Rilfessioni sui linguaggi del corpo a partire dall’approccio fenomenologico di alcuni disturbi della sfera digestiva

image_pdfimage_print
Immaginario: studi e ricercheJean Marie Barthelemy

Conferenza al Gruppo Italiano per le Tecniche Psicoterapiche d’Imagerie Mentale

Treviso 22 e 23 maggio 2009

Jean-Marie BARTHÈLÈMY

Professore di Psicopatologia e Psicologia clinica

all’Università di Savoia Francia

 

Risulta sicuramente impossibile, nel il tempo di cui disponiamo qui, tracciare storicamente l’insieme di concezioni filosofiche, mediche, psicologiche che articolano o separano i registri del corpo e dello spirito. I pochi riferimenti iniziali che ricorderò hanno lo scopo di illustrare, saltando le epoche, le teorie e gli autori, alcune tappe nei modi di porre il problema della difficile e complessa coabitazione tra questi due registri.

 La dipendenza delle concezioni psicologiche nei confronti di modelli filosofici riguardanti le relazioni tra soma e psiche è solo questione d’eredità, semplicemente nel senso che l’innegabile anteriorità della filosofia sulla psicologia obbliga la seconda ad assoggettarsi alle riflessioni della prima  o almeno a prenderle in considerazione per la sola questione cronologica o di una giusta precedenza. Le questioni poste dalla filosofia, per quanto teoriche, non sono meno collegate a dei problemi concreti e fondamentali, presenti negli sviluppi più contemporanei di un approccio psicologico che non ha mai smesso, apertamente o implicitamente, di riferirvisi. Partire da queste basi non è solo rispettare una Storia delle idee e del loro progresso, ammesso che esista in questo campo, significa considerare delle questioni fondamentali, importanti a più titoli ma anche costitutive di un nucleo di realtà che insieme insiste e resiste a volersi formulare con chiarezza.

 La psicologia di oggi  che lavora a contatto di pazienti colpiti da un sintomo “funzionale”, come i medici lo chiamano attualmente, cioè da disturbi a cui “manca” un’oggettivazione, un substrato organico percepibile, da una lamentela dunque non circoscritta da un’appartenenza semiologia, ivi compresa psichiatrica, cozzerà contro una duplice confusione: quella del corpo medico disorientato  da una sofferenza che non può identificare, quella di un gruppo di pazienti che le ingiungono di scegliere tra la denominazione e la localizzazione di una lesione  o la sua attribuzione ad un disordine psichico a cui il malato non ha nessun motivo di rassegnarsi più che di accettarlo. “Trovi presto cos’ho e me lo mostri, o altrimenti dica che sono matto!”, ci supplicherà così la gran parte di queste persone che soffrono incontestabilmente, inviati da medici che, implicitamente o esplicitamente, li hanno congedati dopo aver fatto capire che il loro problema era “nella loro testa”.

 In una forma espressa drammaticamente e altrettanto difficile da prendere in carico, queste questioni appaiono in continuità problematica con quelle poste in altri registri dalla filosofia e poi dalla psicologia.

 La filosofia di Platone (~428- ~348), separando le acque del mondo sensibile e del mondo intelligibile, crea un’opposizione, un dualismo ontologico sia tra il corpo e l’Idea sia tra il corpo e l’Anima. Le pareti della caverna assomigliano molto a quelle della nostra corporeità che impedisce l’accesso al mondo delle Idee o lo relega alla sua reminiscenza. Ma questa separazione è nello stesso tempo una gerarchia, che colloca l’Anima o l’Idea non solo separatamente ma anche al di sopra del corpo. In Alcibiade,  dopo essersi domandato cosa dell’anima, del corpo o dell’insieme dei due può definire l’uomo, Socrate,  dopo alcuni ragionamenti veloci sull’autorità che ciascuno di questi fattori può esercitare sugli altri, fa convenire ad Alcibiade che l’uomo può definirsi solo essenzialmente per la sua anima: “Allora, dal momento che  l’uomo non è né il corpo, né l’insieme dei due, resta io credo, o che l’uomo non sia niente o invece se è qualcosa, che l’uomo non sia nient’altro che un’anima” ( Alcibiade, 129- 131).

