Riflessioni sul senso dell’immagine: applicazioni psicologiche, psicopatologiche e psicoterapeutiche

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Immaginario: studi e ricercheJean Marie Barthelemy

Conferenza al Gruppo Italiano per le Tecniche Psicoterapiche d’Imagerie Mentale

Treviso 24 e 25 Maggio 2013

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Proporre una riflessione sul “ senso dell’immagine” significa innanzitutto accettare di fissare dei limiti al proprio progetto e soprattutto alle proprie pretese, in quanto  non è possibile considerare un’estensione troppo ampia nella corrispondenza tra due termini portatori già, ciascuno per sé, di ambiguità e di molteplici controversie.

Senza escludere a priori un’uscita dai territori abitualmente riservati alla psicologia, è essenzialmente da questo ambito, ed  in particolare da quello che la clinica  circoscrive ed insegna, che conviene partire per appoggiarci su dati concreti, per ripararci da un’astrazione troppo facilmente vicina a derive raziocinanti, per non accontentarci quindi di un approccio puramente teorico ai fenomeni.

Ricordiamo inizialmente in breve che una buona parte della storia della filosofia dal 16º al 19º secolo, d’ispirazione empirista inglese e poi associazionista nella sua estensione, modernizzata in seguito nella dottrina psicologica comportamentista, ha insistito sulla concezione di un’immagine come dato tra i più originali della coscienza, intermediaria tra la sensazione, radicata nel suo supporto e substrato fisiologico da cui dipende primitivamente, e la percezione in cui il reale si organizza, donando così unità ad una coscienza di sé e del mondo articolate l’una con l’altra e che prendono senso in modo solidale confrontandosi l’una con l’altra.

Una specie di apoteosi di questa tendenza trova la sua forma compiuta per esempio, in un’opera apparsa nel 1870 dal titolo evocatore, Sull’intelligenza, in cui Hippolyte Taine percorre il lungo cammino laborioso della conquista dello spirito in una vasta sintesi delle teorie precedenti completata da un’illustrazione dei meccanismi psicopatologici nel caso in cui il suo sviluppo, per diverse ragioni, arriva ad incepparsi. Attraverso un’analisi elementarista, il confine viene chiaramente fissato come totalizzante e riduttore, se non riduzionista, dal suo autore: “noi sappiamo che tutte le idee, tutte le conoscenze, tutte le operazioni dello spirito si riducono (siamo noi che lo sottolineiamo) a delle immagini associate, che tutte queste associazioni hanno la proprietà di rinascere che hanno le immagini e che le stesse immagini sono delle sensazioni che rinascono spontaneamente. Tutto questo si accorda con la dottrina fisiologica. [1]” Lo scopo ultimo convenuto è l’apparizione delle idee ed il loro raggruppamento unitario sotto la bandiera di questa “intelligenza” che rappresenta la realizzazione e il coronamento di questo processo; la funzione della psicologia è, dall’alto verso il basso, di scomporne le fasi poi, dal basso verso l’alto, di ricostituirne gli ingranaggi di funzionamento. L’immagine, a questo titolo, ne rappresenta una versione parziale, transitoria e volatile, destinata a farsi da parte, nel senso  educato del termine, a favore della forma più nobile e compiuta della riflessione, come il ruscello che tende verso il mare in cui si perderà. La sorte riservata fin dalla partenza all’immagine da Taine e dall’insieme della corrente associazionista da cui proviene, il suo futuro tutto tracciato, il suo destino che le vale una sorta di promozione, è di combinarsi ad altre immagini, di profilo simile al suo o in contrasto con essa, e diventare un’idea. Il risultato naturale dell’immagine è dunque questa “intelligenza” l’unica a cui il titolo del suo libro  dà valore, cioè questa somma e questa riserva d’idee.

Contrariamente alla sensazione, considerata come più primitiva, l’immagine per Taine possiede una qualità supplementare: quella di poter ravvivarsi spontaneamente; è questo dispositivo d’impulso che sovrappone, al suo meccanismo, il dinamismo della vita psichica, autoalimentata dalla natura estensiva del cervello: “la sensazione bruta è incapace e l’immagine è capace di rinascere spontaneamente. Più la corteccia cerebrale è estesa, più ha elementi capaci di mettersi in azione reciprocamente. Più ha elementi capaci di mettersi in azione reciprocamente, più è uno strumento delicato di ripetizione. Il cervello è dunque il ripetitore dei centri sensoriali; questo è il suo uso; ed esso esegue tanto meglio quanto più i ripetitori da cui è composto sono numerosi. Notiamo qui il meccanismo che rende possibile la proprietà fondamentale delle immagini, cioè la loro tendenza a durare e a rinascere.”[2] Teniamo per il momento questa capacità di “risurrezione permanente” dell’immagine e collochiamo qui fin da ora, senza restringerla ad una tendenza, una promessa capace, al momento giusto, di avere una sua utilità come principio di intervento psicologico.  E chiudiamo provvisoriamente il nostro riferimento a Taine ricordando questo celebre passaggio sulla sua metafora dello spirito concepito come un “polipaio di immagini” in cui non solo i disturbi psichici ma una specie di “psicopatologia della vita quotidiana” ante litteram sono abilmente convocati; anche se un po’ lungo, vale la pena di citarlo per intero: “Come il corpo vivente è un polipaio di cellule mutualmente dipendenti, anche lo spirito che agisce è un polipaio di immagini mutualmente dipendenti, e l’unità, in un caso come nell’altro, è un’armonia ed un effetto. Ogni immagine è munita di una forza automatica e tende spontaneamente ad un certo stato che è l’allucinazione, il falso ricordo, ed il resto delle illusioni della follia. Ma essa è fermata in questo cammino dalla contraddizione di una sensazione, di un’altra immagine o di un’altro gruppo di immagini. L’arresto mutuale, il reciproco strattonamento, la repressione costituiscono nel loro insieme un equilibrio; e l’effetto che si arriva a vedere prodotto dalla sensazione correttrice particolare, dal concatenarsi dei nostri ricordi, dall’ordine dei nostri giudizi, non è che uno dei casi dei perpetui aggiustamenti, d’incessanti limitazioni che innumerevoli incompatibilità e conflitti operano incessantemente nelle nostre immagini e nelle nostre idee. Questo bilanciamento è lo stato di veglia razionale. Se questo cessa per l’ipertrofia o l’atrofia di un elemento, noi diventiamo folli, completamente o in parte. Nel caso questo duri oltre un certo tempo, la fatica è troppo forte, noi dormiamo; le nostre immagini non sono più ridotte e condotte dalle sensazioni antagoniste provenienti dal mondo esterno, dalla repressione dei ricordi collegati, dal comando dei giudizi bene connessi; quando acquistano il loro completo sviluppo, si trasformano in allucinazioni, si organizzano liberamente seguendo delle nuove tendenze; ed il sonno, così popolato di sogni intensi, è un riposo perché, sopprimendo un vincolo, conduce un rilassamento.[3]

