Processo e Movimento intimo nella pratica psicoterapeutica fenomeno-strutturale


PROCESSO E MOVIMENTO INTIMO

NELLA PRATICA PSICOTERAPEUTICA

FENOMENO-STRUTTURALE

Conférence au Gruppo Italiano per le Tecniche Psicoterapiche d’Imagerie Mentale

Trévise 16 et 17 Mai 2013

par

Jean-Marie BARTHÉLÉMY

Professeur émérite de Psychopathologie et Psychologie clinique

à l’Université de Savoie, France

«Ci sono delle esigenze qui!» E’con questa esclamazione, tanto più inaspettata in quanto è sembrata piuttosto uno spostamento  dal tema o dall’intonazione puntuale del nostro dialogo, che una nostra paziente si esprimeva recentemente nel corso di un cammino di più di 10 anni. Una constatazione dell’accento valutativo inedito, in questa forma o anche in quella di qualche osservazione analoga che avrebbe potuto precederla, sia da parte sua che di altri frequentatori abituali della nostra consultazione. Una osservazione laconica, incisiva e penetrante da cui non mi sono ancora veramente ripreso, a causa degli effetti destabilizzanti che ha provocato in me e delle risonanze che continua a suscitare  sulle fondamenta discrete di una pratica, dei suoi presupposti o ripercussioni teorici impliciti, svelati d’improvviso con una stupefacente sagacità da una alterità che non avrebbe affatto dovuto curarsene.

Come questa paziente abbia potuto giungere a una tale conclusione nonostante il nostro percorso comune non sia mai stato inaugurato da una stipulazione preliminare, nè punteggiato ulteriormente dalla menzione di un quadro, di direttive, di presupposti, di disposizioni, di contratto così come è diventato così di moda oggi nel mondo di una psicologia  sfortunatamente troppo spesso ridotta a ricaricare le peggiori tendenze del mondo? Tanto più che nessun imperativo di fare il punto o di richiamare un supposto regolamento si era mai reso necessario durante il corso della nostra lunga storia di scambi. La sola iniziale proposta di cui ci possiamo ricordare riguardava  la frequenza regolare, almeno una volta alla settimana, senza nemmeno alcuna contropartita economica: ho avuto infatti il privilegio di dispensarmene nel corso di tutta una carriera di clinico retribuito da organizzazioni collettive e non da una clientela, cosa che mi è sempre sembrato ci concedesse, da una parte e dall’altra, una generosa libertà supplementare. Da dove poteva quindi arrivare questo sentimento, così brutale e perentorio nella sua enunciazione, se non riguardava le condizioni formulate o ribadite di qualche consegna  o regolamento, se non da un atteggiamento insieme implicito e trasparente probabilmente a mia insaputa, e dai principi stessi che determinano il suo orientamento essenziale? A dire il vero e a ben intendere, non sono le nostre proprie esigenze che si trovano così messe in discussione, biasimate o contrastate come inaccessibili; se si trattasse di questo,  esse trasparirebbero solo attraverso un alone di indeterminazione fluttuante: «ci sono delle esigenze», e non  «lei ha delle esigenze», per attenerci a ciò che si espone veramente. Inutile quindi voler attribuire l’origine di questa impressione, tanto confusa nella sua recezione quanto sicura nella sua formulazione, ad una serie di ingiunzioni provenienti dal solo il clinico o ad una osservanza tecnica impossibile da soddisfare; la sua origine risiede altrove, in determinati che superanoi due protagonisti di questa avventura ma dai quali essi sono tuttavia solidalmente dipendenti in quanto generati dalla loro comune appartenenza esistenziale. «Qui», come precisa tanto bene la nostra interlocutrice, attraverso maggior ampiezza che una semplice localizzazione, la suggestione di una dimensione condivisa e non un’attribuzione di territorio che mi sarebbe esclusiva; per niente circoscritto all’ufficio  in cui ci troviamo corrisponde al «da noi» di un Mitsein, molto distante da ogni rivendicazione di proprietà e non a un «da noi», che sia suo o mio». «Qui,insieme!», si potrebbe insistere sullo sfondo, senza che sia veramente indispensabile per una situazione in cui l’allusione si rivela molto più promettente di una sottolineatura che avrebbe il rischio sterile e forse nocivo di sovraccaricarla.

E’ a partire da questa circostanza e basandomi su di essa che vorrei ricordarei fondamenti e i fondamentali di un approccio fenomeno-strutturale nella sua audacia, eccezionale nella scelta scientifica, in cui confluiscono rigorosa metodologia ed etica esigente nell’avvicinarsi all’altro. Scegliere in modo deliberato questi termini generali senza accenno di ambizione terapeutica, significa ricordare che la preoccupazione curativa non si situa al cuore nè della sua riflessione nè del suo sviluppo. D’altronde l’espressione della nostra paziente se ne esclude totalmente o almeno non sembra attardarvisi; significa che questa pratica rimane indifferente, del tutto insensibile ed ermetica nei confronti dell’altro fino a rimanere sorda alla sua sofferenza, espressa o meno, e alla sua legittima aspirazione esplicita o implicita, di migliorare la propria condizione? Chi potrebbe pretendereun tale disprezzo, tanto più proveniente da una corrente di pensiero e di azione che valorizza  d’altra parte una solidarietà interumana e rivendica delle radici ed intenzioni umaniste?