 La tesi di Aristotele ( ~384-~322), per ragioni dovute sia alla fedeltà parziale al suo maestro e ai rimaneggiamenti successivi del suo pensiero, non arriva ad una definizione così netta, anche se finirà per opporsi radicalmente a quella di Platone: “ in un primo momento (Eudemo, Protreptico), Aristotele descrive il rapporto dell’anima e del corpo come una giustapposizione contro natura; in una fase intermedia, considera il corpo come uno strumento dell’anima, che sta al corpo come il capitano alla nave; infine nel trattato Dell’Anima,  fa un passo in più nel senso di un’ unità sostanziale dell’anima e del corpo, facendo dell’anima la forma del corpo” (P. Aubenque, Encyclopædia Universalis, article Aristote). Queste rappresentazioni successive, in uno stesso autore, delle relazioni tra l’anima ed il corpo, corrispondono  a delle opposizioni che si possono ritrovare tra differenti autori o differenti epoche. E’ soprattutto l’ultima concezione d’Aristotele, che considera l’anima ed il corpo come dipendenti da una stessa sostanza, che sarà ritenuta come la più decisiva tra tutte, senza dubbio perché è la più lontana dalla tesi platonica che manterrà  costantemente la loro diversità.

 A due millenni di distanza, il dibattito riprenderà su delle basi in parte protratte tra Cartesio (1596- 1650) e Spinoza (1632- 1677). Mentre Cartesio svilupperà la differenziazione tra l’anima ed il corpo, che sembra, nella sua definizione, largamente affine a quella di Platone, le concezioni più unitarie di Spinoza si avvicineranno in modo ostentato all’ultima concezione di Aristotele.

 Nella tradizione del dualismo cartesiano, la distinzione tra materia e spirito è fondamentale: “ io non sono, proclama Cartesio, questo assemblaggio di membra che si chiama corpo umano”.  L’esempio dei bambini o dei folli nei quali, a suo parere, il pensiero apparirebbe limitato o debole non costituisce una prova dei legami di continuità, d’integrazione o disintegrazione della realtà spirituale con la realtà corporea. “ Per il fatto che la facoltà del pensiero sia assopita nei bambini e che nei folli non sia in verità spenta, ma disturbata, non bisogna pensare che essa sia talmente attaccata agli organi corporali da non poter esistere senza di essi. Infatti per il fatto che vediamo spesso che è impedita da questi organi, non significa affatto che sia prodotta da essi.” (Discours de la  méthode, P. 206, citato da David le Breton, Anthropologie du corps et modernité, PUF, 1990, P.69). La definizione dell’Uomo come unione di un’anima e di un corpo impone un dualismo metodologico che obbliga ad interrogarsi su ciascuno di questi due componenti  prima di essere in grado di parlare di tale unione; si osserva così che le sostanze del corpo e dell’anima obbediscono a due ordini, due principi eterogenei  che governano separatamente la materia e lo spirito, l’estensione ed il pensiero. L’opposizione dei registri è messa in rilievo: “ C’è una grande differenza tra lo spirito ed il corpo, in quanto il corpo , per sua natura, è sempre divisibile, mentre lo spirito è del tutto indivisibile” (Méditations métaphysiques, meditazione sesta).

 Così per Cartesio quattro criteri circoscrivono la realtà corporea: L’estensione, la figura, la situazione ed il movimento. “Per corpo, intendo tutto ciò che può essere finito da qualche figura, che può essere compreso in qualche luogo, e riempire uno spazio in modo tale che ogni altro corpo sia escluso; che possa essere percepito, o attraverso il tatto, o con la vista, o con il gusto, o con l’odorato; che possa essere mosso  in  vari modi, non da solo, ma con qualcosa di diverso da cui venga toccato, e di cui riceva l’impronta” ( Méditations métaphysiques, meditazione prima). Gli oggetti o i corpi che ci circondano possiedono così un’estensione ed una collocazione nello spazio, una forma determinata e limitata, una capacità di muoversi o di essere mossi, cosa che li differenzia in modo fondamentale dalle realtà spirituali. La corrispondenza intrattenuta da Cartesio con la Principessa Elisabetta di Boemia gli offrirà l’occasione di precisare in un modo concreto e pedagogico la sua concezione dell’unione dell’anima e del corpo a cui attribuisce un luogo di congiunzione nella ghiandola pineale: “ L’anima non si concepisce che attraverso l’intelletto puro, il corpo, cioè l’estensione, le figure ed i movimenti, si possono anche conoscere attraverso il solo intelletto , ma molto meglio attraverso l’intelletto aiutato dall’immaginazione; ed infine le cose che appartengono all’unione dell’anima e del corpo, non si conoscono che oscuramente attraverso il solo intelletto, e neanche attraverso l’intelletto aiutato dall’immaginazione, ma esse si conoscono molto chiaramente attraverso i sensi” ( Lettre IV ad Elisabetta, 21 marzo 1643).   

