immaginare di ascoltare le proprie gambe sostenute dalla curvatura di una collina o di una sedia.

 

Comportamenti a rischio e sensation seeking.

Il rischio viene definito come la tensione verso un oggetto-meta non sicuramente raggiungibile (Kogan, Wallach 1967) ed implica anche una perdita possibile.

Nella sperimentazione di sport a rischio Csikszntmihailyi ha scoperto negli scalatori il fenomeno chiamato flow[5] o deep fow quando è particolarmente intenso. Per loro esiste solo l’azione presente in quel momento ed il tempo e lo spazio si annullano, ovvero si concentrano solo sull’istante. I movimenti i gesti si adeguano alla roccia senza riflessione alcuna.

Un altro ricercatore Zuckerman ha osservato che vi sono alcuni soggetti che diventano inquieti quando vengono a mancare forti stimolazioni. Egli quindi ha chiamato sensation seeking la ricerca di sensazioni ed impressioni varie, nuove, complesse.

Zuckerman ha ripreso l’ipotesi avanzata da Stein (1978) circa l’attivazione biochimica del sistema limbico con produzione di dopamina e l’enzima monoaminoossidasi (MAO). Per cui sono queste differenze individuali in tali processi a produrre le differenze di sensation seeking. Di fatto a tutt’oggi non vi sono dimostrazioni certe.

Da un punto di vista di ricerca psicologica è stato formulato un questionario Sensation seeking scale di valutazione, scala di Zuckerman. Sembra dalle analisi dei questionari che l’elemento decisivo non sia lo sport in sé, quanto invece il rischio contenuto in tale attività e forse anche il tipo di rischio affrontato.

Alcuni comportamenti a rischio sono il bullismo e cyber bullismo, il sexting, l’abuso di alcool e stupefacenti, le attività sessuali non protette, l’anoressia e bulimia, il bullismo e l’abbandono scolastico, le fughe da casa, i tentativi di suicidio, i comportamenti violenti contro oggetti, animali e persone, gli incidenti in vari contesti.

 

Il rischio tra salute e morte.

I comportamenti a rischio utilizzano il corpo inteso come oggetto, cosa materiale. Ve ne sono alcuni che minano la salute, altri che possono condurre alla morte distruttiva.

Parlo di morte distruttiva per distinguerla dalla morte simbolica, altrettanto reale sul piano psicologico, a livello dell’inconscio. Ad esempio con il passaggio alla fase preadolescenziale qualcosa deve morire; e questo qualcosa è la morte simbolica dello stato infantile.

Kafka non si uccise certamente, ma chiese all’amico Max Brod di bruciare tutte le sue opere, scritte, alla sua morte; questo è l’equivalente di un suicidio simbolico, l’annientamento della sua scrittura. La minaccia alla salute ha a che fare con il suo opposto ovvero la Cura, mentre la morte si intrattiene con la Creatività. Questi dunque sono le coppie: salute minacciata/cura, morte/creatività.

 

Alcune strategie di protezione.

Quando l’obiettivo attrattivo del comportamento a rischio è la morte ci vuole un contesto protettivo affinché questo incontro non si concretizzi nella morte distruttiva. L’individuo per non lasciarsi andare all’abbraccio della morte distruttiva ha bisogno sia costruito un recinto o contesto protettivo che lo aiuti ad apprendere competenze riflessive: il gruppo dei pari, un adulto competente, la presenza di rituali di passaggio, la possibilità di sperimentare la morte accettando strumenti di protezione.

 

Il rischio: i diversi significati.

Il concetto di rischio è fluido quando viene calato inevitabilmente nella soggettività denominata vissuto del rischio.

Nel contesto di vita dell’adolescente la ricerca del rischio risponde ad una necessità fisiologica, biologica, organica e quindi pulsionale. L’altro termine opposto al rischio è la creatività.

Così, possiamo intendere meglio una gravidanza che in generale come progetto di vita contiene sempre un progetto di morte. Le gravidanze delle adolescenti o preadolescenti vengono chiamate anche gravidanze indesiderate, gravidanze a rischio. Nella visione orgiastica che alcuni adulti hanno dell’adolescenza le gravidanze sono gli unici comportamenti a rischio che vengono presi in considerazione nella così detta prevenzione e nel funzionamento dei Consultori giovani; dimenticandosi dei molti altri comportamenti a rischio che sottendono sofferenza negli adolescenti, lasciandoli così soli.

Il termine rischio quindi assume un diverso significato a seconda del contesto di riferimento: psicologico, sociale, statistico.

Da un punto di vista psicologico il rischio ha a che fare con la morale, ovvero con il senso di colpa, perché comporta sempre la possibilità della perdita. A tal proposito lo ritroviamo ben rappresentato all’interno dell’alveo del pensiero religioso, nei miti.

Sempre nel contesto psicologico il rischio viene per così dire misurato con il metro delle emozioni e dei valori viscerali che noi diamo agli eventi. Ad esempio sentirsi dire che se facciamo una determinata cura avremmo degli effetti entro un certo tempo o che la nostra vita potrà essere prolungata per un certo periodo, tutto questo avrà un certo tipo di valutazione dal nostro punto di vista o dal punto di vista del medico. Lo stesso per quanto concerne l’accettazione del rischio in un investimento economico o affettivo.

La percezione del rischio risente delle reazioni emotive ad un dato evento che condizionano i processi cognitivi, che alterano la realtà. Risente anche della tappa evolutiva o dal tipo di maturazione psicoaffettiva dell’individuo, dalla sua intelligenza emotiva.

La nostra mente è per così dire cablata dalla misurazione del rischio. Ad ogni nostra azione quotidiana corrisponde un calcolo mentale veloce dei rischi: se faccio questo otterrò o non otterrò questo Altro risultato. Ad esempio quando giochiamo a dama o a scacchi, ogni mossa comporta un rischio a breve e a lungo termine; ogni mossa può comportare la perdita di una pedina o della partita.