Dal momento che la sua impresa è più ampia, più ambiziosa per certi versi ma anche più umile e realista, vista da un’altra prospettiva, questo approccio si può permettere quello che, ad uno sguardo esterno poco esperto, potrebbe apparire sia come una pretesa estensiva sia come una strabiliante mancanza di ambizione.

Le pagine apertamente consacrate all’inizio del 1950 alla questione psicoterapeutica da parte del promotore di questo metodo, Eugène Minkowski, per quanto rare e limitate esse siano nella sua opera, non comportano di meno degli assi di orientamento di una rigorosa e sorprendente freschezza visionaria, anche riportati alla nostra situazione contemporanea in cui la loro pertinenza si fa sentire in modo ancora più pressante. In uno dei suoi rari articoli il cui titolo nomina esplicitamente il termine di psicoterapia,[1] «Psichiatria, psicoterapia, relazioni con il malato e il grande pubblico», apparso nel 1953, si cercherà invano qualche ricetta in questo campo. Dopo un insieme di considerazioni sui pericoli di una diffusione nel grande pubblico di una forma di «conoscenza» nel campo dei disturbi psichiatrici, Minkowski arriva alla dispersione e alla frenesia di accelerazione  che osserva, già al suo tempo, applicate alle pratiche psicoterapeutiche, con l’idea dominante che la demoltiplicazione  delle differenti tecniche impedisca di riflettere sulla loro base e il loro valore comune. La diffusione intempestiva di un gergo usato dagli stessi pazienti non gli sembrava di miglior augurio. «E poi, scrive, allontanarsi dalla coppia medico-malato, dall’interazione che si stabilisce su questo piano, dal contatto, qualunque ne sia la forma, che va sempre da persona a persona, determina ugualmente una certa resistenza. È anche per questo probabilmente che non abbiamo cercato di coinvolgerci in questa direzione»[2].Attraverso l’ammissione di una resistenza allo spreco di una pratica, si profila una critica più radicale verso lo snaturamento di fondo che coincide con una attestazione di principi d’azione da accettare molto più fondamentali.  Infatti la qualità  del contatto con il paziente non costituisce solo una condizione preliminare all’intervento del clinico, come si dice troppo facilmente oggi giorno; molti vi si arenano nel voler troppo forzare il cercare di stabilirlo per mezzo di un aggancio transferenziale illusorio se non fallimentare in partenza. A condizione di mostrarsi recettivi al ventaglio di tutte le sue modulazioni attuali e successive, essa rappresenta, nell’accezione più letterale del termine, il nocciolo di una forma di conoscenza che il suo approccio autorizza, la dinamica di comprensione insieme strutturale ed evolutiva di una personalità unica, la corda sensibile delle modulazioni del suo percorso e una via d’accesso ad un insieme di miglioramenti ai quali è legittimo aspirare da una parte e dall’altra. Per questo fondatore del metodo fenomeno-strutturale non potrebbe trattarsi di delegare ad uno specialista, qualunque sia la qualità della sua competenza riconosciuta, la presa in carico esclusiva di questioni  o di decisioni che riguardano i fenomeni fondamentali dell’esistenza. «In un modo un po’ paradossale, ci viene da dire che ci sono dei soggetti che diventano «malati» a partire dal momento in cui varcano il suolo dello studio del medico o dello psicoterapeuta. Certamente non nel senso che essi li rendono malati, ma perchè a partire da quel momento si attribuiscono uno «stato civile» e lasciano così ad altri il compito di chiarire la situazione al posto loro o almeno di orientarli in modo utile in questa direzione.Chiaramente sta al medico tenerne conto e di dirigere la sua attività di conseguenza» (pp.166-167). Una parte determinante dell’esercizio delle nostre responsabilità e della nostra etica porta a prendere in considerazione questa specie di delega del disturbo che ci viene affidata, per riassestarvi continuamente, come la costante correzione di una traiettoria nella conduzione di un veicolo, le aspettative dei nostri pazienti  e la validità del nostro intervento che si sbaglierebbe  a collocare sotto l’esclusivo o anche preponderante sigillo dell’interpretazione. Molto spesso infatti, ci capita, in occasione di consulenze singole o alungo termine, di trovarci davanti pazienti molto disorientati : da poco o da molto tempo stigmatizzati da diagnosi, a volte tanto diverse quanto stravaganti, o alla drammatica ricerca sia di una prima diagnosi di cui rivendicano, controsenso di legittimità, un diritto di conoscenza, sia la determinazione stigmatizzante in modo definitivo di quella che li riguarda, costantemente riaffermiamo, nelle nostre intenzioni ma soprattutto nelle nostre posizioni,  che non tenderemo mai verso questo orientamento nè verso questa prospettiva, ma verso la comprensione di una persona con le sue specifiche condizioni di relazione e tutta la complessità del suo contesto relazionale di appartenenza alla realtà. Quando i nostri pazienti sofferenti, in un momento di flessione della loro vitalità, arrivano ad attribuirla unicamente al decorso della malattia e così alla fine a cui essa li condanna senza appello, senza trascurare o sottovalutare i limiti o i condizionamenti che essa impone all’esistenza, non riduciamo mai, né per noi stessi né per loro, il destino di una persona a quello di un disturbo di cui è portatrice, al punto da assimilare l’uno all’altra. Sul fondo, e per riprendere l’idea direttrice di Minkowski, resta indispensabile pensare sempre la vita, su cui questo viene a manifestarsi, più vasta del disturbo  che  essa supera da ogni parte, e quindi non creare, attraverso il mezzo diagnostico o psicoterapeutico, cioè attraverso sintomo, definizione, «specialista» o organismo interposto, un’identità sostitutiva o di ripiego in cui il paziente ed il clinico rischiano di inabissarsiinsieme, ridotti allora alla loro funzione in quanto dimissionari della loro persona.

