Recensione Seminario 08.04.2017 “ IL RISCHIO SUICIDARIO: COMPRENSIONE ED INTERVENTI”


 

Berto Lenisa, psicologa allieva della Scuola ITP

Lunardon Erika, psicologa allieva della Scuola ITP

Questa giornata di riflessione sul rischio suicidario si è articolata in due parti: durante la mattinata alcuni professionisti hanno presentato  dati statistici, confini clinici e di valutazione relativi al fenomeno del suicidio, mentre nel pomeriggio è stato dato ampio spazio al confronto ed alla riflessione in plenaria a seguito di vari lavori di gruppo.

L’apertura ai lavori è stata condotta dal  Dott. Secco, Psicoterapeuta ITP, che ha riproposto le numerose domande che ruotano attorno al tema del suicidio: Quali caratteristiche ha il fenomeno suicidale? Quali componenti psicologiche intervengono? Quali aspetti di ordine sociologico da considerare? Esistono dei segnali che ci permettono di intervenire prima che tale atto sia compiuto?

Per cercare di rispondere a tutte queste difficili domande è indispensabile definire il suicidio come un complesso e critico fenomeno psicosociale che coinvolge, a cerchi concentrici molte persone: la persona che lo esegue, la famiglia in primis, ma anche i gruppi di riferimento, siano essi scuola, lavoro, amici, vicinato.

Il fenomeno suicidale produce quindi un “effetto pigmalione” che si dilata ed espande sempre più verso l’esterno e, delle volte, si amplifica con il contributo della stampa che, come una cassa di risonanza, sembra aumentare l’intensità di contagio sociale soprattutto tra gli adolescenti. Il suicidio infatti è la 2° causa di morte nella fascia d’età 14-24.

Tale evento psicosociale critico appare come “non decifrabile” e contiene in sé una forza distruttiva vissuta dal vivente come violenza subita, è per questo che nella famiglia la prima domanda che insorge a seguito dell’atto suicidario è: Perché l’avrà fatto? Come potevamo intervenire prima?

Il suicidio lascia quindi vuoti di significato inerenti il senso della vita, l’ insopportabilità di vivere e il dramma della morte.

Il Dott. Secco ipotizza come il suicidio appaia legato ad un deficit di mentalizzazione che vede la persona imbrigliata in un pensiero costante che colonizza la mente (“devo farla finita …”) da qui una difficoltà o un blocco nel trattare tale pensiero che diventa totalizzante.

Come intervenire e prevenire quindi? Appare auspicabile aiutare la persona a “pensare insieme il pensiero di morte”, a trattarlo e a contenerlo oltrepassando il tabù relativo al tema della morte, in primis al suicidio, che  lascia molte persone da sole.

Nel contesto adolescenziale il suicidio vede sullo sfondo un naturale bisogno di sfida che si accompagna alla tendenza ad agire con impulsività, ecco allora che i numerosi tentatavi di suicidio possono diventare delle richieste mascherate d’aiuto che sottendono un malessere profondo, spesso a carico del proprio corpo, connesso ad un forte senso di angoscia. Da qui suicidio come modalità di liberazione dall’angoscia, percepito come gesto liberatorio, l’estremo drammatico di comportamenti autolesionistici, frequenti in adolescenza e spesso nascosti o sottovalutati.

La parola viene passata al Dott. Colusso, Medico Psicoterapeuta, Responsabile del “Progetto rimanere insieme” ADVAR, che sottolinea la difficoltà di prevenire tale fenomeno proprio per gli innumerevoli e poco decifrabili fattori coinvolti.

Di estrema importanza il contatto con la famiglia “superstite” che in un primo momento può manifestare ella stessa la volontà di togliersi la vita, un desiderio di morte che pare espandersi a macchia d’olio all’interno del nucleo familiare.

Superare l’evitamento iniziale a parlare della morte è indispensabile, gli operatori quindi accolgono i superstiti, anche in gruppi di mutuo-aiuto, favorendo le narrazioni e il confronto in un clima di normalità e comprensione; clima che spesso non è garantito dal contesto sociale che “distanzia emotivamente” le famiglie che hanno vissuto e subito un suicidio.

Coinvolgente la testimonianza di una donna il cui marito si è tolto la vita inaspettatamente, apparentemente senza dare alcun segnale. Il racconto dell’ evento ha permesso anche di portare in luce molte e frequenti domande: Come accorgersi prima? Quali segnali? Come dirlo ai due figli? Cosa penserà la gente? Potremo far fronte a tutto ciò?