Il rischio quindi ha a che fare con il tempo futuro, con quello che potrà avvenire se. Purtroppo negli adolescenti alcune volte manca questa proiezione nel futuro, la capacità di fare dei progetti di vita. Per comprendere la definizione che ne dà l’adolescente del rischio è assolutamente necessario andar a recuperare le nostre memorie di adolescenti.

Nel contesto matematico statistico il concetto di rischio corrisponde al grado di perdita o di guadagno, coincide quindi ad un calcolo probalistico nato nel contesto del gioco d’azzardo a fine ‘700, ripreso dalle grandi compagnie assicurative ed infine utilizzato dalle scienze sociali e sanitarie. La definizione statistica di rischio non corrisponde a quella che viene vissuta ed intesa dall’adolescente.

Il valore statistico di un dato matematico può essere inteso solo dalle persone che lavorano e hanno una teoria e cultura statistica che consente loro di comprendere il peso matematico del numero ed il suo significato. Del resto anche la matematica è un linguaggio.

Le diverse categorie (adolescenti, genitori, educatori, insegnanti, medico di famiglia, psicoterapeuta) hanno una diversa definizione intrinseca del termine rischio e dei vissuti altrettanto diversi del rischio.

 

La complessità del fenomeno suicidale per i viventi.

Il suicidio è un fenomeno psicobiosociale complesso. Coinvolge drasticamente la persona che l’esegue e drammaticamente il vivente, il gruppo di riferimento, la famiglia in primis, ma anche altri gruppi come ad esempio i compagni di classe se frequenta la scuola, gli amici, le famiglie del vicinato.

Il suicidio si propaga a centri concentrici, dalla scena del suicidio ad altre persone, aree sociali più o meno estese. Produce un effetto pigmalione che si dilata/espande sempre più verso l’esterno e, delle volte, si amplifica con il contributo della stampa che, come una cassa di risonanza, contribuisce a trasferire le informazioni e trasformare il messaggio criptato, contenuto nell’atto suicidale, aumentandone l’intensità di contagio sociale, le ambiguità e le falsità. E’ una situazione simile ad una epidemia sociale che alcune volte, nei giovani, si trasforma in emulazione.

Il suicidio appare quindi come un evento psicosociale critico, di difficile decifrazione per la collettività, crea una situazione simile ad un terremoto sociale, con effetti simili ad una sindrome traumatica collettiva. In questo contesto per evento psicosociale critico si intende un evento che appare come non decifrabile e contenente in sé una forza distruttiva vissuta dal vivente come violenza subita.

Il lutto che ne consegue è un lavoro complicato dalla presenza del trauma, con tutte le sue caratteristiche conseguenze.

Quando questo evento si manifesta la prima domanda che sorge nelle mente di ciascuno e si accompagna ad uno stato interiore di smarrimento/impotenza, è: perché l’avrà fatto? Effettivamente il suicidio è un fenomeno che lascia transitare elementi di vuoto di significati inerenti per lo più il senso della vita, l’insopportabilità a vivere la vita, la morte.

 

Il dramma dei viventi.

Il vivente parente, amico o conoscente viene coinvolto nella situazione suicidale e le caratteristiche cliniche del suo coinvolgimento sono simili a quella di un trauma oggettivo, perché è come avesse subito una violenza.

Quando parlo di trauma oggettivo mi riferisco in generale ad un evento improvviso, catastrofico dove la persona, suo malgrado, viene coinvolta e non ha alcuna possibilità di reagire, né con la fuga né con l’attacco. La persona vivente subisce l’evento suicidale in maniera improvvisa, percependosi come impotente di fronte al fatto.

Altri elementi fondamentali che appartengono al vivente con trauma da suicidio sono il senso di colpa e la vergogna, l’incredulità ed il deficit da comprensione. Senso di colpa e vergogna sono stati neuropsicologici collegati, così anche l’incredulità di espande verso un deficit cognitivo di comprensione del gesto.

Una conseguenza sul piano operativo è che il lavoro che attende il vivente, utile a superare l’evento, non è paragonabile al lavoro del lutto che troviamo in una situazione di morte di un parente deceduto per morte naturale o per malattia. Nelle situazioni di suicidio si dovrebbero prevedere dei passaggi inizialmente simili a quelli del lavoro con il trauma oggettivo. Solo successivamente sarà possibile il lavoro del lutto.

Nel caso di un suicidio riuscito il primo passo sarà quello di affrontare il trauma, la ferita che il suicidio ha determinato nei viventi. L’atto suicidale è un’azione violenta diretta sia verso se stesso, ma anche verso i viventi, qualsiasi sia la motivazione sottostante.

Nella situazione di suicidio non riuscito o tentativo fallito, gli interventi – uso il plurale perché il lavoro che si dovrà fare è anche verso la persona rimasta viva – saranno diversi perché vi è un residuo di vita che si accompagna ad una probabile possibilità di un recupero, come anche una probabilità di ripetizione del gesto suicidale.

 

Eutanasia.

Il tema dell’eutanasia da un punto di vista legislativo trova varie forme di regolamentazione. Il suicidio assistito in Italia è un reato e secondo l’articolo 580 del Codice Penale è punito con una reclusione da 6 a 15 anni. Mentre l’eutanasia attiva è assimilata all’omicidio volontario secondo l’articolo 575 del Codice penale.

Vi è senza alcun dubbio, per la persona che si suicida, un confronto graduale ed una attrazione verso la morte. Vi sono persone che lungo il percorso della propria vita approdano all’accettazione della vita e altre invece che deviano la traiettoria ed ormeggiano l’opposto, la morte.

 

Il suicidio come ciclo.

Il suicidio non deve essere inteso solo come un progetto quasi studiato a tavolino, pensato, programmato. Questa visione è una forma interpretativa antica che possiamo far risalire al pensiero degli stoici. Sarebbe riduttivo rispetto alla sua complessità sia per chi lo compie sia per i viventi.