Mi ricordo di un ginecologo, sempre ben messo  e  con un papillon permanente, detentore di alcune prestazioni in un Centro Ospedaliero Psichiatrico in cui si ritrovavano soprattutto persone di provenienza popolare o di condizione svantaggiata, e che spiegava come si trovava nell’impossibilità  di svolgere il proprio lavoro in modo adeguato. Per spiegarlo, palpando il ventre di una delle sue pazienti di debole livello mentale, prima le domandava in modo interrogativo :  «Le fa male quando tocco qui?» A cui la giovane donna rispondeva : «Sì!». Poi ritornando sullo stesso punto,  le si rivolgeva di nuovo in un modo piuttosto affermativo : «Lei non sente male quando tocco qui?»,  cosa a cui la sua interlocutrice gli replicava : «No!». Si girava allora indispettito verso l’interlocutore per esclamare : «Vede bene, è impossibile!» Questa sequenza dimostra almeno una cosa : che il quoziente intellettivo di una persona non è in rapporto costante con le sue capacità in questo campo, o più esattamente, manteniamo un po’ di indulgenza, con le sue potenzialità ad esercitarle. Infatti qui, dove questo medico si confessa, in questo tipo di circostanza,  fuori gioco da una pratica professionale, posto di fronte ad una supposta impossibilità a dispiegare il suo talento e le sue conoscenze, consideriamo non solo che noi potremmo cominciare a far valere le nostre, cosa che, di là di una semplice suddivisione dei ruoli e delle specializzazioni, potrebbe apparire pretenziosa, ma che questo specialista dovrebbe integrare queste particolarità nell’esercizio di un mestiere di cui esse ci sembrano parte significativa. Così, dietro la presunta conformità ai postulati di base della sua attività, si nasconde, come ciascuno avrà indovinato, un profondo disprezzo nei confronti della debolezza degli altri e delle sue particolarità, iper compensato da un odioso compiacimento. Liberati da una prima fase di giusta indignazione, in una analisi fenomenologica e un approccio più pacato, notiamo qui la assoluta vacuità del posto del «prossimo» – cioè, fuori dal contesto religioso, di tutte le forme di umanità virtuale e quindi da venire da cui sono sollecitato  – nel corso di un momento relazionale in cui non si potrà che perdere se stessi nel volerle evacuare. «Più di una volta abbiamo insistito sul fatto che si può peccare per  eccesso di adattamento, di equilibrio, di pragmatismo, di razionalismo, di prosaicità», scrive Minkowski come consiglio o lezione di esperienza virtuale al nostro sfortunato ginecologo. (p.168)

Ma qualche volta ci vantiamo con ancora maggiore audacia o pretesa : invece di voler semplicemente fare «bene» , vogliamo fare «meglio». Chi non ricorda questa nota frequente sui vecchi quaderni scolastici, con l’abisso di perplessità che l’accompagnava : «Può fare meglio!» Come può un insegnante essere utile ad un giovane alunno inviandogli questo genere di messaggio? E perché dovrebbe essere diverso nella prospettiva psicoterapeutica, estranea per definizione ad ogni vocazione pedagogica? Minkowski invita a riflettere in questi termini: «Ci sono dei campi in cui il fattore del ‘meglio’ non si pone affatto. Va già bene così. Neanche la quantità, la misura  sono al loro posto qui. Accanto alle nostre attività, limitate per essenza, c’è la vita che si afferma e che, attraverso alcuni spiriti, produce; come dall’altra parte essa cerca con le sue proprie forze di combattere il male. Non bisogna volere a tutti i costi fare meglio di quanto non faccia lei. Dov’è il fallimento e dov’è il successo? Nelle nostre imprese psicoterapeutiche, è saggio non volere andare troppo lontano: si prende una strada sbagliata a non tener conto di quello che la vita, nella sua complessità, ma anche nella sua ricchezza e nelle sue risorse, con i suoi alti e i suoi bassi, con i suoi scogli, sa offrire». (pp.165-166). Qui come altrove si può applicare  la saggezza di alcuni proverbi: « Il meglio è il nemico del bene », dice qualcuno.