A distanza di anni, alcune domande non hanno ancora trovato risposta, altre sono state elaborate con il superamento del senso di colpa iniziale e dell’incapacità di aver potuto evitare tale gesto; è stata d’aiuto la possibilità di parlare apertamente con professionisti e con persone che hanno vissuto lo stesso trauma: il pensare insieme il pensiero, come precedentemente accennato dal Dott. Secco, sembra essere stato il punto di svolta per l’elaborazione del lutto e la ripresa serena della quotidianità.

L’esperienza toccante a livello emotivo ed umano muove una domanda: fino a dove arrivano la clinica e la medicina in tale fenomeno?

Il Dott. De Rossi, Psichiatra e Direttore UOC SPDC e Salute Mentale Venezia – Ulss 3 Serenissima, ci presenta un’epidemiologia completa che vede il suicidio come 15° causa di morte a livello mondiale, 2° nei ragazzi tra i 15 e i 29 anni, un esteso fenomeno che coinvolge un milione di morti. La difficoltà di definire le componenti di tale gesto derivano anche da un’importante distinzione: tentativi di suicidio (o para suicidio in cui non c’è intenzionalità ma emerge una “componente dimostrativa”) e suicidio: due poli che vedono nel mezzo una molteplicità di situazioni in cui appare molto difficile definire l’ intenzionalità o meno attribuita all’atto.

Il suicidio viene visto come un  processo fluttuante, non lineare dove i concetti di prevedibilità e prevenzione diventano sfumati e difficili da circoscrivere; si possono comunque individuare dei fattori di rischio socio-anagrafici, contestuali e infine clinici.

Si sottolinea però come nessuna scala clinica sia sufficiente per rassicurare ed escludere suicidi: l’80% di persone suicide non hanno avuto alcuna diagnosi psichiatrica, più utile sembrano essere valutazioni psicosociali complessive che indagano qualità e grado di soddisfazione della propria vita.

Che strumenti hanno i servizi per la salute mentale per prevenire e sostenere?

Il Dott. Favaretto, Direttore Dipartimento di salute Mentale – Ulss 2 Marca Trevigiana, risponde a tale quesito sottolineando come all’interno dei Servizi sia importante valutare i fattori di rischio, suddivisibili in tre categorie: disturbi psichiatrici, vissuti di disperazione e tendenza all’impulsività, storia di precedenti tentativi o minacce di suicidio.

Il fattore centrale che sembra accompagnare tutti queste variabili è il forte isolamento sociale che la persona vive, l’obiettivo dei servizi per la salute mentale dovrebbe basarsi sull’intervento a tale livello evitando che la persona venga lasciata sola in momenti di difficoltà e di disagio.

Non si escludono i fattori di protezione, potenti mezzi preventivi: sostegno familiare e sociale, stato di gravidanza e religiosità. La prevenzione dovrebbe interessare più livelli, dal singolo all’intera popolazione; auspicabile un miglioramento dei servizi psichiatrici e di medicina generale, ma anche la formazione dei diversi operatori ai quali spesso tali persone si rivolgono prima dell’atto suicidario.

Le scale cliniche a disposizione dei servizi non sono sempre sufficienti per prevenire il suicidio e in alcune situazioni si rivelano piuttosto limitate, più opportuno un intervento multidisciplinare integrato.

Sono poi intervenuti due medici di famiglia, entrambi psicoterapeuti Gitim, il dottor Gabriele Zanola e il dottor Tiziano Condotta.

Si  mette in risalto come due grandi recettori di disagio siano la scuola e il medico di base; in quest’ultimo contesto  spesso emergono situazioni di insoddisfazione generale e umore deflesso, aspetto che si evidenzia non solo dalle parole del paziente ma anche da tutta la famiglia che si rivolge al medico per comprendere e trovare soluzioni; la collaborazione tra i diversi servizi territoriali dovrebbe essere fortificata e garantita al fine di cogliere il più precocemente possibile segnali di difficoltà e di disagio.

L’ultimo intervento della mattinata è stato condotto da Don Maggiotto che, in maniera sintetica, ma estremamente lucida ed efficace, ha delineato alcuni punti chiave che possono guidare l’intervento di chi vuole aiutare le persone a guardare alla vita e non alla morte.