Il suicidio è un evento complesso che si evolve a cicli o successione di eventi intrapsichici e relazionali che tendono a coinvolgere una molteplicità di persone. Come quando si lancia un sasso in acqua e questo poi produce dei cerchi concentrici sulla superficie e infine si adagia sul fondo dello stagno. Ecco questo adagiarsi è quello che noi percepiamo, la fase finale simile a corpo del suicida.

Alcune volte quello colpisce la nostra etica è che quando una persona è giunta alla decisione di farla finita, nessuno riesce a trattenerla. È come trattenere un pulcino in un nido, è impossibile fermarlo perché quando sente che è giunta l’ora di spiccare il volo si lancia tra le braccia del vento e del vuoto, sperimentando così la caduta.

Di fronte a questa impossibilità a trattenere il suicidio viene da ipotizzare che quella del suicidio non sembra tanto una decisione quanto invece un’azione. Sarebbe più esatto quindi definire il suicidio una idea-azione più o meno definita.

La presupposta lucidità, di cui alcuni parlano, ha più a che fare con la sensazione di essersi liberati da qualcosa: uccidendomi non proverò più dolore/angoscia.

La morte per suicidio è una morte complessa. Quando si analizza il ciclo del suicidio nella sua complessità non si deve confondere il tema/significato della morte con l’atto suicidale, anche quando l’atto suicidale conduce la persona verso la fine della propria esistenza. La morte naturale è il punto o tappa di arrivo, la conclusione di un percorso evolutivo.

La morte da un punto di vista psicobiologico è collegata a Thanatos[6] e alla destrudo[7].

 

L’ideazione e la lucidità.

Il suicidio è il prodotto di una idea-azione? Per idea-azione suicidaria si intende sia la progettualità (pensiero) sia la lucidità.

Ipotizzo che l’idea-azione o progettazione faccia parte del ciclo suicidale.

Gli studi di anatomia psicologica condotti da Brent[8] sembrano dimostrare che gli agiti suicidari siano determinati dalla impulsività e solo 1 su 4 dimostra di essere stato programmato.

L’ideazione suicidaria è analoga alla idealizzazione di una valutazione dell’oggetto d’amore da parte di una persona con struttura di personalità narcisistica o con esperienza di uno stato di abbandono che un minore subisce da parte di uno dei due genitori biologici.

Per idealizzazione intendo un surplus di idee e di accreditamento di valori, un esempio tipico è quello della persona che abbandonata o rifiutata dal genitore lo descrive come onnipotente, meraviglioso, potente.

L’ideazione è una tappa del percorso suicidale, non è però quella fondamentale, né il punto d’inizio.

 

Suicidio come deficit di mentalizzazione.

Ipotizzo che vi sia nel soggetto che decide il suicidio un deficit di mentalizzazione nel senso che:

1.   Ad un certo punto del ciclo suicidale si presenta il pensiero ( … “devo farla finita” … “mi uccido” …) che colonizza la mente della persona.

2.   Il soggetto suicidale o non possiede la macchina per pensare e trattare il pensiero di suicidio o questa si è bloccata.

Questa distinzione è preziosa sul piano operativo di aiuto. La domanda è allora: Come posso aiutare la persona che sta progettando l’atto? Una possibile risposta operativa in ambito psicoterapico può essere allora: dovremmo aiutare la persona a pensare assieme il pensiero, a trattarlo, a contenerlo.In questo caso si tratta di un pensiero di morte.

Il suicidio ha un effetto tabù anche nei professionisti. Il tabù, rispetto all’argomento della morte in generale e del suicidio in particolare, lascia da sole le persone, condannandole all’isolamento.

Nell’adolescente è presente un naturale bisogno di sfida ( = difesa di tipo antidepressivo) che si accompagna alla tendenza ad agire con impulsività. In uno studio[9] su un ampio campione  di 10.000 adolescenti con tentativi di suicidio è stata dimostrata la presenza di elevati livelli di impulsività, anche quando sia presente una lunga pianificazione.

Il tipo di rapporto con il proprio corpo è un altro fattore che gioca un ruolo importante, perché molte volte l’adolescente vive il proprio corpo come sconosciuto, fonte di stimoli prima mai così evidenti, un corpo di cui vergognarsi e quindi, in quanto fonte di vergogna, nemico da eliminare. Altre volte il suicidio, ed in particolare il tentato suicidio, può essere anche una richiesta mascherata di aiuto.

La percezione di un senso di lucidità è analogo a quello che avviene nel funzionamento psicotico. Ipotizzo dipenda dalla sensazione di liberazione dall’angoscia. È in tale momento che il pensiero suicidale, intervenendo, viene percepito come un atto liberatorio dall’angoscia stessa. Non è quindi una lucidità di pensiero, di miglioramento delle capacità cognitive e critiche. In altri termini mano a mano che la persona perde il contatto con l’angoscia, più avanza verso il momento della realizzazione del suicidio e più sperimenta la lucidità della mente. La mente del soggetto suicidale in questa fase del ciclo è come un cielo che viene pulito dalle nuvole dell’angoscia ed il vento, che soffia per spingere oltre le nuvole, in un’altra parte del cielo, produce la sensazione di liberazione, di luce. Vento e luce così si con-fondono.

 

I segnali criptati lanciati dagli adolescenti.

Il soggetto suicidale all’inizio del suo percorso può involontariamente manifestare dei segnali criptati relativi:

  • ·        alla propria angoscia di vita,
  • ·        all’insopportabilità verso la vita,
  • ·        alla perdita del senso/significato della vita.

Questi segnali sono criptati e quindi difficili da cogliere e decifrare. Sono lanciati per lo più all’interno dei gruppi di appartenenza, non nei contesti di lavoro dei professionisti della salute o della malattia. È per questi motivi che una sana prevenzione dovrebbe prevede una sensibilizzazione attraverso dei progetti di peer tutoring dei giovani e degli adulti di riferimento (genitori ed insegnanti).