In  una relazione del 1998 che ho presentato a questo gruppo riunito insieme a Jean Burgos riguardo la questione delle toccare, ho già portato questo esempio di un breve scambio al di fuori della pratica psicologica propriamente detta ma che per quanto mi riguarda l’ha molto illuminata. «Lei potrebbe andare più lontano», ripeteva continuamente uno dei miei colleghi come critica lancinante ad una studentessa che tentava bene o male di sostenere davanti a lui una ricerca in cui aveva cercato di dare il meglio di se stessa. Mi sono sentito rispondere a questo collega, senza dubbio ma non solo per far uscire questa sfortunata dalla sua cattiva sorte che la lasciava muta : «Perché vorresti andare sempre più lontano quando non si è mai stati vicino!» La formula, sicuramente un po’ eccessiva, non si voleva tuttavia vanitosa per interposta studentessa di cui avevo diretto la ricerca ; mirava solo a ricordare che, a forza di imporre una presa di distanza dal reale pretendendo così di renderne conto meglio, si finisce per perdere ogni capacità di rapportarsi adesso in modo concreto e anche di dire effettivamente quello che è, nell’indigenza in cui ci troviamo di non poterlo cogliere.

Mi ritorna ancora questo esempio contrastante tra due pazienti che avevo già portato in quella stessa occasione più di 15 anni fa. Lo ricordo oggi per mostrare come il movimento della presa in carico può inscriversi in ritmi personali non solo diversi in funzione delle persone a cui si rivolge, ma anche perfettamente contrari nella loro presentazione immediata come nella durata del loro svolgimento.

Durante una pratica di rilassamento a cui si sottometteva senza grande entusiasmo né fiducia nel suo risultato, ho conosciuto un paziente quasi melanconico che si installava nella poltrona come Dracula nella sua bara, inflessibile come la giustizia, imbacuccato sotto molti strati di vestiti spessi con un supplemento di coperta, prima di lasciarmi qualche settimana più tardi, senza che la primavera avesse ancora fatto sentire i suoi effetti, sicuramente non liberato da ogni difficoltà ma da una buona parte dei suoi disturbi depressivi e soprattutto presentandosi all’esercizio, sempre coscienzioso e scettico ma, senza neanche accorgersi della trasformazione, con il colletto aperto, in maniche di camicia e sandali. Nell’intervallo, le sue idee di incurabilità si erano allontanate e il suo contatto, con me e con il proprio entourage, nettamente migliorato tanto che si vedeva costretto quasi a malincuore a riconoscerlo. E come prima cosa, i suoi acufemi, di cui non mi ero particolarmente occupato, si erano attenuati se  non volatilizzati.

Per contrasto, questa donna pensionata, abbandonata dalla nascita e affidata a strutture d’accoglienza di cui non conservava un buon ricordo, si alzava dalla sua prima seduta di rilassamento con una gratitudine e un entusiasmo di cui non avrei mai pensato di potermi vantare nei migliori momenti di fiducia nelle mie capacità di aiuto e di intervento : «È formidabile!», confidava sorpresa a me che ne restavo ancora più basito, «E’ incredibile come mi sento distesa», quando io avevo semplicemente, ma evidentemente come se fosse la prima volta della sua vita, accompagnato con una voce affettuosa, senza dubbio dolorosamente mancante durante tutta la sua infanzia, l’abbandono fiducioso da cui si era tranquillamente lasciata portare.

Da buon difensore del «mondo delle metafore», a suo parere molto più propizio, adatto e trasponibile al registro psicosomatico -d’altra parte senza esaurirlo- rispetto al ricorso a una spiegazione simbolica appiccicata dall’esterno, Mnkowski promuove una pratica insieme più semplice e più concreta, cosache non la svaluta in nessun modo. «Quello che ci importa dimostrare innanzitutto, è che esistono delle relazioni di questo genere e che esse possono essere prese in considerazione senza che necessariamente si debba fare appello all’inconscio o  ai residui di traumatismi infantili di natura conflittuale e libidica. Queste sono più ‘semplici’ e più dirette. E che lo si voglia o meno, il bisogno di semplicità e di naturale dirige sempre il nostro pensiero e il nostro sforzo. E «semplice»  non è affatto evidentemente sinonimo di semplicistico; spesso è quello che è  più difficile da trovare» (p. 173). Quante volte ho visto degli psicologi stagisti inaugurare la loro partecipazione alla mia consulenza adottando una postura eccessiva, falsamente riflessiva e teatrale fino al grottesco, che lasciava i pazienti stupiti, facendoli fuggire o adottare una posizione di definitivo rifiuto nei loro confronti, mentre al contrario i nostri giovani apprendisti restavano interdetti di  trovare, in questo clima relazionale di autenticoascolto, solo delle briciole di prosaica esistenza e un atteggiamento in apparenza altrettanto banale da accogliere.