La dimensione dell’aiuto verso chi soffre tanto da meditare il suicidio ci riporta al tema della solitudine: la persona sofferente si sente non capita, si sente sola, ha la sensazione che gli altri non la comprendano. La presenza dell’altro diventa fondamentale nel momento in cui questo fa da specchio ai dolori di chi soffre perché senza uno specchio i dolori si confondono anche all’interno della persona stessa. Si può arrivare così alla perdita del senso si sé, dell’apertura al futuro, della speranza, del senso di identità e di fiducia. Tutti elementi che concorrono a salvare dal pensare al suicidio. Questi “specchi empatici” possono aiutare a sbrogliare il groviglio di emozioni che attanagliano il sofferente, impedendogli di muoversi, paralizzandolo.

Che fare dunque?

È importante esplorare più elementi per tentare di dare una risposta soddisfacente alla domanda, fermo restando che, alla base di tutto, dobbiamo avere chiaro che l’uomo per sua costituzione è un po’ mostro e un po’ angelo, in cui bene e male a volte si confondono. L’individuo è misterioso, non “governabile”, e dunque è difficile dare una “risposta” nel vero senso del termine.

Iniziamo prendendo in considerazione quella che oggi è la dimensione dell’individualismo, la quale, incrociandosi con il desiderio di mutamenti vertiginosi, rende molto difficile l’identificarsi con se stessi. Manca cioè la sensazione che qualcosa in sé duri nel tempo, nonostante le trasformazioni, ed è questo sentire che ci permetterebbe di “lasciar andare” ciò che ci viene portato via. Posso lasciar andare solo se sento che qualcosa dura e quel qualcosa, dice Don Maggiotto, “sei tu”.

Tornando alla questione sopra accennata dell’altro come specchio, ricordiamo che nella persona che contempla il suicidio si affievolisce l’immagine si sé come persona che esiste, si cede ad una forma di annichilimento. Se chi soffre ha la sensazione che l’altro ignori, non veda questa sofferenza, diventa oltremodo importante cercare nuovi specchi, per avere un rimando sul senso della propria dignità. Citando la Bibbia, Don Maggiotto ci ricorda come l’uomo sia stato creato con la possibilità di essere ciò che vorrà, non con un solo talento specifico come gli animali; se questa possibilità però non è avvertita come tale dalla persona, l’esistenza muta radicalmente e perde di significato.

Un altro elemento molto importante riguarda la capacità di meditare, intesa come il “fermarsi e fare silenzio”, dove questo fermarsi è funzionale al guardarsi per accorgersi di chi si è, di come si sta procedendo nella propria esistenza. Non si parla dunque solo di “fare”, ma di “essere”, perché purtroppo spesso ciò facciamo tradisce quello che siamo…

Se vogliamo poi che una persona sappia rivolgersi alla vita, non possiamo precludere la possibilità di  “riscoprire il cielo”, come afferma Don Maggiotto, ossia la capacità di allargare la prospettiva della propria vita agli altri, vedersi come inseriti in un mondo grande, con un orizzonte ampio. Come il bambino che, seppur inconsapevole, alza gli occhi al cielo per rivolgersi a mamma e papà, così anche la nostra sofferenza può essere ridotta se chiediamo aiuto all’altro. L’altro può portare calma, sfamare il bambino in noi che chiede cibo. Per chiarire meglio questo punto Don Maggiotto racconta la favola di un uomo che, essendo depresso, si sfogava spesso con gli amici. Questi decisero allora di mandarlo a consultare un sapiente, il quale disse all’uomo di andare a prendere un cucchiaio di cenere e versarlo in un bicchiere d’acqua. Gli chiese poi cosa vedesse ed l’uomo notò che l’acqua si era sporcata. Poi gli disse di prendere nuovamente un cucchiaio di cenere e questa volta di versarlo nell’oceano, ponendogli nuovamente la domanda precedente. L’uomo allora notò che nell’oceano la cenere non si vedeva più, al che il sapiente lo invitò a comprendere che, se nel bicchiere la cenere sporca l’acqua, l’obiettivo sarà quello di imparare a metterla nell’oceano.