Con il procedere del ciclo suicidale ed in particolare quando la persona approda alla progettazione tende ad attuare/escogitare dei comportamenti di nascondimento del proprio progetto di morte, assumendo anche vere e proprie forme di elusione in particolare agli occhi degli esperti. Attua cioè dei comportamenti verbali e non verbali di protezione del proprio progetto di morte, aumentando così il proprio senso di onnipotenza e di solitudine/isolamento; o per contro nei casi di suicidio motivato dal martirio aumentano i gesti di affettività come ad esempio il commiato dai propri genitori, amici.

 

La scelta del metodo.

La scelta del metodo dipende da fattori culturali e ambientali, da aspetti personali. Anche la cronaca può determinare una diffusione e conseguente imitazioni; in particolare le persone famose o nuovi eroi tendono ad essere imitati dai giovani.

 

La scena.

I professionisti d’aiuto nei contesti sanitario o sociale,  come la polizia, i vigili del fuoco, gli infermieri e medici che intervengono nella situazione suicidale possono assorbire il trauma mediante la forma vicariante di adesione inconsapevole al trauma, provocata dal coinvolgimento prettamente emotivo della scena suicidale, dalla presenza di parenti, amici.

La scena a cui andranno incontro i soccorritori è determinante per quanto concerne l’assorbimento del trauma. Così ad esempio avere in anticipo delle notizie, dalle persone già presenti nello scenario dell’evento suicidale, può preparare psicologicamente i soccorritori.

In questa nostra analisi del fenomeno si tratta quindi di guardare al suicidio in maniera binoculare: il punto di vista del suicida e quello del vivente (parente e soccorritore).

La scena suicidale dovrebbe essere considerata come parte essenziale dell’evento traumatico. Per scena si intende le condizioni oggettive in cui verrà ritrovato il corpo del suicida, l’ambiente dove è avvenuto il suicidio, i messaggi lasciati dalla persona prima di compiere l’atto.

Vari quindi gli attori:

  • ·         Il suicida
  • ·         La scena suicidale
  • ·         I soccorritori
  • ·         I parenti
  • ·         I gruppi di appartenenza
  • ·         Gli estranei

 

La destrudo nella scena suicidale.

Ciascuno ha un proprio punto di vista e una sua logica, specifici vissuti emotivi e un peso affettivo specifico che appesantisce la scena. Tutti si trovano ad interagire, loro malgrado, costretti dalla forza soverchiante che proviene dall’evento. Questa forza la possiamo chiamare la destrudo dell’evento, nel senso di energia dell’impulso distruttivo, una forza disgregatrice, che riduce l’oggetto in polvere, frantumando e scomponendo gli elementi.

Il suicidio crea un impatto sociale molto esteso sui famigliari, conoscenti. Alcune ricerche hanno calcolato che un suicidio colpisce circa altre sei persone. Se la scena del suicidio è una scuola o il posto di lavoro verranno coinvolte decine o centinaia di individui che loro malgrado frequentavano quegli spazi.

 

Il dolore.

Anche la sperimentazione del dolore fisico auto procurato, con lesioni di vario tipo ed intensità, può essere interpretata come una forma di allenamento, utile a depotenziare la paura del dolore, inducendo così la persona ad affrontare la prova finale, ovvero la messa in atto del suicidio. La paura del dolore è un deterrente positivo verso il mantenimento in vita del corpo.

Ipotizzo poi che anche le azioni auto lesive e fra queste gli incidenti, siano in generale caratterizzate o determinate da una mancanza di mentalizzazione e che vi sia un prevalere dei processi primari, caratteristici del funzionamento dell’Inconscio e dell’Immaginario.

Secondo alcune ricerche uno dei luoghi più frequentati dagli adolescenti è il Pronto Soccorso dove vanno perché frequentemente si fanno male. È per tal motivo che all’interno dei Servizi Ospedalieri di Pronto Soccorso dovrebbero essere presenti Centri di ascolto con psicologi esperti sul tema del suicidio e dei comportamenti a rischio. Successivamente le persone che hanno tentato il suicidio o hanno fatto degli incidenti dovrebbero essere motivate a rivolgersi a Centri territoriali, come ad esempio Consultori giovani, Associazioni di volontariato. Se la persona non viene ascoltata subentrano due meccanismi psicologici di difesa: la dimenticanza o la sottovalutazione, che si esprime solitamente con frasi del tipo “è stata una ragazzata”.

 

Il dolore fisico e le forme di apprendimento.

Nell’analizzare il ciclo suicidale ed in particolare le prime fasi di preparazione all’atto vero e proprio, appare importante prendere in considerazione il rapporto della persona che compirà il suicidio con il meccanismo del dolore fisico. Vi è una relazione intima e biologica (con produzione di ormoni specifici) tra il dolore e gli stati d’ansia (nel nevrotico) o con gli stati d’angoscia (nello psicotico).

Vi sono persone che si procurano dolore fisico inventandosi le tecniche più creative, al fine di mitigare l’ansia o l’angoscia. I candidati al suicidio fanno esperienze di dolore, lo cercano, se lo procurano al fine di prepararsi per affrontare la paura del dolore prima della morte.

Vi sono persone che temendo il dolore, ma desiderando la morte, si suicidano inscenando inconsapevolmente degli incidenti stradali.

Le lesioni fisiche ed il conseguente dolore provocano a più livelli il rilascio di endorfine associate al piacere e al rilassamento.

Durante la pubertà, afferma George Patton, avvengono dei cambiamenti cerebrali, così la corteccia frontale matura più tardi rispetto al sistema limbico determinando una sorta di squilibrio, analogo a quello che succede nei primi due anni di vita, avviando così un deficit di regolazione emotiva.