Sottolineiamo subito che, in questa prospettiva, senza un sistema correttore, è il funzionamento patologico o per lo meno anarchico e rigoglioso dell’immagine che, paradossalmente, si imporrebbe allo stato naturale o, per dirlo come Taine, alla sua esecuzione automatica. È solo perché questa è dotata in contrappunto di un principio di correzione e di aggiustamento interno che il suo svolgimento può esercitarsi in modo armonioso ed equilibrato. Significa in altro modo riconoscere come soggiacente un’ambiguità o una ambivalenza fondamentale dell’immagine dato che essa si compone insieme di una forza emergente e di un’altra inversa di contenimento o di inibizione. La base dell’immagine obbedisce dunque ad una iniziale contraddizione essenziale, essa “dondola”, oscilla, fluttua tra affermazione e negazione, cosa che apparirà agli occhi del razionalista come un principale svantaggio poco propizio e anche refrattario alla sua stabilizzazione oggettiva ma potrebbe rivelarsi come una risorsa di base per lo sviluppo autonomo del pensiero e la pratica psicoterapeutica, specialmente negli esercizi del rilassamento e di rêverie dirigée.

Ma non andiamo troppo veloci. Senza potere considerare tutte le tappe che hanno rimaneggiato e completato queste concezioni, fermiamoci su una scoperta che apporterà, a partire da ricerche divenute cliniche e propriamente psicopatologiche, un’altra forma di comprensione della vita delle immagini che la collega a delle organizzazioni e tendenze psicologiche dipendenti in modo prioritario dalla loro influenza. E’con uno studio genealogico condotto dal 1912 fino alla sua pubblicazione integrale nel 1937[4] che Françoise Minkowska le offrirà un ampliamento, dalle precisioni di definizione e dalle potenzialità d’applicazioni fino all’ora insospettate.

Su suggerimento di Eugène  Bleuler, allora il Direttore alla Clinica Psichiatrica Universitaria del Burghölzli di Zurigo dove erano appena stati ospitalizzati nel 1912 un fratello e una sorella che presentavano dei disturbi psicotici atipici, quella che era allora la sua assistente  ripercorre il filo di sei generazioni della loro famiglia secondo un’idea preconcetta e non un’ipotesi, suggerita dal suo maestro, secondo il quale la stranezza  di queste manifestazioni patologiche non potevano derivare che da una convergenza di influenze tra le due grandi entità psichiatriche che la nosografia dopo Kraepelin[5]  aveva cominciato a riunire con una volontà di raggruppamento: la psicosi maniaco-depressiva e la demenza precoce, denominata in seguito “schizofrenia”  sotto l’influsso di  concezioni allora del tutto recenti di Bleuler, inventore di questo concetto nel 1911. Dopo aver esaminato, in modo diretto o attraverso i loro antenati, le particolarità psicologiche della famiglia d’origine di questo fratello e di questa sorella, Minkowska vi trova due branche importanti: una, in conformità alla supposizione iniziale, in cui si sono manifestate delle perturbazioni psichiche di tipo schizofrenico, l’altra in cui non appaiono i segni della psicosi timica, contrariamente a quello che si aspettava Bleuler, ma quelli più inaspettati dell’epilessia[6].

Quindi non sono solo le propensioni di queste discendenze a generare a volte delle individualità disturbate che attireranno l’attenzione di Minkowska; piuttosto e molto di più, la luce che queste fanno, da una parte e dall’altra, su delle persone indenni da ogni danno mentale ma con caratteristiche di personalità di solito condivise, i cui aspetti salienti presentano delle forme che le apparentano ai meccanismi che dirigono i disturbi nella cui scia essi si trovano inscritti. Sul modello dei rapporti tra struttura del corpo e carattere che Kretschmer, a partire dal 1921[7], aveva appena formulato, in cui aveva definito il carattere “schizoide” in continuità con l’organizzazione patologica schizofrenica, Minkowska forgia, a partire dal 1923, Il termine  “epilettoide” per designare delle personalità dalla “affettività concentrata, condensata, vischiosa che aderisce agli oggetti dell’ambiente e non se ne distacca tanto facilmente quanto esigono le variazioni del contesto; essa non segue più il suo movimento  ed è, per così dire, sempre in ritardo. L’epilettoide è per eccellenza un essere affettivo, cosa che lo distingue dallo schizoide, ma questa affettività è vischiosa e manca di mobilità”[8].

 L’evocazione del “legame”, anche se questa parola non appare ancora in questo momento con tutta l’importanza che prenderà in lei successivamente, si manifesta in questi i primi studi sotto la sua forma esasperata della “adesività” che si esercita sia come un tratto del carattere epilettoide sia come un richiamo delle sue relazioni, su un piano più disturbato, con il registro della malattia epilettica. È d’altronde questa parentela che si ritrova anche nel vocabolo epilettoidia  e che  farà preferire in seguito a Minkowska il termine di “gliscroidia” per evitare ogni assimilazione di questa particolarità ad un qualunque disordine. In questi lavori originari, l’adesività si presenta dunque inizialmente come l’esteriorizzazione di un’impronta affettiva potente, ma non solo, o almeno con delle conseguenze più ampie di quelle che dipendono da una sola dominante della personalità.