 La riabilitazione delle sensazioni in una filosofia che mette al primo posto il cogito può essere sorprendente. Sono tuttavia queste che permettono di uscire da un dualismo che aveva sicuramente un senso ed una funzione nella scomposizione analitica, di cui però Cartesio coglie la totale debolezza ed inefficacia a confronto con le nostre esperienze intime più elementari. L’unione dell’anima e del corpo è così reintrodotta da lui in una rappresentazione “fenomenologica” ante litteram, molto più concreta ed apparentemente prosaica – insiste per dire che parla con molta serietà – dove il rigore e la forza dell’analisi e del pensiero non si rivelano più di nessun aiuto: “ è  solo attraverso la  vita e le conversazioni ordinarie ed astenendosi dal meditare e studiare sulle cose che esercitano l’immaginazione, che si impara a concepire l’unione dell’anima e del corpo” (id).

 Questa tradizione di differenziare per natura la materia e lo spirito resterà prevalente al momento della fondazione della psicologia, essa le fornisce, pur senza legittimità, le condizioni della sua fondazione, della sua indipendenza e del suo orientamento come specializzazione; essa pone il proprio campo all’inizio come un tentativo per comprendere l’insieme dei fenomeni dell’attività psichica lasciando alle altre scienze il compito di interessarsi alla conoscenza ed alle cure del corpo. Ma anche in Cartesio questa separazione corrisponde ad un grande scarto tra il corpo e l’anima, ad un frammentare  di cui è consapevole ed egli è costretto a riconoscere il sentimento di solidarietà e di unità che la nostra esperienza intima quotidiana rileva: “ Non nego tuttavia, che questo stretto legame dello spirito e del corpo che sperimentiamo ogni giorno non sia il motivo per cui non scopriamo facilmente e senza una profonda meditazione la distinzione reale che esiste tra l’uno e l’altro” (Méditations métaphysiques, 118-119 citè par David Le Breton, Anthropologie du corps et modernité, PUF, 1990, P. 71) . La demarcazione è mantenuta in Cartesio al prezzo della riflessione e dell’astrazione e non a partire dai sentimenti o sensazioni che possiamo provare.

Anche se la storia ha soprattutto mantenuto come centrale la posizione di Cartesio in questa maniera tanto particolare di stabilire una separazione radicale tra lo spirito e l’anima da cui, secondo lui, esso procede e che è generata dal divino, la sua posizione, a condizione di non farne una caricatura, è meno binaria di quanto non la si rappresenti generalmente e raggiunge, per certi aspetti quella di Platone percepito tuttavia come l’inventore di una delle prime filosofie idealiste, di cui alcune citazioni come quelle del Timeo indicano un rapporto più dialettico tra l’anima ed il corpo:”Non c’è che un mezzo per la salute: non esercitare l’anima senza il corpo, né il corpo senza l’anima” (Timeo, 88b cité par Dagognet, Le corps, multiple et un, P. 26).

All’idea di una dicotomia di base tra il corpo  e lo spirito  in Cartesio, s’oppone una teoria di una loro unità sostanziale in Spinoza (1632 – 1677). La sostanza è secondo lui insieme unica ed infinita, perfettamente concreta ed immanente; essa non fa che realizzarsi, spiegarsi nei suoi attributi e modalità d’espressione diversificate. La concezione dell’Anima si incarna in qualche modo in un atto di cui il corpo è portatore; “L’oggetto dell’idea che costituisce l’Anima umana è il Corpo, cioè un certo modo dell’estensione esistente in atto e non è nient’altro”, scrive Spinoza nella sua Etica (seconda parte, “ Sulla natura e sull’origine dell’anima”,  proposizione XIII). Così come lo riassume Robert Misrahi, per Spinoza “ la realtà umana non è l’unione di un’anima e di un corpo distinti, ma l’esistenza unitaria di un individuo. Esso è simultaneamente un corpo (modo finito ed individuato dell’Esteso) ed uno spirito (modo finito ed individuato del Pensiero); inoltre e soprattutto questo ‘spirito umano’  (mens umana et non anima) è ‘l’idea del corpo’,  idea corporis, cioè la coscienza del corpo. Il termine ‘coscienza’ non è esattamente spinoziana, ma esprime bene il senso del termine ‘idea’ ” (Robert Misrahi : “ L’unité substantielle du corps et de l’esprit chez Spinoza et ses conséquences pour une éthique contemporaine”, in: Corps, Âme, Esprit, colloqui de Cerisy EDK, 2000, P.133).