Non solo, vi è come sappiamo anche un importante cambiamento ormonale che Paul Moran descrive con melting pot chimico. Lo studio del Murdoch Children’s Research Institute di Melbourne ha dimostrato per la prima volta che durante gli 8-9 anni, fase denominata adrenarca, che si estende alla fase della pubertà, vi è la comparsa di ormoni androgeni con apparizione di peli pubici, ascellari ed è responsabile dei primi cambiamenti emotivi, umorali, ma anche cognitivi con passaggio dal pensiero concreto a quello ipotetico deduttivo.

È la fase in cui tra l’altro i bambini comprendono la funzione del padre nella procreazione, intuendo chi in concreto deposita il seme nel ventre della madre.

Questa fase di avvio/ponte ai cambiamenti il cui apice si trova nell’adolescenza, questa forma biologica interna di pre-iniziazione, può essere vista in termini costruttivi positivi, poiché rappresenta una opportunità per quegli interventi, in particolare di tipo educativo relazionale, che hanno come obiettivo il recupero o la riparazione di situazioni traumatiche, di esperienze di abbandono. È un periodo di grandi occasioni in termini di opportunità perché è simile, sotto certi aspetti, a quello che avviene durante i primi due anni di vita dal punto di vista della maturazione del sistema neurologico.

In altri termini, quello che non è stato possibile costruire prima, ad esempio da quei genitori assenti per motivi legati agli impegni di lavoro o di disattenzione, ora in questa delicata fase di crescita che va dagli 8 anni ai 13 hanno una possibilità di recupero/riparazione relazionale. È un periodo di esplosione di plasticità neuronale che si accompagna a forti reazioni di adattamento ambientale, ma anche di fragilità emotiva e comportamentale. Per tali motivi in questa fase è anche più difficile relazionarsi, serve molta più calma/pazienza da parte del genitore e l’intelligenza di non cadere nelle trappole psicologiche, messe in mostra da atteggiamenti provocatori.

Alcune volte nelle relazioni d’amore di questa età adolescenziale nella scelta del partner violento sia da parte della ragazza che del ragazzo, è come se si attivasse la parte metaforicamente malata del cervello, una parte che appare bisognosa di provare/sperimentare dolore. Una scelta di forme comportamentali del partner che, nella sperimentazione del dolore, consentano sia il controllo sia le scelte valoriali o regole morali.

È simile alla situazione del bambino piccolo che frequenta l’asilo nido e che mentre passa vicino ai compagni li pizzica o li morde; sembra inspiegabile un tale comportamento ed anche riprovevole da un punto di vista educativo, ma contiene una sua logica, ovvero la sperimentazione in vivo degli effetti di una azione negativa. Effetti che sperimentalmente possono essere osservati direttamente dal bambino. Il bambino quando provoca sofferenza agli altri coetanei sembra riuscir a capire mentalmente l’effetto del suo agire, perché ora è in grado di osservarne gli effetti.

Importante è l’intervento esterno dell’educatore il quale interpone, in queste battaglie morali fra bambini piccoli, la regola non si deve far del male alle persone, agli animali e alle piante. Anche nelle relazioni amorose patologiche è altrettanto importante l’intervento esterno di un adulto o di un coetaneo che aiuti a riflettere sia la vittima sia il violentatore, poiché entrambi devono modificarsi ed apprendere dall’esperienza per evitare forme di coazione a ripetere.

 

Breve introduzione all’autolesionismo.

Il DSM 5 ha inserito la categoria diagnostica Autolesionismo non suicidario (NSSI = not suicidal self injury) ed il disturbo è stato inserito nella categoria dei disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza.

Prendiamo in considerazione alcuni dati statistici significativi per iniziare a comprendere la vastità e le caratteristiche del fenomeno.

Iniziamo dall’incidenza e vediamo che secondo una ricerca del 2002 di Ross[10] il 15-20% di adolescenti e giovani adulti compie atti di NSSI e l’esordio è tra i 13 e 14 anni. In età adulta l’incidenza passa al 6%.

Sia nella prima fascia d’età che tra gli adulti gli NSSI si trovano persone con elevati livelli di disturbo di disregolazione emotiva. Tra gli adolescenti si aggiungono poi, come concause, il disturbo della condotta, l’abuso di sostanze, l’isolamento sociale, relazioni intrafamiliari disfunzionali, basso rendimento scolastico.

Varie poi sono le forme di autolesionismo. Vi sono le condotte a rischio (self harm = auto danno) che comprendono l’abuso di sostanze psicoattive, la sessualità promiscua, il gioco d’azzardo. L’autoavvelenamento (sel poisoning) con ingestione di sostanze tossiche, overdose di droghe. Le condotte auto lesive immediate ed intenzionali (self injury = auto ferita) come il tagliarsi (cutting), bruciarsi.

Si crea una sorta di dipendenza con questi comportamenti auto lesivi poiché diventa una strategia capace di regolare emozioni e fra queste l’ansia o l’angoscia, ma anche la disperazione, la tristezza, la solitudine, la rabbia. Questi adolescenti raccontano che mentre il corpo si intorpidisce la sensazione di dolore si liquefa, producendo così una sensazione di calma, la mente si concentra nel dolore e si distrae dall’angoscia; emergono poi sentimenti di forza e di orgoglio, di tristezza e di rabbia.

 

Classificazione dell’autolesionismo.

Alcuni autori[11] classificano il fenomeno a seconda del grado di danno ai tessuti e al pattern comportamentale.

Autolesionismo maggiore è formato da atti infrequenti ed isolati con danno grave e permanente ai tessuti, include anche atti di castrazione ed enucleazione oculare, è associato a forme psicotiche, a intossicazioni acute. Autolesionismo stereotipato consiste in comportamenti ripetuti in maniera costante e ritmica e si trova in particolare in gravi ritardi mentali, nell’autismo, nella sindrome di Tourette.