L’adesività è inoltre considerata da Minkowska come una delle polarità dell’organizzazione della persona che s’integra ad un dinamismo della vita affettiva tipica delle persone soggette a questi effetti. Il suo sovraccarico accumulato la vincola verso quello che l’autrice chiama una “stasi” in cui la compressione dell’affettività sforza i suoi limiti che non possono che sfociare su una fase di scarica e di risoluzione esplosiva, concepita non tanto in opposizione ma in continuità con la fase adesiva di cui realizza il prolungamento naturale e inevitabile. Minkowska descrive così questa transizione tra le due fasi della personalità gliscroide: “La stasi provoca delle scariche esplosive davanti alle quali l’individuo resta impotente, esse lo invadono completamente in modo rapido e brutale, provocando l’obnubilamento della conoscenza e si distinguono per il modo improvviso e la violenza; i rallentati diventano degli eccitati; sono degli accessi di collera violenta, degli atti impulsivi, delle fughe, infine degli stati crepuscolari di lunga durata, caratterizzati da uno stato di angoscia intensa, da un delirio di natura impersonale, da visioni, idee mistiche e stati e statici, tratti di cui non è difficile riconoscere la somiglianza con l’epilessia”[9].

Queste caratteristiche alternate di adesività e di esplosività, Minkowska  le riconoscerà dal 1932 nella personalità, l’opera e i disturbi di un pittore che l’aveva all’inizio attirata e colpita per la sua forza di evocazione creativa, Vincent Van Gogh[10].

Così è all’intersezione delle sollecitazioni visive e del linguaggio che Minkowska  continuerà la sua esplorazione di queste tendenze che presto chiamerà sensoriali o sensomotorie per indicarne il radicamento profondo e fondante nell’atto motorio e nella sensazione. Con il supporto delle macchie d’inchiostro, trasformate da Rorschach in metodo di differenziazione degli approcci percettivi e, attraverso la loro mediazione, delle personalità che li esprimono e li promuovono, l’autrice arricchirà attraverso le particolarità di quella che chiama la “visione in immagini” la conoscenza dell’epiletto-sensorialità. Grazie a questa circostanza scopre l’autentica estensione in ogni campo dell’attività psichica di quello che per questo motivo ora chiamerà il “meccanismo essenziale del legame”[11].

Nel Rorschach del sensoriale, il legame si traduce nel modo di apprensione con un bisogno di inventare delle contiguità spaziali, di riunire delle parti della tavola che appaiono ad altri come indipendenti o isolate, di assemblarle in combinazioni progressive fino a creare degli insiemi più o meno felici e riusciti nella loro coerenza. La mimica, spesso presente, partecipa al legame con la cosa vissuta e sentita così come con la sua capacità di essere trasmessa all’interlocutore come azione e risonanza condivise. Nella determinazione delle risposte, anche il movimento gioca un ruolo unificatore attraverso una sensibilità chinestesica che vincola le diverse componenti dell’immagine verso uno slancio comune, offrendo dunque una tensione e un orientamento dinamico alla percezione e anche condensando  il peso dell’azione in corso con dei verbi in cui si esprimono con vigore la necessità adesiva di toccare, di portare, di prendere, di unire, di attaccare, di agganciare, di incollare, ma anche la tendenza esplosiva a balzare, sprizzare, saltare, esplodere. Questa tipologia di verbi così come le congiunzioni di coordinazione e i termini che rivelano una continuità spaziale o temporale costellano le formulazioni verbali privilegiate da questi Rorschach, dimostrano così la sensibilità del linguaggio nel restituire nella sua enunciazione il valore primordiale in cui si concentra l’essenziale della persona. L’appesantimento sulla salita e la discesa gioca lo stesso ruolo della linea serpentina di questi percorsi a meandri o a curve nelle tele di Van Gogh, esso anima lo spazio e mette in relazione settori spaziali lontani. Alcuni contenuti vi appaiono come metafore del calore e del legame affettivo e sociale, come le immagini persistenti del sole o del ponte, spesso insistenti nei Rorschach o nei disegni di bambini sensoriali ma anche in molte tele di Van Gogh. Questo avvicinamento non sfuggirà a Minkowska che consacrerà gli ultimi momenti della sua attività di ricerca ad una possibile messa in relazione delle produzioni pittoriche di bambini con quelle di celebri pittori per tentare di trarne un metodo di approccio e di lettura delle forme plastiche colte e comprese nei loro rapporti con le singolarità personali di ciascuno dei loro autori.