Comprendiamo bene a questo riguardo che la relazione qualificata come «autentica» non è sicuramente da intendere come un ideale, rivestita da una componente eccezionale, con tutto quello che questo potrebbe sottintendere di inaccessibile. Sicuramente è  reffrattaria ad una applicazione tecnica convenuta o convenzionale, si oppone alla fattività, alla falsità, all’artificialità, ad un semplice aggiustamento meccanico al disturbo o alla difficoltà incontrata, ma si mostra riluttante anche ad ogni forma puramente rituale o funzionale, perfino all’attivazione  o al solo mantenimento di un ruolo in rapporto caricaturale con l’esercizio di una professione. Lungi dall’esercitare una qualunque trascendenza di una relazione corrente, essa si presenta al contrario come la manifestazione del suo «ordinario», con l’apparente banalità che può derivarne. Stupisce verificare come in Minkowski l’analisi delle risposte a questioni dall’aspetto anonimo, terra terra, permetta di accedere ad una comprensione in profondità, fino ad allora ineguagliata, dei fenomeni psichici e psicopatologici in gioco.

Impegnato con queste «forze normalmente disequilibranti e disadattive», a queste «naturali debolezze umane», come  le chiama in termini volontariamente non patonomici, Minkowski si impegna a trovare delle risposte che includono le caratteristiche di questa natura, di questa via da cui derivano «naturalment». E l’atteggiamento che raccomanda veicola altrettanto  questo stesso «naturale» che è giusto coltivare alla base dell’incontro, al posto di tecniche, di procedimenti o di procedure ragionati, razionalizzanti, applicati in modo lineare il freddo. Solo allora, la riflessione può allargarsi e trovare la sua vera ampiezza, dove si combinano e si intrecciano teoria e pratica, ancorate nel loro unico umus di esistenza : «L’attenzione a lasciare al paziente la possibilità di fare da solo dei progressi al di fuori del trattamento è lontano, ai nostri occhi, dal costituire uno svantaggio. Perché dovrebbe essere altrimenti? La tecnica ci perderà forse in precisione ; ma è proprio da una eccessiva « ecnicità» che bisogna guardarsi; l’imprecisione in  questo campo spesso non è altro che l’espressione dell’irrazionale comprensione umana. Per dirlo ancora una volta, bisogna formare non tecnici ma psichiatri.» (p.171). Evidentemente la formula si applicherà altrettanto bene a questa professione che a quella dello psicologo così come a molte altre in cui la parte relazionale si colloca nel cuore dell’attività non solo terapeutica ma comprensiva di una situazione umana.

Può apparire strano rivendicare l’imprecisione come principio metodologico in un secolo in cui precisione e rigore si sono eletti a virtù totalizzanti se non totalitarie, ancora più che ai nostri giorni, all’epoca in cui questo autentico psichiatra porta avanti la sua idea. Tuttavia ci sembra indispensabile comprendere e concepire questa incertezza come una «approssimazione», cioè una forma di approccio, di avvicinamento con l’altro, non in modo diretto e rigoroso ma per piccoli tocchi adattivi in successione. Questo non formerà mai dei clinici adepti dell’indefinitezza, dell’incostanza, dell’incoerenza, dell’indeterminazione, dell’indecisione, cosa lontana a questo obiettivo di formazione; a ben guardare essi  si allontanano da tutto ciò proprio in funzione di una tenacia, costanza e coerenza d’intenzione sottostante alla loro minor mira all’ intervento.