Autolesionismo moderato comprende atti episodici con lievi danni ai tessuti mediante tagli, bruciature, abrasioni mediante lamette, forbici, sono gesti a valenza comunicativa/simbolica di tipo relazionale e privi di intenzionalità al suicidio.

Quest’ultima forma di autolesionismo moderato viene ulteriormente suddivisa in una forma compulsiva con inclusione di comportamenti ripetuti a carattere anche ritualistico più volte al giorno come la tricotillomania, l’onicofagia, il graffiarsi e viene interpretato come un disturbo del controllo degli impulsi.

Vi è poi l’autolesionismo moderato episodico quando la persona mediante il tagliarsi, bruciarsi, colpirsi trova sollievo alle emozioni o pensieri non sopportabili, un modo per ritrovare il controllo di Sé. L’autolesionismo moderato ripetitivo come ad esempio il cutting, induce il soggetto a percepirlo come una dipendenza e lo incorpora nei meccanismi finalizzati alla costruzione della propria identità.

 

I meccanismi di base dell’autolesionismo.

I meccanismi di base che andremo a descrivere come antecedenti il suicidio, ci spiegano quali sono i meccanismi che agiscono anche nel suicida.

Nell’ambito della teoria cognitivista si parla di autolesionismo come strategia disadattava di coping in risposta alla regolazione del distress e stati d’ansia. Mentre in psicodinamica si parla di strategie di difesa psicologica. Entrambe le teorie sono d’accordo nel sottolineare come, di fronte agli stati di tensione, la persona utilizzi queste tecniche di autolesionismo che producono dolore, al fine di ridurre gli stati d’ansia o d’angoscia.

L’autolesionismo appare quindi come una strategia di trasformazione della sofferenza emozionale che la psiche non riesce a trasformare in forme corporee di dolore/sofferenza. Il dolore e la ferita diventano una prova tangibile, concreta, reale e quindi illusoriamente più controllabile della sofferenza emozionale. Vi è quindi un deficit di mentalizzazione delle emozioni ed un deficit di regolazione alla base del processo autolesionistico.

L’altra determinante, che troviamo anche nei parenti o amici del suicida, sono i sensi di colpa o l’autocritismo che si accompagna ai comportamenti autolesionistici. Le persone che compiono un atto suicidario hanno un livello di percezione di Sé estremamente negativo e presentano una forma di rabbia auto diretta che si manifesta con il desiderio di autopunirsi. Vi è quindi una pericolosa oscillazione tra l’Io non valgo niente e l’Io sono sbagliato e sbaglio tutto e come conseguenza l’attivazione del senso di colpa di tipo autopersecutorio. Una forma di choc da Super Io. Potremmo affermare che nel suicida esista un Super-Io rigido, punitivo e forse anche sadico, che successivamente viene proiettato nella mente del vivente (sia nel caso di suicidi riusciti sia nel caso di non riuscita o autolesionismo) sotto le sembianze del senso di vergogna.

In altri termini, il senso di colpa appartiene alla persona che si suicida ed anche al vivente, solo che in quest’ultimo, ed in particolare nei parenti, si trasforma in vergogna.

È questo uno dei motivi che spinge i parenti a nascondere la verità.

 

Autolesionismo e antropologia.

In alcune culture l’autolesionismo viene inglobato in un percorso comunitario, diventando un comportamento socializzante. In tal senso appartiene ad una cultura e fa parte di rituali dove viene consacrata l’appartenenza al gruppo comunitario, o la conquista di un livello di individuazione, maturazione. Gli stessi tatuaggi, piercing, trasportati nel mondo occidentale, pur riflettendo un elemento sociale, contengono elementi simili, ma più superficiali. Nella mostra società industrializzata sono per lo più dei modi per richiamare l’attenzione anche in termini provocatori, delle forme narcisistiche di esibire una personalità che ha difficoltà a decollare.

 

Il passaggio: dall’autolesionismo ai tentativi di suicidio.

Possiamo affermare che esiste un continuum tra comportamenti autolesionistici e suicidio. Si inizia dalle condotte auto lesive e tentativi falliti di suicidio per approdare, con una certa probabilità, a suicidi riusciti. Di fatto, secondo alcuni studiosi[12] del fenomeno, le persone che usano condotte auto lesive non intendono con queste azioni attuare dei suicidi. È anche per questa spiegazione che nel DSM 5 è stata attuata la scelta di isolare il disturbo, dandogli l’etichetta di NSSI.

Risulta allora saggio considerare i comportamenti auto lesivi come fattori di rischio per il suicidio, da interpretare come messaggi criptati da ascoltare. Gli stessi autori, Klonsky[13] in particolare, hanno trovato delle significative correlazioni tra comportamenti auto lesivi e suicidi, tra l’altro più alti rispetto ad altri fattori di rischio come la depressione, l’ansia, l’impulsività, i disturbi borderline di personalità e pregressi tentati suicidi[14].

È probabile che, come suggerisce Joiner[15], queste condotte auto lesive avviino una forma di desensibilizzazione che aiuta la persona a superare la paura del dolore e successivamente a fare il salto[16].

 

Correlazione tra disturbi psichici, mal-essere e suicidio.

Tra i disturbi psichici certamente la depressione è riconosciuta come la principale situazione intrapsichica presente nei comportamenti suicidari.

Per quanto concerne gli adolescenti però si è visto che non tutti gli adolescenti che hanno tentato il suicidio sono depressi. Vi è una significativa correlazione tra comportamento suicidario ed uso di sostanze psicotrope e/o alcool.

Negli adolescenti dietro ai comportamenti suicidari si trovano per lo più forme di organizzazione di personalità con caratteristiche difficoltà di mentalizzazione, tendenza alla impulsività, senso di disperazione, disregolazione emotiva, inefficienze nelle strategie di difesa o coping, elevati livelli di rabbia, tendenza al perfezionismo[17]. Spicca tra le determinanti la perdita del senso e significato di vivere la vita.

 

Il suicidio e le varie interpretazioni.