Ulteriori studi di una allieva di Minkowska e di Henri Wallon, che fu mia diretta maestra in psicopatologia, Zéna Helman, pubblicati a partire dalla fine degli anni 50, dimostreranno la fondatezza dell’intuizione di Minkowska nello stabilire una larga sovrapposizione tra le dominanti senso-motorie stabilite dal Rorschach e dai disegni ed il meccanismo fisiologico dell’ipersincronia neuronale  all’elettroencefalogramma, la loro preponderanza nella infanzia e la loro tendenza alla diminuzione nel corso della maturazione, il loro comune accentuarsi nei disturbi epilettici nel bambino come nell’adulto. (Z. Helman 1959). Questo aprirà la via a tutta una serie di ricerche che prendono per punto di partenza la visione in immagini ed il legame che la sostiene nelle sue capacità di attualizzazione, i suoi intoppi e le sue défaillances. È importante infatti comprendere bene le risorse del legame: esse dipendono essenzialmente da una visione del mondo, recepita come in ripercussione, arricchita da una presenza molto vivace e potente delle immagini, che si impongono non solo a chi ne è il portatore e il promotore, ma anche ai suoi testimoni grazie ad una propensione naturale alla loro diffusione generosa e alle loro capacità di toccarci in modo diretto ed immediato; esse sono all’origine delle capacità di stabilire un contatto affettivo con l’altro e con l’ambiente,  di stabilire delle relazioni fondate sulla recettività emozionale e la necessaria solidarietà sociale. Tuttavia non si dovrà idealizzarle dimenticando i loro effetti nefasti, percepiti dall’interno da chi ne soffre come dall’esterno nei limiti della sua accettazione quando questo tende ad avere il sopravvento; così come ci insegna la psicopatologia e senza che queste manifestazioni si esercitino necessariamente solo in occasione di disturbi conclamati, il legame può essere all’origine di strane embolie psichiche con grande danno di chi le subisce, con a volte la disillusione o il senso di colpa di ottenere gli effetti contrari a quelli aspettati o sperati, e non sarà Van Gogh a smentirlo. L’invischiamento confuso delle forme, delle persone e delle situazioni, le tendenze fusionali ad agglutinare, la saturazione della relazione interpersonale da parte dell’esigenza, addirittura la querulomania, affettiva, e tutto questo sfogo esplosivo liberatorio della stasi ne rilevano come neanche il minimo equilibrio del controllo razionale possa più esercitarsi con sufficiente efficacia. Nella mia relazione del 2010 avevo esposto come a partire da ricerche sull’esperienza delirante studiata con il Rorschach dagli anni 1960, Zéna Helman aveva messo in evidenza, in questo genere di perturbazione, il meccanismo “dell’immagine che non tiene più” mostrando così che il delirio non è fondamentalmente una alterazione del sistema della conoscenza della logica o del ragionamento come potevano lasciar credere alcuni temi o meccanismi prevalenti, ma che esso al contrario colpisce profondamente il processo di formazione delle immagini[1]. Avevo anche rinviato, come nella mia relazione del 2008, allo studio monumentale del mio amico Michel Ternoy[2] sulle allucinazioni, con il suo prolungamento sull’opera pittorica ed allucinata d’Augustin Lesage, e la scoperta di ciò che Ternoy chiama il “dettagliamento” per rendere conto di un fenomeno in cui l’immagine si presenta al Rorschach  ed al Rêve Eveillé Dirigé  con una strana propensione all’interruzione ed alla discontinuità. Io lo prolungherei oggi con un riferimento ad uno studio di sintesi di cui ho cercato di rendere conto nel 1990 compilando molti studi parcellari sulle osservazioni di tossicomani incrociate con la ricerca del poeta e pittore Henri Michaux sulle droghe allucinogene[3].

Subito, un fatto mi aveva colpito in quel momento: sui quattro studi di riferimento[4], due titoli incrociavano esplicitamente il campo della tossicomania e quello dei deliri; le altre due ricerche confermavano numerose osservazioni in cui una manifestazione delirante, attuale o di vecchia data, passeggera o duratura, intensa o in sordina, era stata notata.

L’insistenza clinica corrisponde ad un enunciato semiologico e nosografico sotto forma di una intersezione parziale tra i due registri di disturbo:

- L’effetto immediato di un buon numero di tossici è di produrre delle manifestazioni allucinatorie la cui parentela con le allucinazioni patologiche propriamente dette arriva a suggerire un modello sperimentale di disordini deliranti o schizofrenici.

- L’assunzione ripetuta di droga può condurre all’installazione di disturbi acuti o più continui, non legati all’allucinazione ma ad una elaborazione delirante su base interpretativa o dissociativa.

Vorrei indicare oggi come l’accostamento nosologico di questi campi trova le sue corrispondenze, attraverso l’analisi psicopatologica, nel destino riservato all’immagine dalla tossicomania. Una volta scartata l’ipotesi assurda che l’accesso alla droga sia riservato ai deliranti, noi dovremmo ammettere che quello che si osserva delle caratteristiche dell’immagine e delle sue perturbazioni nei tossicomani, anche se queste assomigliano alle proprietà riconosciute nei mondi deliranti, deriva da un’azione della sostanza sul funzionamento psichico.

Le frasi che Daniel mantiene durante tutta la somministrazione del test di Rorschach portano, inseparabili, dei valori espressivi e quasi didattici. Traducono in un riassunto terribile, a volte insostenibile, l’auto analisi di una sofferenza e di una incapacità, ci informano e ci insegnano.

La rapida successione di immagini fluttuanti costituisce la principale defaillance che ricorre costantemente attraverso diverse modalità di comparsa. La simultaneità è affermata chiaramente nella coincidenza tra contenuti (Esempio:  “un pipistrello e nello stesso tempo una dissezione”) mentre l’azione inscritta nella chinestesia giustappone tensioni antagoniste: “vola, alla fine vola, no … qua è come inchiodato su una tavola”. L’accelerazione percettiva è restituita dal rinforzo accentuato di un battito temporale ridotto all’istantaneità: “ma ora, al momento, questo mi fa pensare a due triangoli”. Il desiderio d’immagini si infrange contro una discontinuità che lo annichilisce: “vedi, qua, cerco di vedere una testa, ma questo riparte, e un’immagine ne trascina un’altra”; tutti gli orologi impazziscono: “questo mi fa pensare a neve … non latte, neve; questo mi fa pensare al latte adesso … è troppo”. Le forme diventano sfumate, i loro limiti spaziali, il loro contesto d’appartenenza si sfilacciano: “vedo dei cosi ma è fantomatico, questo può essere qualunque cosa”. Laurence Payen riassume in modo notevole quello che è in gioco: “Daniel stesso descrive molto bene quali sono i rischi che corrono le forme, e in modo più generale le immagini che egli coglie. Ora queste si sgranano laboriosamente, raramente si stabilizzano, ora quelle lo assalgono a cariche, si cancellano man mano. Il loro ritmo irregolare assomiglia a volte nettamente a quello di un Rorschach delirante. Tutto questo rinvia all’apprensione di una realtà maltrattata, mutevole che appare come in filigrane. Daniel parla anche della nebbia da cui vede sorgere gli esseri e le cose, come a forza di sgranare gli occhi”.[5]

Il primo e determinante dato dello sconvolgimento di fondo che questa testimonianza lascia capire, è proprio quello di una instabilità delle immagini, che produce inconsistenza. Il tempo si accelera e divide in piccoli elementi discreti sottomessi per ogni unità di insieme ad una legge di successione frammentaria. Le immagini possono scegliere solo tra un’assenza dolorosa e una presenza ambiguamente simultanea o vertiginosamente alternata. I segni di uno svolgimento inaccessibile, di una continuità impossibile, quelli di un “tempo a piccoli movimenti in fila indiana[6],o “le idee sono più biglie che idee[7] descritti da Henri Michaux nell’esperienza della mescalina, si sposano nel Rorschach con i contorni sfuggenti di una temporalità dell’immagine incapace di viversi.