Un altro punto di riflessione riguarda il rieducare la coscienza, nel senso di imparare a distinguere il bene dal male ovvero affinare l’arte di scegliere. Oggi infatti si è smarrito il senso dello scegliere bene, perché la domanda che ci poniamo è solo “me lo posso permettere?”. Se la risposta è affermativa, facciamo, senza preoccuparci che si tratti di fare “bene” o “male”. Questo, asserisce Don Maggiotto, svuota il cervello e inaridisce il cuore … con l’inevitabile conseguenza di arrivare a chiederci cosa ci si sta a fare al mondo.

Ancora, è importante vincere l’ipercompetizione del nostro tempo. Oggi o si è vincenti o non si è niente, mentre è importante che la persona sappia viversi ben oltre la prestazione e l’ipecompetizione.

Altro elemento chiave è il concedere del tempo all’autoformazione permanente, di cui oggi c’è sicuramente un bisogno primario.

Infine, riprendendo un detto medievale “ubi oculus, ibi amor” (“dov’è il tuo occhio, lì c’è il tuo amore”), Don Maggiotto ci esorta ad imparare ad usare gli occhi … sulla vita. Guardare la propria madre, il proprio padre, le persone, la vita ci porta ad amarla ed ad amare anche la vita dell’altro, con la conseguenza che questa vita non può essere qualcosa che ci “togliamo”. Si tratta di riconsegnare la vita ai nostri occhi, così da far rinascere le passioni e così l’idea di “mollare la vita” non ci attraverserà la mente.  A tal proposito viene riportata la parabola del “Buon samaritano” come esemplificazione di quanto questo tenere “gli occhi attaccati al cuore” sia fondamentale: la compassione mostrata per chi soffre è necessaria, ma essa è falsa e vuota se non si accompagna alla consolazione, intesa come “prendersi cura.” Nascondersi dietro il “aiuterei l’altro, ma sono ferito anch’io” non ci esonera dallo sperimentarci nella direzione di questa consolazione perché, anzi, proprio se siamo feriti anche noi siamo adatti a curare. Sarà importante infatti avvicinarci all’altro raccontandogli ciò che è stato un balsamo per noi, per poi procedere nell’aiutarlo come meglio possiamo.

Va da sé che nella clinica questo si traduce nell’importanza del ruolo dei professionisti, innanzitutto come coloro che devono sondare la presenza di pensieri suicidari, perché la persona che soffre spesso non ne parla in quanto parte dal presupposto che l’altro non possa capire. Un problema chiave infatti è quello della solitudine, come si diceva sopra, intesa non come assenza di persone attorno, ma come assenza di persone care. L’altro quindi è fondamentale in quanto consente la narrazione e permette di riconoscere la verità della persona, ovvero di trovare quale per lei è la soluzione possibile in quel dato momento. Regola chiave diventa perciò l’umanità delle figure professionali che si rapportano con questa estrema sofferenza.

 

Nel pomeriggio si è passati ad un coinvolgimento diretto di tutti i partecipanti mediante la divisione in gruppi di lavoro, coordinati dalla Dott.ssa Zanetti, dal dott. Secco, dal dott. Colusso e dalla dott.ssa Moretto.

All’interno del gruppo a cui abbiamo partecipato condotto dalla dott.ssa Zanetti è emersa l’importanza, di avere strumenti diagnostici in grado di aiutare a rilevare il rischio suicidario. La dott.ssa Zanetti ha presentato il Test di Rorschach che può dare indicazioni circa il rischio suicidario. Il test delle macchie di inchiostro infatti permette di evidenziare alcuni elementi che concorrono a delineare “costellazione suicidaria”, che ci indica come la persona reagisca alle difficoltà,  sul piano del pensiero, sulla visione di sé e del mondo. Nello specifico, in questa costellazione si trovano rilevati più fattori di rischio, tra cui il cedimento dell’esame di realtà, l’assenza di un “sano” conformismo, la presenza di affetti spiacevoli che connotano anche le situazioni felici, problematiche nell’identificazione al mondo umano, la visione negativa del sé, un’introspezione negativa caratterizzata da ruminazione sul sé, sensi di colpa, eccessive autocritiche, sovraccarico emozionale e l’impulsività. Il Dott. Marcon ha riportato poi qualche suggestione circa la terapia di un ragazzo il cui padre si era suicidato e, dalla discussione sul caso avvenuta nel gruppo, è emersa l’importanza del substrato di una buona relazione, in qualità di contenitore delle questioni esistenziali che porta chi soffre.