Ne facevo recentemente esperienza, il che mi servirà da breve esempio, nel corso di un banale scambio telefonico con una delle mie pazienti : «Buongiorno, signora Martin, come va? » Così si presentava il mio avvio alla sua chiamata che ognuno potrà riconoscere come povero di aperture particolarmente inventive. «Sto bene; sto facendo un bagno di sole in una chaise longue sulla mia terrazza… », mi dice gioiosamente. «E’proprio sicura di meritarselo? », così si presenta la mia frase successiva, molto più sorprendente e brutale della prima, a cui la nostra paziente risponde istantaneamente «Ah la riconosco!!! ». Fuori dal suo contesto, questo scambio rimane incomprensibile. Bisogna incominciare dal tono di enunciazione di queste due brevi frasi, divertito e faceto da entrambe le parti del contatto a distanza che ci lega. Aggiungiamo ancora che, dopo tre anni che ci incontriamo, un sentimento di colpa venuto da lontano, e quindi troppo spesso esteso a  situazioni in cui non avrebbe avuto alcuna ragione legittima di applicarsi, è stato l’oggetto di numerose conversazioni, fino a diventare tra di noi oggetto di ironia o scherzo, cosa che non perdo occasione di riattivare, se non altro per assicurarci e rassicurarci, l’un l’altra, della sua evoluzione. E’ evidente il motivo per cui, a causa di questa scherzosa insistenza, «mi ha riconosciuto». Mi «ha riconosciuto» sicuramente per questa maniera di ritornare all’essenziale con il pretesto della situazione più comune, per questo modo di sottolinearlo in un momento in cui meno se lo aspettava, per lo stile brioso e di scherzo del mio intervento. Ma non ha riconosciuto solo me in questa sua frase ma anche se stessa  in una sotterranea convergenza non solo delle nostre due persone ma soprattutto delle nostre due personalità,  che colorano questo breve scambio,in ricerca di contatto l’una con l’altra. E’ il motivo per cui, quando poco dopo arriva al motivo della sua chiamata, la conferma del nostro prossimo appuntamento, io rilancio sotto forma di un’identificazione rovesciata un po’ ridicola ma divertente riguardo a i suoi dubbi su se stessa : «E’ proprio sicura che mi merito di incontrarla? ». Questa breve sequenza meriterebbe di essere analizzata più a lungo, in considerazione della storia di questa paziente e dei suoi disturbi; teniamone la sostanza, cioè la comune ricerca di una posizione sostenibile e, perchè no, piacevole nei confronti di sè e dell’altro, giocando da entrambe le parti sul filo dell’aggiustamento identificatorio. L’arringa di Minkowski per una forma di «imprecisione» ci sembra seguire questa intenzione, quella di una «appropriazione sana», cioè non possessiva, non dominatrice dell’altro, ma giustamente staccata da ogni velleità  di ascendente su di lui in una familiarizzazione con il suo mondo, il suo «addomesticamento», un modo di articolarlo ad una parte di sè. La modalità allusiva, guidata dall’ambiguità, dalla suggestione, nel senso tenue e non dogmatico del termine, cioè dalla metafora, come indica Minkowski, sembra in perfetta corrispondenza con un movimento vitale da cui deriva e che rispetta. Questa figura d’enunciazione si accorda e si assesta, questa volta nella sua cadenza, sottolinea ancora questo grande psicopatologo, con la passeggiata, povera di affinità con la fretta o la precipitazione ma ricca di armoniose vicinanze con l’errare, l’andare a zonzo, il brancolare : «‘il  camminare’ ci dà il ritmo proprio della nostra vita umana. E anche la malattia ha il suo proprio ritmo. Si allinea sul pedone» infatti «la malattia è un tutto vivente, tutto come l’organismo che colpisce» (p. 161).

Il tempo sostenuto dell’andatura  del clinico psicopatologo  e insieme ricercatore, in quel momento meno teso alla personale appropriazione dell’espressione di un paziente quanto allo sforzo per assemblare e circoscrivere le linee di forza che ne determinano in modo prioritario la  sintomatologia e la sua rappresentazione del mondo, presenta una bella omologia con quello che Jaspers chiama un «processo» durante il corso di un’esistenza : «Quando, al centro dell’evoluzione naturale della vita, si produce un cambiamento psichico del tutto nuovo, può trattarsi di una fase. Ma se il cambiamento è duraturo, il fenomeno viene chiamato processo. (…Questi processi) formano un gruppo che, per l’osservatore imparziale, a causa di un carattere generale si oppone ai processi cerebrali. Questo carattere è un cambiamento della vita psichica che non è accompagnato da alcuna disgregazione della vita mentale e in cui entrano come elementi una folla di relazioni comprensibili. Non conosciamo le cause di un simile processo. Mentre, nei processi organici, i fenomeni mentali sono dal punto di vista psicologico in una confusione completa, qui, al contrario, più si approfondisce il caso studiato, e più si trovano delle relazioni coscienti. (…) Nelle forme meno gravi, l’evoluzione del soggetto prosegue come se ad un certo punto si trovasse una brusca discontinuità dello sviluppo. Nel soggetto normale al contrario, la linea è regolare, e nel caso di un processo organico, non si ha una semplice discontinuità, ma una confusione completa. Abbiamo chiamato questi fenomeni processi psichici, per opposizione ai processi organici. Bisogna considerare questi concetti con dei limiti, e non come definizioni di speci  distinte. Non sottointendiamo niente di teorico, ma vogliamo ricordare con una parola che questi processi  sono accessibili solo dal punto di vista psicologico»[3].