 “Aspetta…”, chiede Jean-François confondendo probabilmente se stesso ed il suo interlocutore; questo temporeggiare da cui prende avvio la risposta non ha niente di dilatorio, è vitale, è una questione di esistenza o di ritorno al nulla, di vita o di morte dell’immagine. A proposito di questo paziente, Brigitte Colbeaux-Locquet[8] ha sottolineato la frequenza di quelle che chiama in modo esatto delle “formule di pazienza” che cercano “di mettere in campo l’immagine facendola precedere da un’ondata di impressioni intermedie tra la descrizione e l’immagine”. Queste si accompagnano a comportamenti particolari come sbattere le palpebre, inclinare la tavola rispetto alla luce incidente, girarla; quindi a tutta una applicazione, ad una maieutica da cui  possa nascere l’immagine. Un solo estratto di risposta mostrerà in quali condizioni: “non sempre, ma in alcuni momenti, vedo il corpo di una donna ma la vedo a tutti i livelli, è sfumata, non è precisa”. Presenza fluttuante, fuggitiva e fragile di un’immagine che non può consolidarsi.

Formulazione rara ma intensamente adeguata come quella dello stesso Jean-François per rendere conto di una apparizione effimera: “ c’è quand’anche una forma di viso che ho appena visto”; immediato passato reso da un presente, come esprimere meglio e con simile economia di mezzi l’eclisse di una forma che si è “quand’anche”  sicuri di avere intravisto? C’è qualcosa che si perde, e di  nuovo in piena cognizione di causa: “so di più, i disegni cambiano, questo si trasforma”.

Accelerazione, agitazione, trasformazione e sovrapposizione delle immagini hanno parte in comune. I loro effetti congiunti definiscono delle figure di alterazione di cui i tossicomani ci rivelano direttamente i segreti. A volte un sentimento di sovraimpressione è tradotto a parole: “ho l’impressione che ci siano tracce, più disegni sovrapposti” (op.cit. 1) . Questo contribuisce alla costruzione di strane concrezioni ibride laboriosamente ricomposte dalla metamorfosi. (“Vedo un papillon, questo ha la forma di un papillon con la testa e le pinze di un granchio … sono le ali e il centro del papillon … senza le pinze, questo sarebbe il papillon ma il tutto prima, questo è la testa di un granchio”), o istantaneamente fissate dalla contaminazione di un “lupo-indiano” o di un “pesce-gatto” (2). Combinare l’accelerazione e la trasformazione, è creare l’affluenza, la proliferazione o se si preferisce con Michaux, la “pullulazione”: “vedo anche pieno di teste”, dice Florence, scombussolata fin dalla prima tavola da una tale accumulazione (op. cit. 1).

Il senso della realtà non può mantenersi a lungo indenne in un disordine che  traspone in incoerenza. Questa appare specialmente quando le forze coesive del legame si dimostrano sopraffatte dalla vastità di un compito che supera le sue capacità; le costruzioni versano allora in un’incongruità che può arrivare fino alla discordanza. Del primo livello consideriamo due esempi: “Vedo ancora una testa di capra o di coniglio con delle trecce, non so” (op. cit. 1). “questo mi fa pensare a degli ippocampi e, sotto, si direbbe un uomo le mani giunte  con le due mani sopra la sua testa, sarebbe appeso come questo e gli ippocampi che lo sostengono”. (op. cit. 2). Più gravi, in evoluzione verso un magma confuso dove si diluiscono forme e significati, questi due estratti: “questo mi fa pensare a un nodo di cravatta, una bestia cattiva, delle macchie di sangue, non so se viene dal papillon o dal nodo di cravatta, una bestia orribile”, “due animali che fanno parte dell’insieme che fanno l’aereo e il fiore, che uniscono” (op. cit. 3). Infine diamo questo esempio di un tossicomane epilettico che la sensorialità non mette per nulla al riparo da questo genere di deriva: “una luna, al centro, trattenuta dalle zampe dei pipistrello” (op. cit. 3).

Gli abissi hanno un fondo, dobbiamo ora sondarlo con l’intervento di Johannes, tossicomane di lunga data, dai delirio interpretativo ed ermetico invasivo, dal pesante terreno familiare stigmatizzato da disturbi psichici della madre, gli zii e il nonno materni. La psicosi è innegabile; forse si riconoscono ancora, tuttavia, amalgamate alle forze molto più devastatrici e inflessibili della dissociazione, le tracce di quello che abbiamo cercato di esporre precedentemente, in questi passaggi intermittenti del Rorschach, queste schiarite dove l’immagine, provvisoriamente più forte del delirio, arriva a cogliere una forma:

-Tavola II: (…) ora si direbbe dei piccoli (rosso)… questi che fanno le dighe perché c’è la coda, o che sbattono sulla ghiaccio, è lui allora che ha visto cambiare i suoi… (frasi in seguito incomprensibili).

-Tavola IV: (…) si direbbe due ragazzini, oh pff, due ragazzini-stivali, due ragazzini-piedi con due suole che superano, che sono troppo grandi.

-TavolaV: un insetto, ma piuttosto si è appena visto degli scarabei come a casa, una larva-farfalla con delle ali, dei tentacoli.

-Tavola VI: (…) Euh, questo, questo (si gira, si rigira, gira la testa) si direbbe pronto a decollare, questo è dello stress, questo è un piccolo aereo a reazione che trascina una grande farfalla-aliante stressata, la linea qui, è troppo, c’è da fare dentro, si direbbe che questo fa segno di paura, è qualcuno che ha dei problemi di identità, che ha paura, che ha disegnato questo.