La porta è spalancata per l’emergere di una psicologia che, emancipata da una parte dalla fisica e dalla medicina a cui ha lasciato la conoscenza dei corpi, e dell’altra dalla metafisica che continuerà la riflessione sull’ “Anima”, potrà consacrarsi allo studio del pensiero  in quanto inscrizione in una coscienza e realizzazione in un’azione individuali o collettive. Dal XVIII° all’inizio del XX° secolo, la psicologia che ne risulterà, sia che proceda dalla scuola filosofica empirista ed associazionista inglese o dalla scuola sperimentale tedesca o anche da entrambe, manterrà a lungo un orientamento intellettualizzante: la vita psichica, spesso ridotta all’espressione dei funzionamenti del pensiero e dell’intelligenza, verrà decomposta  e ricomposta  in mille maniere a partire da quella che è considerata come sua base o  suo nucleo, la sensazione. Riappropriandosi del campo della psiche, la psicologia si condannerà per molto tempo alla presa di distanza dal corpo in un approccio meccanicista ed elementarista della vita psichica, applicandovi paradossalmente una capacità di divisibilità che Cartesio riservava nella sua stessa definizione al registro corporeo.

 Un po’ più tardi e sulla stessa linea, un filosofo e medico profondamente materialista come Julien Offroj de la Mettrie (1709 – 1751) autore di un’ opera  il cui titolo annuncia tutto un programma L‘Uomo-Macchina, (1748) si accorge, meno in ragione della sua doppia formazione e più profondamente a partire da una malattia che lo colpisce personalmente (i filosofi e gli psicologi cominciano a pensare meglio  quando questo gli accade!), cioè in funzione di una sua personale esperienza umana , che una malattia organica può colpire le sue facoltà psichiche; l’anima ed il corpo, in questo ricercatore del tutto convinto dei principi e delle tesi materialiste al punto da dover esiliarsi, sono colti nelle loro interrelazioni particolarmente in anticipo sul suo tempo: “ I diversi stati dell’anima sono sempre correlati a quelli del corpo”. Tuttavia La Mettrie privilegia naturalmente, in funzione delle sue concezioni, la direzione  in un senso piuttosto che in un altro: è il corpo che ha priorità per influenzare l’attività spirituale o psichica, si direbbe oggi, mentre le capacità d’influenza dello spirito sul corpo sono percepite come trascurabili se non nulle: “niente di tanto limitato quanto l’influenza dell’anima sul corpo, e niente di tanto esteso quanto l’influenza del corpo sull’anima”. Non siamo ancora, lontano da qui, nelle rappresentazioni di una medicina più tardiva  e contemporanea che comincerà ad ammettere, attraverso le posizioni  psicosomatiche, le incidenze dell’attività psichica sulla formazione o il divenire di sintomi somatici. La Mettrie è uno dei primi  a servirsi delle alterazioni accidentali per lesione nell’uomo o provocate nell’animale per basarvi le sue dimostrazioni. Si serve delle palpitazioni osservate a volte durante un lungo periodo dopo che un organo sia separato dal corpo ( un cuore di rana per esempio) per dimostrare che il movimento non è il fatto dell’anima come si diceva coralmente; basandosi sulla propria esperienza personale della malattia, mostra come, secondo le circostanze essa può diminuire, acutizzare o estendere alcune delle nostre facoltà o funzioni psichiche.