Un esempio recente in forma di «auguri» scambiati con una paziente in occasione del «passaggio» dell’anno nuovo mi sembra illustrare tutto ciò attraverso le due estremità della relazione transferenziale : quando in un colloquio lei si riferisce ad un periodo in cui aveva «tradito» il suo compagno, mi dice che me ne aveva già parlato in un testo che mi aveva inviato. Le dico che dovevo aver letto male o che lei aveva creduto di avermene parlato in questo testo, ma che in ogni caso era prima volta che io prendevo coscienza di questo avvenimento. Riprometto di ritornare al testo che mi aveva inviato ed effettivamente trovo un passaggio di questo testo in cui lei dice in modo laconico : «sono andata a vedere altrove». Le ho reso conto della mia iniziale incomprensione della natura di questo passaggio scrivendo a mia volta :«è perché la vostra espressione ‘sono andata a vedere altrove’ me l’aveva reso più banale e meno chiaro di quanto mi avete detto in seguito… Una sorta di pudore condiviso tra di noi, che ha reso lei più allusiva che esplicita e ha fatto di me uno ‘che non capisce’.».  La paziente mi risponde in un SMS datato il 2 gennaio, che riproduco integralmente : «Questo mal inteso (sic : invece di « malinteso ») conferma che uno scambio interattivo ha la sua importanza. Vivo bene questo giro di boa, (NB : parla nello stesso tempo del cambio dell’anno e dell’ambiente personale e familiare in cui ora si trova dopo un momento critico devastante) ci voleva. Ecco altri orizzonti.  Molti di questi grazie alle sue competenze (sic), sono convinta che lei mi ha aiutato (sic) a non perdermi molto recentemente. Metto in gioco altre cose grazie forse anche a una buona stella che voglio lasciar brillare, a dei  ginn che voglio riconoscere quando li ncrocio, lei è sempre il migliore di tutti (NB : è una persona i cui genitori sono di origine algerina, da parte sua molto lontana da pratiche religiose e culturali, ma per «scherzo» ho spesso attribuito all’influenza di «buoni ginn» tutto ciò che cominciava a capitarle di meglio per non imputare l’esclusività di questi miglioramenti ai nostri incontri). È evidente che lei è un professionista nel suo mestiere sotto quest’aria tanto rilassata ma aldilà di questo il suo aiuto è bonificato dalla sua  grande generosità e dal condividere il suo tempo con me. È importante per me dirle grazie. Allora GRAZIE ! » Al che io le ho risposto con un breve SMS (dal momento che  declinava il suo grazie in minuscole e maiuscole) : « Saha in dialetto o Choukrane se vuole essere più accademica ». (NB « Saha » è la parola in dialetto algerino per dire insieme grazie, salute, ciao e d’accordo, « Choukrane » è l’equivalente in arabo classico  (o sostenuto) per dire solo grazie… ! Lei è sicuramente capace di cogliere tutte queste sfumature nell’uso del linguaggio, lei stessa è professoressa d’inglese).

Un altro esempio, la cui natura reclama i suoi diritti e i nostri doveri a suo riguardo in forma umoristica, finirà di convincerci della necessità di sperimentare e di studiare in modo minuzioso lo sviluppo di questi movimenti intimi nel percorso dei nostri pazienti.

Quando, qualche anno indietro, cercavo per una delle mie pazienti, giunta con inquietudine alla soglia di una 30ª primavera che temeva terribilmente di passare da sola, un regalo simbolico del mio sostegno, ho scelto il segno, con l’intenzione  tranquillizzante, di una vasca di piccole giunchiglie determinate a rompere il nostro inverno, tra cui solo un fiore era aperto mentre gli altri restavano come  promessa  ancora da sbocciare. Bonariamente soddisfatto di questo emblema di nascita un po’ troppo teleguidato verso di essa, mi reco  alla consultazione dove prima incontro altri suoi fratelli di sofferenza. Poi arriva il tempo  dell’atteso incontro, l’apparizione del regalo dalla sua modesta confezione e, molto più bella della sua preparazione, la divina sorpresa, sia per lei che per me, della scoperta: favorite dal calore del reparto ospedaliero, ora a disputarsi la composizione le inflorescenze sono diventate due.  « Capisco », mi dice superando il mio simbolo iniziale troppo preparato e restrittivo, e offrendomene senza indugio un altro molto megliodistribuito, «la più grande, è lei, la più piccola, sono io ». Non sono pronto nè in grado di esaurire gli insegnamenti di una piccola storia così commovente e ricca di risonanze ma, dato che il tempo ci fa pressione, mi accontenterò di trarne una breve e provvisoria «morale» : la creazione nascerà dalla vita stessa,  se le lasciamo l’occasione di sorprenderci.