-Tavola VII: (…) una tenaglia, una chiave inglese, una tenaglia in equilibrio con la mia filosofia di pensiero, una tenaglia per rompere le noci, siccome io sono garagista

-Tavola VIII: (…) Eh! Si trovano al Polo Nord, ma li ho visti che si suicidavano alla tele, non al cinema, delle piccole volpi, ma erano scure mentre queste sono piccoli cuccioli rosa (ride senza fermarsi), che si tuffano in avanti, che tengono un aereo, un deltaplano, oh no che… (silenzio, scoppia dal ridere, sfrega le mani), io vivo qua sotto (mostra le braccia della spicologa).

Il commento di questo Rorschach può essere lasciato al giudizio dello stesso Johannes, di cui Béatrice Wuilque ha fatto il punto di partenza della sua ricerca (op. cit. 4), quando dichiara nel bel mezzo dello stesso: “il tempo esiste solo nel pensiero che dirige il tempo”. La frase è bella ma l’idea che sostiene è fortunatamente contestabile, tranne per chi ne è vittima e la enuncia. Quello che dicono e dimostrano per contrasto i tossicomani, è che si possono trovare dei supporti temporali dell’immagine che non dipendono dal pensiero. L’esistenza dell’immagine suppone l’esistenza del tempo, non di un tempo cronologico dettato dal pensiero, ma una da una durata vissuta che la radica e la fa vivere. “chi passa non può abitare ”, osserva più esattamente Henri Michaux come insegnamento da un’esperienza forse all’inizio distruttiva della temporalità. “Ma la Mescalina diminuisce l’immaginazione, dice, castra l’immagine, la desensualizza. Fa delle immagini pure al cento per cento. Fa un laboratorio … Fa delle immagini così spoglie del rivestimento della sensazione e talmente visive, che sono il marciapiede del mentale puro, dell’astratto e della dimostrazione[9] (8, p. 64).

Altre conferme arrivano a corroborare questo punto di vista. E’ sorprendente constatare un insolita deriva verso l’astrazione, la schematizzazione, tanto naturalmente agli antipodi rispetto alla visione per immagini. Tutto accade a volte come se l’unico sviluppo permesso all’immagine si stabilisca sotto la pressione non più di forme concrete ma di un formalismo disincarnato. “L’immagine trova il proprio dispiegarsi solo nel pensiero”, riassume Brigitte Colbeaux-locquet (op. cit. 2), come in certe risposte di Jean-François: “ un fiore aperto al limite, questo corrisponde un po’ al cervello (bianco), con tutto un mucchio di petali”. Concepito diversamente, si potrebbe trattare qui di uno dei percorsi di brutale estinzione dell’immagine di cui Michaux ci offre molteplici descrizioni: sfogliando sotto l’effetto della droga un libro di zoologia in cui guarda degli animali, si accorge che “ con gli occhi chiusi, questi non sono più qui, si trovano decisamente esclusi. Nessuna ombra di una post-immagine. Appena fuori dalla mia vista, sembrano essere stati tagliati dal coltello(…) non li “trattengo[10]. A sostegno offriamo questo saggio dal Rêve Éveillé Dirigé di Jean-François che insiste su delle intermittenze tanto sorprendenti in quanto si introducono nel fuoco ardente, sonoro e dinamico di un’immagine sensoriale: “guarda le fiamme salire, i rami crepitano, queste scintille che spariscono in colpo solo, queste fiamme che salgono e scendono in un colpo solo[11].

Ascoltiamo ancora Henri Michaux: “Formo quindi un’immagine  o piuttosto due, quattro, in quanto non si sa quale abbia una chance d’essere accettata), una volta, due volte, tre volte… prende o non prende. In nessun caso si mantiene. Se essa si deforma  la si conserva (“si”: la parte spontaneamente immaginante del mio spirito in preda alla mescalina e sulla quale non ho alcun potere). Altrimenti l’immagine sparisce, con una velocità insolita e devo cercare di rifarla o di farne un’altra, che sfocerà in un rapido nulla o in una serie di trasformazioni, impasto sempre sorprendente, fatto di meccanizzazione e di una specie di folle retorica[12]. Se si comprende bene: il tossico crea una funzione immaginante artificiale che impone delle leggi sostitutive che non hanno più molto in comune con il potere delle immagini al naturale. Il costo del mantenimento delle “immagini” così fondate è la loro deformazione, cioè alla lettera un cambiamento di forma, unica alternativa alla loro immediata e totale abolizione. La loro sfilata è retta dalle ingiunzioni meccaniche dove la vera immagine perde la sua anima. L’origine delle tendenze ripetitive, quasi stereotipate, delle confabulazioni, le forzature d’immagini verso il racconto o l’astrazione, tanto fortemente presenti nel Rorschach dei tossicomani, è forse da ricercare qui.

Michaux esce dalla propria esperienza. Questo richiede un tempo ben più lungo di quello della diretta influenza del prodotto ingerito. Quello che lo colpisce al ritorno all’aria aperta, molti mesi dopo, è il ritrovamento e la riscoperta di una funzione nascosta: “La mia grande scoperta dopo la droga: la volontà. La vedo presente ovunque, me ne vedo pieno, la utilizzo ovunque e proprio dove meno ne facevo uso[13]. Una prova supplementare, senza dubbio, del tipo di effetti causati dall’intossicazione, cos’è la volontà in effetti se non la congiunzione realizzata dell’azione, cioè del desiderio in atto, e del tempo? Sia l’esame delle caratteristiche dell’immagine nei tossicomani che le attestazioni di coloro che hanno scelto di lavorare vicino a loro e di aiutarli mostrano come queste parole hanno un valore per una psicopatologia aperta ad una pratica concreta.

Arrivato a questo punto lo psicologo deve ugualmente considerare le implicazioni e gli interrogativi teorici dei fatti stabiliti attraverso le osservazioni e la loro analisi. Togliamo, innanzitutto, alcuni motivi di malinteso. L’esplorazione di Michaux non è la decadenza tossicomane: anche se con le sue conseguenze durature, l’esperienza del poeta resta circoscritta, provvisoria, la sua trascrizione è fatta da un uomo dalla riconquistata  disponibilità creatrice; la psichiatria e la psicopatologia ci hanno mostrato la diversa natura dei disordini acuti e di quelli cronici, con margine sufficiente perché i loro meccanismi non siano assimilati.