 In campo medico, giustamente, è Michel Foucault che indica nel suo libro Naissance de la Clinique (PUF, Galien 1963) che il passaggio da una medicina clinica fondata unicamente sull’osservazione, che non tocca i suoi pazienti, ad una medicina anatomo-clinica si fa attraverso il tramite della dissezione dei cadaveri e dell’anatomia patologica (di cui Bichat 1771-1802 è il primo rappresentante), dalla prevalenza dell’occhio e dello sguardo, dal colpo d’occhio come strumento privilegiato al dito, all’indice che mostra poi palpa ed esplora la superficie ed inseguito le profondità del corpo con l’aiuto dello scalpello che lo prolunga.

 Dei tentativi di reintrodurre il corpo avranno luogo anche durante questo periodo in psicologia, di cui il più emblematico è senza dubbio quello di Fechner (1801-1887) che cerca di stabilire una formula matematica tra l’eccitazione e la sensazione corrispondente e fondare così una “psicofisica” che egli definisce come “la teoria esatta dei rapporti tra l’anima ed il corpo ed in una maniera generale, tra il mondo fisico ed il mondo psichico”. Essi non attenuano minimamente, anzi ben al contrario, le tendenze meccaniciste largamente prevalenti.

I poeti in questo periodo, ci parlano a modo loro di questa ambiguità del corpo, in particolare del nostro e di quello dell’essere amato quando arrivano a scoprirsi ed a indifferenziarsi sotto la minaccia della morte e della decomposizione; uno dei più illustrativi è senza dubbio quello di Charles Baudelaire che suscitò molte reazioni che non si possono ridurre a delle repulse:

 Una carogna

  

Ricordi tu l’oggetto, anima mia, che vedemmo quel mattino d’estate così dolce? Alla svolta d’un sentiero un’infame carogna sopra un letto di sassi,

 

le gambe all’aria, come una femmina impudica, bruciando e sudando i suoi veleni, spalancava, con noncuranza e cinismo, il suo ventre pieno d’esalazioni.

 

Il sole dardeggiava su quel marciume come volendolo cuocere interamente, rendendo centuplicato alla Natura quanto essa aveva insieme mischiato;

 

e il cielo contemplava la carcassa superba sbocciare come un fiore. Il puzzo era tale che tu fosti per venir meno sull’erba.

 

Le mosche ronzavano sul ventre putrido donde uscivano neri battaglioni di larve colanti come un liquame denso lungo gli stracci della carne.

 

Tutto discendeva e risaliva come un’onda, o si slanciava brulicando: si sarebbe detto che il corpo gonfio d’un vuoto soffio, vivesse moltiplicandosi.

 

E tutto esalava una strana musica, simile all’acqua corrente o al vento, o al grano che il vagliatore con ritmico movimento agita e volge nel vaglio.

 

Le forme si cancellavano riducendosi a puro sogno: schizzo, lento a compiersi, sulla tela (dimenticata) che l’artista condurrà a termine a memoria.

 

Dietro le rocce una cagna inquieta ci guardava con occhio offeso, spiando il momento in cui

riprendere allo scheletro il brano abbandonato.

 

- Eppure tu sarai simile a quell’immondizia, a quell’orribile peste, stella degli occhi miei, sole della mia natura, mia passione, mio angelo!

 

Sì, tu, regina delle grazie, sarai tale dopo l’estremo sacramento, allora che, sotto l’erba e i fiori grassi, andrai a marcire fra le ossa.

 

Allora, o bella, dillo, ai vermi che ti mangeranno di baci, che io ho conservato la forma e l’essenza divina di tutti i miei decomposti amori.

 

Charles Baudelair, Les Fleur du Mal, 1857

Trad. Attilio Bertolucci, Garzanti 1975

 

 

Ognuno a modo suo, Cartesio e Baudelaire,  da filosofo o da poeta, ci ricordano lo iato tra la manifestazione della nostra coscienza e quella della nostra appartenenza materiale, l’incarnazione della nostra presenza umana in un corpo limitato nello spazio e finito nel tempo. Cartesio si rifiuta di mettere sullo stesso piano, di trattare nello stesso modo lo spirito venuto dall’anima cioè, secondo lui, emanazione divina, e la nostra apparenza, la nostra costituzione fisica; ciascuno deriva da un ordine differente. Baudelaire insieme realista e lucido attraverso la descrizione spinta della sua carogna e la prospettiva che essa rappresenta per il nostro proprio annientamento, ma anche idealizzando il divenire della sua beneamata con il ricordo simbolico della sua presenza al di là della sua morte, oscilla tra due atteggiamenti che non sono soddisfacenti. Notiamo di passaggio che nel poema è l’amata che lo precede in questa distruzione annunciata ed irrimediabile; in un gesto derisorio di difesa ultima e di cortesia della disperazione, si accorda ancora il sussulto ed il rinvio di sopravvivere in spirito a colei che egli ama per accontentarsi della sua essenza in un miscuglio d’ironia, di causticità e forse di cinismo.