L’orientamento terapeutico non rappresenta quindi che un prolungamento di un cammino fenomeno-strutturale dall’ambizione prioritariamente e  più largamente comprensiva. Senza essere uno dei suoi obiettivi, si integra spontaneamente al processo di approccio centrato sulla specificità della persona. Così, ponendo l’incontro e non la cura come principio di base nello stabilire il contatto con il paziente, in piena coscienza dell’atteggiamento iniziale che suppone e richiede nella durata così come della natura della raccolta dei dati clinici che ne deriverà, intravediamo come possono emergere delle fonti d’analisi che si rivelano sfociare, a ciascun polo della relazione, su prospettive di evoluzione della persona, per contribuire a un progredire significativo dello sguardo sull’altro e di se stessi particolarmente propizio ad una evoluzione sentita e condivisa insieme. In questa misura, il clinico è solo un intermediario, mediatore di questo  incitamento  al paziente che lo conduce verso la conquista del mondo. La sua azione mira a restituire alla persona non solo il suo «potere essere» secondo la formula di Binswanger ma soprattutto, avremmo voglia di dire, il suo «poter fare» e, se non è un pleonasma, il suo «poter fare liberamente». Questo non potrebbe dunque ridursi ad un’impressione o un sentimento ma richiede una capacità e soprattutto un desiderio  di realizzazione,  cioè di appropriarsi di un reale non solo di recettività o di interiorizzazione ma di iniziativa, di creazione, di compimento di sè in atto quindi in direzione e in storicità singolare sempre comunitaria. In questo senso la psicoterapia appare come un cammino esigente che ha per obiettivo il ricercare con il sostegno dell’altro le vie della sua realizzazione personale.

Entrare in relazione con l’altro, stabilire un contatto con lui, non significa entrare subito in un mondo che ci sarà estraneo nella misura in cui resterà il «suo» mondo; piuttosto accettare di coabitarvi e soprattutto di volerlo al fine di aprirsi ad una reciproca comprensione di quello che ci determina e che contribuiamo a generare e a modificare basandoci su chi ci sta vicino. Lo sforzo comprensivo promuove insieme un atteggiamento e un percorso che permette al paziente di conoscersi attraverso un’immagine riflessa in un suo simile. Una perseverante sollecitazione lo porta ad avvicinare la propria esistenza come storicizzata, vettorizzata per mezzo del clinico che sembra accordargli più valore di quanto altri – compreso lui stesso- facevano prima. Si inscrive così, progressivamente, in una direzione e una appropriazione sensibile del suo destino unico, unitario e singolare, in legame d’interdipendenza, di reciprocità e di solidarietà con una coscienza omologa intrecciata alla sua.

Per la stessa via a doppia entrata, il clinico si offre i mezzi di accedere all’organizzazione strutturale di una persona a volte complicata dai meccanismi psicopatologici di un disturbo. Arrichisce la propria persona e le proprie capacità evolutive di mille sfaccettature riflettenti la relazione con il «suo» paziente in una appartenenza che non ha niente di possessivo ma restituisce un’affinità, una simpatia che mette alla prova le sue capacità di integrazione e di trasformazione per un arrichimento delle sue particolarità. Le molteplici irridazioni dell’altro in sè superano ciascuno dei componenti di questa intesa, esse moltiplicano la sua immagine, consolidano la sua unità ed estensione permanente grazie alla diffrazione concentrata di tutte quelle dell’altro. Più in profondità, sensibilizzano ai principi fondamentali ed essenziali di una condizione umana condivisa nella diversità delle sue infinite declinazioni e combinazioni.

 



[1]Un altro articolo molto precedente “la psicoterapia al dispensario”, apparsa nel 1924 in collaborazione con Maurice Mignard, in Paris Médical 53, 33, pp.137/141, oltre al fatto di non permettere l’attribuzione di ciascun contributo all’uno o all’altro degli autori, si centra più su dati epidemiologici o funzionali  che metodologici propriamente detti. Senza essere, in alcuni momenti, avaro di opzioni o di punti di vista, riflette secondo gli autori solo “un’impressione d’insieme” sulla consultazione d’igiene mentale. Abbiamo trovato riferimento anche ad un altro articolo del 1951 intitolato “Diagnosi psichiatrica e psicoterapia”, pubblicato negli Annales médico-psychologiques, 109, I, p. 336-342. Il lettore troverà infine qualche pagina dedicata a queste questioni din un capitolo su “il concetto di contatto nella pratica” del Traité de psychopathologie, P.U.F. 1966, p. 560-571, dove è scritto questa pertinente osservazione:”Non cercheremo di dare una definizione della psicoterapia. Essa segue passo a passo la nostra attività, in quanto non è possibile dire dove comincia o dove finisce” (p. 561)

[2]E. Minkowski: “Psychiatrie, psychothérapie, relations avec le malade et le grand public”, Annales médico-psychologiques, 1953, 111 année, 2, pp. 309-328, republié dans Eugène Minkowski, Écrits cliniques, textes rassemblés par Bernard Granger, Toulose, Érès, 2002,pp.162-163.

[3]Allgemeine Psychopathologie. Ein Leitfaden für Studierende, Ärzte und Psychologen. 1. Auflage: Springer, Berlin 1913, 1920, 1923; 4., völlig neu bearbeitete Auflage: Berlin und Heidelberg 1946; seitdem zahlreiche weiter unveränderte Auflagen. Traduction française pp.437-439.