È senza confondere i due tipi di disordine che l’analisi psicopatologica deve prendere in considerazione l’apporto di Michaux in quanto permette di comprendere sul nascere un disturbo dell’immagine suscettibile di acquistare con la sua perpetuazione cronica altri aspetti e ripercussioni; l’esame dei pazienti tossicomani, lontano dalla fase acuta dell’assunzione della sostanza, indica ci sembra, una parziale corrispondenza con le inflessioni descritte da Michaux sulla dinamica dell’immagine e del funzionamento psichico.

Una riflessione vale per i punti comuni che abbiamo creduto di riconoscere nella costruzione dell’immagine, tra delirio e tossicomania. Nei due casi, l’instabilità e l’inconsistenza sono in gioco in modo prioritario.

In un altro contesto rispetto quello dei deliri e anche della patologia psichica, cioè nell’adolescenza, Michel Wawrzyniak ha mostrato come l’immagine si destabilizzava,  nelle forme meno gravi dell’alternanza o della virtualità in un momento transitorio dello sviluppo umano, quando il sentimento della realtà diventa vacillante. Se lo studio dei tossicomani apre un nuovo capitolo della psicopatologia del processo d’instabilità delle immagini, restano da stabilire, oltre alle leggi generali, le particolarità di ogni campo. Quello che ci ha particolarmente colpito nel caso della tossicomania – forse questo si potrebbe estendere ad altri disturbi esogeni – è la chiaroveggenza del paziente stesso, come i nostri esempi mostrano, sullo svolgimento del fenomeno di cui egli è la vittima. Nei deliri, le immagini scivolano, senza che il paziente mostri di fermarvisi o di esserne coinvolto; nella tossicomania, il disordine, la sua enunciazione e il suo handicap sono spesso affermati insieme. È quello che sottolinea a modo suo Michaux: “Avanzo ancora alla velocità di centinaia di momenti (coscienti) al minuto[14]. “Io deliro”, dice molto semplicemente un paziente di Brigitte Colbeaux-Locquet durante il suo Rorschach. Abbiamo qui uno dei fattori di differenziazione, non è impossibile.

Molto tempo dopo la sua avventura, Michaux ci confessa non senza umorismo: “Devo aggiungere questo? Vedo dei gatti nei rami più alti del giardino più spesso di quanti non ce ne siano realmente. Spesso, non c’è niente. A volte dei piccioni. Ho dovuto più di una volta prendere il binocolo tanto questi pseudo-gatti sono ben imitati[15]. Postumi del pericolo differito di un temibile veleno, fiamma di inquietudine di una coscienza al risveglio, allarme anche di un’infaticabile spia delle pieghe della vita psichica che ci apre dei percorsi.

 

Cerchiamo di trarne ora alcuni insegnamenti sulla presa in carico psicoterapeutica dei nostri pazienti o più semplicemente sugli atteggiamenti adatti ad un loro autentico ascolto e al loro affiancamento nella consultazione psicologica.

Nella vita psichica tutto accade come se l’immagine non bastasse a se stessa. Che sia attraverso le ipotesi di Taine, le testimonianze dei pazienti o per l’attenta trascrizione da parte di Michaux della sua “conoscenza dagli abissi” delle sostanze allucinogene, ognuno di questi contributi converge verso la concezione di un’immagine né autarchica né solipsistica; essa non si agglomera mai solo all’identico ma tende al contrario verso una cosa diversa dalla propria ripetizione o dal proprio sviluppo in circuito chiuso. Non solo si combina con altre immagini, ma questa combinazione le apre altre prospettive che la integrano a logiche diverse dalla sua, e in particolare quelle dell’idea, cosa che permette la messa in moto di un giro che va dal semplice farne prova alla conquista del mondo. È in questa prima accezione che si può considerare che l’immagine ha un senso, cioè che sembra obbedire, se non ad una intenzione, almeno ad una spinta verso una eterogeneità da sé che tuttavia è fondata sulla sua natura, generata dalla sua stessa materia. L’immagine tende verso qualcosa di diverso da sé, e non può esservi ridotta. In questa misura, appare portatrice e fornitrice di potenzialità creative nel senso forte del termine, cioè di inedito e di invenzione, di nuove relazioni. L’immagine garantisce il mescolamento, l’incessante rinnovamento dell’attività psichica che è la condizione del suo sviluppo, del suo mantenimento e della sua esistenza aldilà di una semplice permanenza. Essa testimonia così la vita e il suo vigore. Tranne ad inscriverlo in meccanismi associativi che non spiegano gran che, questo impulso rimane, bisogna riconoscerlo, tanto misterioso quanto l’iscrizione della vita nel vivente.

Come il mare che viene ad arenarsi sulla spiaggia l’immagine è “sempre ricominciata”, secondo la bella trovata poetica di Paul Valéry. Ricominciata o piuttosto rinnovata e ravvivata, quindi mai la stessa né ripetuta, se non a  rischio dell’intasamento e dell’apparizione subitanea o dello sprofondamento patologico secondo diverse forme: ruminazione dell’idea orfana di immagini nella deriva ossessiva, fissità dell’immagine paralizzata per sempre nella riviviscenza traumatica, offuscamento e disaffezione nel distanziamento depressivo, infrazione allucinatoria, accelerazione confusionale dell’onirismo o a seguito dell’ingestione esogena come ha dimostrato molto bene Henri Michaux nel corso delle sue prove speleologiche, caos o sostituzione con il suo contrario in vertigine interpretativa nel terrore e nell’angoscia delirante, ai limiti della sua assenza e della sua cancellazione assoluta nella catastrofe schizofrenica.

Fuori da questi disordini più o meno gravi e duraturi, l’immagine non si ripete, scivola, si intrufola, si apre un cammino a volte laborioso o difficile, si insinua, insiste, persevera ma non rimane né si installa nel senso di una domiciliazione compiuta e definitiva. Le immagini si manifestano meno con delle forme che con delle forze direzionate.