 Ogni riferimento al corpo quindi, che sia attraverso la filosofia, la poesia o la psicologia rinvia immediatamente, sotto varie presentazioni alla questione della contraddizione  o della necessità di cogliere l’articolazione tra materialità ed immaterialità, tra posizione soggettiva ed oggettiva nel proprio modo di percepire se stessi e di percepire gli altri.

 Ma è soprattutto nella prima metà del XX° secolo che la questione dell’articolazione dello psichico e del somatico riprenderà una nuova attualità.

 In psicanalisi essenzialmente a partire da due concetti introdotti da Freud (1856- 1939), uno teorico quello di “pulsione”, l’altro insieme sintomo e meccanismo, la “conversione” isterica. Entrambi includono nella loro definizione l’idea di un tramite tra il corpo e la vita psichica: la pulsione è descritta come “un concetto – limite tra lo psichico ed il somatico” (Tre Saggi sulla teoria della sessualità ), la conversione  come “salto dallo psichico nell’innervazione somatica”.

 La Psicologia del bambino, in ragione del suo orientamento “genetico”, come la si qualificava alle sue origini, non può, a causa di questo riferimento evolutivo, passare sotto silenzio che l’esame dello sviluppo del bambino comporta necessariamente  uno studio incrociato ed interdipendente delle trasformazioni psichiche e fisiche  di cui è testimone. Lo statuto dell’emozione, insieme radicata nella biologia ed alla base della vita affettiva, sembrerebbe uno dei migliori intermediari  per cogliere concretamente i rapporti dialettici che uniscono il corporeo e l’attività psichica. Henri Wallon (1879-1962) ricorda che, sul solo piano organico, l’emozione sembrerebbe complessa perché implica due livelli ‘attivazione dei centri nervosi, il cervello centrale che dirige la vita vegetativa ma anche il cervello frontale  che regola con maggiore flessibilità e modulazione l’insieme del sistema espressivo e socializzato dei nostri atteggiamenti.

 Il comportamento del bambino davanti allo specchio, confrontato specialmente a quello delle scimmie superiori, diventa anche l’occasione di vedere all’opera il modo in cui si conquista la rappresentazione insieme differenziata , specifica ed unitaria di sé a partire dall’immagine del proprio corpo riflesso e dalla relazione con l’altro. Come mostrerà all’inizio Wallon, ripreso con il successo che sappiamo da Jacques Lacan (1901-1985) nel suo “stadio dello specchio”, esso innalza la questione neurologica posta dalla costruzione dello schema corporeo e delle sue alterazioni patologiche possibili fino a quella della rappresentazione del proprio corpo e dell’immagine di sé, che non derivano più solo da un’edificazione somatica ma in essa sono integrate delle componenti di ricostruzione psicologica coscienti ed inconsce tratte dalla soggettività psichica.

 La Phénoménologie de la Percetione di Merleau-Ponty (1908-1961), al confine della filosofia e della psicologia, riprende le suggestioni di Cartesio sull’unione dell’anima e del corpo inserendole nel contesto più contemporaneo di una definizione della coscienza , della vita, dell’esperienza complessa temporo-spaziale e dell’esistenza vissuta soggettivamente, come questo estratto riassume: “L’unione dell’anima e del corpo non è sigillata da un decreto arbitrario tra due termini esteriori, uno oggetto , l’altro soggetto. Essa si compie ad ogni istante nel movimento dell’esistenza” (P. 105) o in modo ancora più ristretto: “la coscienza è l’essere nella cosa tramite il corpo” (P. 161). E’ Eugène Minkowski (1885-1972) che, nella stessa linea ed alla luce di tutta la sua pratica psicopatologica, insisterà sulla necessità di differenziare il corpo e l’organismo sottolineando, molto giustamente,  che io posso dire “il mio corpo” ma non “ il mio organismo”. “Il corpo è soggetto a lesioni che colpiscono una o l’altra delle sue funzioni; l’organismo sottolinea di più il funzionale e la sinergia”, scrive, indicando che l’organismo “ riguarda più da vicino la ‘vita’, nella sua unità  ed il suo dinamismo innato, di quanto non faccia il corpo” (Traité de Psychopathologie, P. 207-208).