Nel contesto della psicologia esistono varie scuole di pensiero, vi è il filone cognitivista che dà importanza alla ideazione suicidale, che come si è cercato di spiegare è una delle tappe finali del percorso suicidale.

Gli studi di tipo psicodinamico cercano di collegare l’impulsività con la de-mentalizzazione dell’evento suicidale ed affrontano in termini fenomenologici il processo suicidale che viene inteso alla stregua di un percorso a tappe, un fenomeno complesso. Si cerca di non confondere il senso di lucidità, di cui fa esperienza il suicida, con il pensiero vero e proprio. L’ipotesi è che non vi sia un pensiero vero e proprio del tipo “io ora ho deciso … mi uccido”, ma un agito che ha le sembianze di un pensiero. Lo stesso processo avviene nei soggetti con comportamenti auto lesivi.

La de-mentalizzazione procede invece nella trasformazione degli affetti/emozioni in agiti, producendo quel fenomeno che chiamiamo lucidità e si associa a prodotti con sembianze di pensiero: emozioni + agiti > lucidità.

Parallelamente è presente anche una perdita di contatto con il proprio corpo e l’esperienza del dolore sembra essere quel ponte che consente di mantenere il legame con il corpo.

La teoria interpersonale suggerisce l’esistenza di alcune variabili come spinta al suicidio, quali il senso di non appartenenza, la perdita della speranza di cambiare, la convinzione di sentirsi un peso per gli altri, la diminuzione della paura verso la sofferenza fisica.

Il desiderio di morire non basta per tentare il suicidio, occorre la capacità a suicidarsi che la persona acquisisce dalle esperienze di de-sensibilizzazione, come l’esposizione graduale al dolore presente nei comportamenti auto lesivi.

Vi è poi il punto di vista sociologico e culturale che offre il proprio contributo nel tentativo di leggere i significati nascosti. Durkheim E. ha condotto degli studi importanti basandosi sui dati statistici, sostenendo che il suicidio è un atto individuale che dipende da fattori sociali e non c’è alcun nesso significativo con la malattia mentale.

 

La statistica.

Una indagine di EU 27 del 2007 ha evidenziato come nell’età compresa tra i 15 e 24 vi sia un vero e proprio balzo che porta il 65% delle morti causate da trauma per incidenti. Di questi il 53,4% da incidenti stradali (il 59% in auto), il 21,3 da suicidi, il 14,1 da sport, tempo libero, casa.

Gli infortuni sono la causa principale dei ricoveri in Ospedale sempre questa fascia d’età, 5-14 anni il 18% e 15-24 anni il 17%. Circa il 20% di tutte le visite effettuate nei Dipartimenti di Emergenza della maggior parte degli Stati Europei.

In Italia secondo una indagine ISTAT del 2002 i morti causati da traumi accidentali sono più del 55%.

Nel 2012, per quanto concerne le morti per suicidio, che in Italia sono la seconda causa di decesso nella fascia d’età tra i maschi di 15-24 anni, il nostro paese presenta i livelli più bassi di suicidalità. Le morti causate da incidenti stradali è del 35% sul totale, la prima causa.

Altro dato interessante, secondo l’OMS, il 40% dei ragazzi che non riesce a suicidarsi e che non segue un percorso di cura fa un secondo tentativo.

I dati o fattori psichiatrici secondo questa analisi hanno poca evidenza statistica, mentre quello che incide sembra essere il grave malessere esistenziale che al giorno d’oggi si sta trasformando in una forma di malattia. Quello che la logoterapia e il suo inventore Frankl Viktor, chiama crisi noetica, ovvero una perdita del significato della vita ed il suo vuoto viene riempito dal suo opposto, l’attrazione verso la morte.

 

Le cause motivazionali del suicidio.

Indagare sulle cause e attorno alle cause significa analizzare la struttura di personalità dell’adolescente, ma anche del suo contesto sociale (famigliare ed amicale). Sappiamo ad esempio che un eccessivo mobbing ambientale come il bullismo può indurre un ragazzo a togliersi la vita.

L’adolescenza è caratterizzata da fragilità e cambiamento, fattori intersecanti e difficilmente distinguibili. Rende bene la metafora usata dalla Dolto F. dell’adolescente simile al gambero nel periodo di muta, allorquando, avendo perso la corazza in attesa della muta-azione, per difendersi dalle aggressioni, mancando delle sue difese psicologiche, si ripara dietro alle rocce isolandosi. Nella nostra società tecnologica le rocce, ovvero gli adulti, la famiglia in primis e successivamente le altre istituzioni, non sono sempre adeguatamente presenti, non offrono adeguate difese e riconoscimenti della sofferenza dell’adolescente.

Altre volte manca anche il gruppo di coetanei di riferimento. Se pensiamo ad esempio ai fenomeni di bullismo sappiamo che il livello di vulnerabilità dell’adolescente e di rischio aumentano anche per l’azione negativa del gruppo.

 

I moventi del suicidio nell’adolescenza.

Nel movente esistenziale troviamo la perdita del significato della vita, della fiducia in sé. Compare allora il cinismo e l’apatia che non sono una vera e propria depressione.

La disperazione è il continuo oscillare tra un senso di amore verso se stessi e un altrettanto forte odio verso sé. La perdita, in questo caso, concerne lo smarrimento di un oggetto d’amore e collegato a questo il desiderio, come ad esempio la fidanzatina, la pagella non soddisfacente, il riconoscimento di un insegnante, il feeling con il gruppo di riferimento o con l’amico del cuore.

La disperazione per altruismo può essere espressa dalla frase: non soffrirete più per colpa mia.

Altre volte prevale la coppia emozionale vendetta-rivincita. La vedetta può essere determinata dalla percezione/interpretazione del comportamento degli altri come indifferenza, cattiveria; per cui il ragazzo si suicida per punire i responsabili del suo dolore. Altre volte attraverso la morte il ragazzo cerca di ottenere le attenzioni che aveva ricevuto da vivo.