Il loro avvenire, la loro foce si trova naturalmente dalla parte dell’idea dove esse sono condotte a fondersi cambiando natura. Ma non è perché precede l’idea che l’immagine ne sia inferiore, destinata e condannata a sottomettersi ad essa. Essa mantiene una logica di costruzione e di sviluppo che resta una fonte di interesse e di presa sul reale. Essa rimane rispettabile e non merita disprezzo anche quando è chiamata ad una integrazione che la assorbe. “La nostra appartenenza al mondo delle immagini è più forte, più costitutiva del nostro essere rispetto alla nostra appartenenza al mondo delle idee”, dichiara Bachelard, uno dei suoi ardenti difensori, in un discorso su “ le rêveur éveillé ” . A questo titolo, l’esplorazione di questo “mondo delle forme” come amava chiamarlo Françoise Minkowska nella scia di Hans Prinzhorn, la sua attenta analisi e l’attenzione minuziosa al suo sviluppo con l’appoggio di metodi appropriati che lo sollecitano e ne conservano l’originalità, costituiranno sempre per lo psicologo un mezzo di scelta ed una via regia nel suo studio delle particolarità della personalità e dei suoi disturbi.

Con la rappresentazione della vita psichica si è esercitata la stessa errata assimilazione di quella dell’Uomo nella famigerata “scala filogenetica”, nel considerare l’immagine inferiore all’idea, o almeno una tappa da superare verso il pensiero che raggruppa e trascende il crogiolo delle immagini, a causa del fatto che essa si manifesta necessariamente alla base della sua elaborazione. Per analogia, l’uomo è stato a torto percepito come il punto di compimento e dunque alla sommità e il massimo dell’evoluzione mentre non è che uno degli anelli in parallelo e in uguaglianza, da questo punto di vista, con il più insignificante dei batteri. Questo non significa evidentemente, che si debbano trattare gli uni e gli altri in modo uguale sul piano morale o anche ideologico.

La base di una pratica psicoterapeutica ben compresa, e soprattutto ben condotta, si appoggia su questo rispetto dovuto all’immagine e alle sue proprie necessità, questa fiducia accordata ad essa nonostante la pressione del registro razionale per continuare ad affermarsi da una parte e dall’altra – dalla parte del paziente come del clinico – e il suo insuccesso in questo campo: è in effetti nozione comune che la forza di convinzione, la pressione di un ragionamento tesi a “raddrizzare” un delirio, un’ossessione, una allucinazione, una sindrome depressiva, restano disperatamente vani.

Per esempio dove potrebbe essere il suo aiuto ed il suo rimedio speculativo nella più banale storia di smarrimento amoroso, estremamente carico di immagini intense ? La convinzione delirante manterrà sempre l’ascendente sulla semplice convinzione, e le misure di rassicurazione resteranno sempre sterili sull’angoscia, l’autosvalutazione o i sentimenti d’indegnità o di vuoto derivati da un contesto esistenziale e ancora più patologico. E’ una delle ragioni che mi hanno portato a dire che con il mio ingresso nel campo della clinica ho dovuto decidermi ad abbandonare una gran parte delle mie iniziali trionfali pretese nella padronanza del gioco degli scacchi poiché risultava del tutto inutile nel comprendere e nell’agire nel mondo dei sintomi psicopatologici o anche delle sottigliezze, le contraddizioni, gli ondeggiamenti e le iridescenze dell’attività psichica. E’ sull’ambiguità costitutiva dell’immagine che si fonda la sua ricchezza passata, presente e in potenza; è la sua complessità e la sua apertura che le offre e ci offre l’occasione e la speranza di un futuro sempre rimaneggiato. Aiutare qualcuno o anche semplicemente prendersene cura, è in principio dare fiducia al singolare capitale delle sue immagini e rappresentazioni. E’ così che oserà accordarla a se stesso e potrà appropriarsene e rivendicarla a sostegno della propria costruzione sia identitaria che storica, se non è un pleonasmo. Seguire qualcuno è accettare di vivere e condividere una coabitazione d’immagini.

 

 

 

 

 



[1]

                        [1] Z. Helman: Délire et vision en images, Toulouse, éd. Eres 1984.

 

[2]

                        [2] M. Ternoy: Rorschach, Rêve Eveillé dirigé et expression grapho-picturale dans l’étude phénoméno-structurale des hallucinations, Thèse pour le Doctorat ès Lettre set Sciences Humaines, Université de Lille III.

 

[3]

                        [3] Cf J.-M. Barthélémy: “envie d’images, d’images en vie – Eléments pour une psychopathologie de l’image chez  le toxicomane” in: Psychologues et Psychologie, Le psychologue dans le champ de la toxicomanie, Bulletin du Syndicat National des Psychologues, N°96, juillet 1990.

 

[4]

                        [4] (1) Laurence Payen, Altérations de la vision en images sur un mode prédélirant chez des toxicomanes; (2) Brigitte Colbeaux-Locquet, Abord psychologique de l’imaginaire du toxicomane; (3) Jean-Pierre Montel, Abord des conduites toxicomaniaques à partir du Rorschach; (4) Béatrice Wuilque, Observation de toxicomanes délirants et non délirants: temps et espace vécus, représentation de soi.

 

[5]

                        [5]  Op.cit, p. 158

 

[6]

                        [6] H. Michaux: L’infinit turbulent, Paris, Mercure de France, 1957, éd. Revue et augmentée 1964, p. 11

 

[7]

                        [7] H. Michaux: Misérable miracle, Paris, Gallimard, 1972, P.80

 

[8]

                        [8] op.cit. P. 101

 

[9]

                        [9] H. Michaux: Misérable miracle, Paris, Gallimard, 1972, p.64

 

[10]

                        [10] H. Michaux: id. , p. 39

 

[11]

                        [11]  ibid.

 

[12]

                        [12] H. Michaux: L’infinit turbulent,op. cit. pp.84,85

 

[13]

                        [13] H. Michaux: Misérable miracle, op.cit. pp.87, 88.

 

[14]

                        [14] H. Michaux: L’infinit turbulent, Paris, Mercure de France, 1957, éd. Revue et augmentée 1964, p. 60

 

[15]

                        [15] H. Michaux: L’infinit turbulent, op. cit. P. 88