 Avremmo bisogno non solo di tempo ma anche di prospettiva per delineare un panorama dell’esplosione di queste nozioni in un periodo più vicino ai nostri interessi recenti ed attuali. Apparirebbe necessario fare delle descrizioni e delle differenziazioni comprensive, come ci insegna la nostra stessa esperienza nel campo dei disturbi funzionali o “criptogenetici” della sfera digestiva. Queste si fondano tra le altre sulla natura delle lamentele sia corporee che psichiche  e dei quadri sintomatologici associati la cui complessità nel differenziarli pone dei grossi problemi tanto alla medicina che alla psicologia  e che non si può circoscrivere unicamente con il concetto rimodernato di “psicosomatica” . E’ da sottolineare  che la loro chiarificazione conduce a delle modalità aggiornate d’articolare  i rapporti e le interazioni che uniscono  il corpo e la vita psichica, in modo che una loro migliore comprensione teorica possa anche contribuire  e sfociare nel miglioramento della presa in carico delle modalità di espressione della loro sofferenza.

 Da una quindicina d’anni, sono in contatto, in un servizio d’epato-gastro-enterologia del Centre Hspitalier Universitaire de Grenoble, con numerosi pazienti sofferenti di una sintomatologia dolorosa senza supporto organico identificabile, di fronte ai quali i medici si sentono privi di mezzi in ragione d’una incapacità sia di trovare loro una corrispondenza con una nosografia solita, sia di collegarli ad un danno o ad una disfunzione  somatica accertata, sia di rispondere alle sollecitazioni spesso insistenti di questi pazienti, sia di trovare delle risposte alle loro domande così come un orientamento per la presa in carico della loro sofferenza. Queste persone giungono al servizio o per un bilancio dopo uno sforzo infruttuoso e scoraggiante dei medici curanti, o vi ritornano per dei dolori o dei malesseri più o meno invalidanti, intensi e costanti, comparsi poco dopo un intervento chirurgico benigno  o di routine,  dallo svolgimento senza storia e senza particolari complicazioni. Ci troviamo così a confronto con dei disordini che evocano, nelle loro apparenze e manifestazioni, nel cuore della sfera digestiva, la sindrome post-traumatica dei traumatizzati cranici altrimenti qualificata come “sindrome soggettiva” dai neurologi, certamente con l’inconveniente di considerare come oggettivo e quindi rispettabile solo quello che era stato identificato come tale dall’autorità medica o più largamente scientifica, cosa che fu una delle ragioni che condussero ad abbandonare questo appellativo, ma con il vantaggio su cui forse non si è insistito abbastanza, d’introdurre ed inscrivere la soggettività al centro della valutazione  e del vissuto sintomatico, cosa che non dovrebbe lasciare indifferente, nel senso più ampio del termine, nessuno psicologo. I pazienti si lamentano così di disturbi digestivi, di dispepsie, disfagie, rigurgiti acidi, meteorismi, sensazioni di pesantezza, gonfiori fastidiosi, dolori tipo bruciori – esofagei, gastrici, epigastrici o intestinali – disturbi del transito, chiaramente tutti ribelli  ai trattamenti sintomatici abituali che siano antalgici, antiacidi, ormonali, fino ad arrivare agli oppiacei; spesso i malati incontrati li hanno utilizzati a lungo  e continuano a farlo pur lamentandosi della loro inefficacia.

 Attraverso un primo esempio, tratto da un incontro clinico con una donna di una trentina d’anni, vorrei indicare brevemente come le elaborazioni di questi pazienti riflettono delle disposizioni ed agitazioni psichiche, lontano da ogni modello teorico e con la sola preoccupazione di  una profonda aspirazione dell’autore ad inscriversi autenticamente nell’esistenza e nella sua propria storia. Si pone proprio al centro di una serie di sogni da cui estrarrei una sequenza rispettando le frasi raccolte testualmente, le insistenze, le mancanze e le ripetizioni, tanto rivelatrici della complessità e del brancolamento tipico di tutte queste realtà evocate  precedentemente e sulle quali  la linguistica, la filosofia  o la psicologia non se la cavano necessariamente meglio.