Un altro movente è percepire l’atto suicidario come una azione che consentirà il ricongiungimento con l’amato/a come ad esempio nei casi in cui il ragazzo ha perso la ragazza morta in un incidente d’auto.

 

Messaggi criptati.

Le statistiche affermano che il 70-75% dei giovani invia nel periodo che precede il suicidio dei messaggi ai propri coetanei. È per tal motivo che nelle campagne di formazione e sensibilizzazione si dovrebbero privilegiare una strategia di peer tutoring dove chi incontra i gruppi di adolescenti è un adolescente formato a tale tematica.

 

Gli interventi.

Vi è un filo rosso che collega comportamenti auto lesivi, tentativi suicidari, incidenti. Vari sono i tentativi di interpretazione e lettura di questi fenomeni.

Gli incidenti gravi e ripetuti sono chiamati anche equivalenti suicidari.

Gli interventi su tale complicata tematica si possono alternare e modificare a seconda del contesto dove manifestano malesseri, ideazioni, accenni criptati da parte degli adolescenti.

I fattori associati al suicidio sono molto variegati. Vi sono fattori sociali come ad esempio il sesso maschile, la fascia d’età, l’isolamento sociale, l’essere divorziati o vedovi, divorziati o single, patologie organiche croniche e dolorose, i disturbi della salute mentale(depressione, alcoolismo)

Altro intervento iniziale sempre di tipo conoscitivo è la somministrazione di Scale di valutazione che quantificano la stato di hopelessness (mancanza di speranza) e successivo intervento tramite un breve colloquio.

Sappiamo che un precedente tentativo di suicidio è considerato uno dei maggiori indicatori predittivi nel 40% dei casi di ennesimo tentativo di suicidio. La depressione è la componente maggiormente indicativa della possibilità di una ripetizione anche se alcune persone si sentono per lo più perseguitate dai pensieri di morte; altre depresse, ma non attratte dalla morte.

In queste situazioni comunque il parlare con qualcuno della morte o dei pensieri di morte che popolano la mente può essere di grande aiuto. È importante che la persona che aiuta non vada in ansia.

Durante il colloquio è fondamentale anche prendere in esame il sistema cognitivo di aspettative negative verso la vita, la visione negativa del mondo, la disistima del Sé. È indispensabile quindi il passare in esame i motivi per vivere e quelli per morire, aiutare la persona a trovare degli appigli per continuare a vivere.

Di un certo interesse sono le esperienze di attivazione di linee telefoniche alle quali le persone possono accedere per parlare dei loro progetti di morte o per raccontare la loro disperazione, l’isolamento in cui vivono.

 



[1] Appendino che si ispira a Magritte.

[2]Amore e Psiche è la storia raccontata da Apuleio e contenuta nell’opera Le metamorfosi.

[3]Durand G., Le strutture antropologiche dell’Immaginario, Dedalo, Bari, 1987, pp 105 sg.

[4]Il periodo di rischio (risk period) è definito dall’are tratteggiata dalla quale risulta che le regioni limbiche, deputate al sistema di gratificazione, maturano prima delle regioni frontali deputate al controllo

 

[5] Flusso

[6] Thanatos è la pulsione di morte, il cui opposto è Eros o pulsione di vita

[7] È l’energia dell’impulso distruttivo inteso come disgregativo. Nella teoria freudiana ha fatto la sua prima comparsa in L’Io e l’Es, 1922.

[8]Brent D.A., 1997, The psychological autopsy.  Methodological consideration for the study of adolescent suicide, Suicide and Life-Threatening behavior, 19.

[9]Witte T.K., Merrill K.A., Stellrecht N.E., Bernet R.A., Hollar D.L., Schtschneider C., Joiner T.E.,, 2007, Impulsive youth suicide attempters are not necessarily all that impulsive, Journal of Afective Disorders, Vol. 107. 107-116.

[10]Ross S., Heath N., A study of the frequency of self-mutilation in a community sample of adolescents, Journal of Youth and Adolescence, 31 (1), 67-77.

[11]Favazza A., Rosenthal R., 1993, Diagnostic issues in self-mutilation. Hospital and Community Psychiatric, 44, 130-144.

[12]Klosky E. D., 2007, The functios of deliberate self-injury: a review of the evidende, Clin. Psychol. Rev., 27 (2), 226-239. Favazza A. R., 1998, The coming of age of self mutilation. Journal of Nervous and Mental Disease, 186 (5), 259-268.

[13]Klosky E. D., May A. M., Glenn C. R., 2013,  The relationship between nonsuicidal self-injury and attempted suicide: converging evidence from four samples. J. Abnorm. Psycho. 122 (1), 231-237

[14]Asarnow J. R., Porta G., Spirito A, 2011, Suicide attempts and nonsuicidal self-injury in the treatment of resistant depression in adolescents: findings from the TORDIA study., J. Am. Acad. Child Adolesc. Psychiatry, 50 (8), 772-781.

[15] Joiner T. E., Why people die by suicide, 2005

[16]Vedi anche l’articolo Voglia di morire dove sono riportati alcuni commenti di Pool Robert nella Rivista scientifica New Scientist.

[17]Blumenthal et al., 1990, Suicide over the life cycle: risk factors, assessment and treatment of suicidal patients, American Psychiatric Press. Washinton DC.

Boergers J., Spirito A., Donaldson D., 1998, Reason for adolescent suicide attempts: Adolescent Psychiatry, Vol. 37: 1287-1293.

Dori G.A., Overholser J.C., Depression, hopelessness and self-esteem: accounting for suicidality in adolescent psychiatric inpatients. Suicide and life-Treatening Behaviour, Vol. 29:309-318

Kanshden  J., fremouw W.J., Callahan T.S., franzen M.D., 1993, Impulsivity in suicidal and nonsuicidal adolescents, journal of Abnormal Child Psychology, Vol 21:3