Ecco la traccia di sogno: “ non mi vedo ma vedo solo le mie mani. Ho un pacchetto nelle mie mani, come della carne che si mette sotto vuoto e poi bisogna metterla nell’acqua perchè questa riprenda forma. Allora, è quello che ho fatto ed… infatti, è strano che questo succeda cosi velocemente. La metto nell’acqua e poi sta riprendendo forma, si sta gonfiando… e mi accorgo in fatti che questo prende la forma di un bebé tutto ripiegato e allora galleggia nell’acqua, ma il dorso girato verso di me, cosa, e poi è … come quando un corpo galleggia, si rigira, poi là si rigira e poi in fatti… infatti…, trovo che mi assomiglia, allora questo mi fa piacere, e sono contenta e poi mi avvicino e lo prendo nelle mie mani e… all’inizio lo guardavo con un… alla fine,  lo prendo nelle mie mani e poi penso che… ho l’impressione che sorrido  e dopo vedo il suo viso ed infatti… euh, beh, mi accorgo che sono io. Questo bebè, ha la mia testa come quando ero bebè, ed è orribile, è come un mostro in fatti, tuttavia lo trovavo carino all’inizio. In fatti all’inizio, nel mio sogno, è come se  euh… era una nuova ricetta  per partorire, come si mette un sacchetto , si apre, si mette dell’acqua e questo diventa un piatto da mangiare […]   Non vedo come questo potrebbe essere il mio bambino […] è come se avessi partorito me stessa.”

 L’aforisma di Freud secondo cui “ il sogno è un adempimento del desiderio” può generare schiere di delusi se s’intende per “adempimento” la realizzazione effettiva ed attuale di una azione che continua “in fatti” – come va martellando tanto spesso questa paziente – ad intravedersi in una prospettiva  che ci precederà sempre. In una superba condensazione, questo sogno oscilla tra passato, presente e futuro personali ed impersonali, è incerto tra la carne e la vita, il retto e il tergo, attività e passività, piacere ed orrore, naviga e vacilla tra diverse generazioni, tra sé e l’altro che viene da sé. In questo racconto, il viso dell’altro non è concesso di colpo, va meritato, si conquista, l’esca suadente del sorriso gli preesiste; appena intravisto si riflette già in immagine di sé, che minaccia di rovesciarsi, subito dopo il rapimento di un avvicinamento nell’alterità, in orrore identificatorio.

 Quello che questo sogno ci dice inoltre  è che nessuna ricetta ha mai placato la fame di chicchessia, ahimè! La ricetta è solo la potenzialità del piacere, essa non può che “scorgerlo” e ci rinvierà sempre a noi stessi. Nessun adempimento di desiderio  è in grado di saziare il desiderio, ancora meno la sua fonte.

 L’esplorazione della personalità in una prospettiva evolutiva, a cui il Rorschah si mostra sensibile, offre un chiarimento particolare sui tipi di personalità esposte a questo genere di manifestazioni all’incrocio dello psichico e dello somatico. Un percorso di molte settimane vede i nostri pazienti partire alla scoperta di metodi di rilassamento e la sollecitazione di una partecipazione personale alla loro presa in carico, mentre ci permette una valutazione delle modificazioni osservate, degli effetti del rilassamento sui sintomi osservati o provati, della natura e della qualità degli eventuali miglioramenti, dei loro rapporti potenziali con le trasformazioni concomitanti di alcuni tratti di personalità.

 Ciò che emerge dal nostro studio con questi strumenti, è l’oscillazione, in questi pazienti, tra un’esacerbazione viva  e la presa di distanza dall’affettività. L’arrivo del colore rosso alla tavola II, per esempio è l’occasione per analizzare le tendenze impulsive ed i tentativi più o meno influenti di prenderne la distanza: la precipitazione immediata su questo colore e la frequente interpretazione comune o successiva dei Dbl  condensano questa disposizione in cui la considerazione del nero è lasciata da parte. L’ospedale dove si svolge l’esame ha spesso buone spalle, che permettono di giustificare bene e male il sopraggiungere maldestramente razionalizzato di attrazioni pulsionali fastidiose, mal accettate. Come in questi due esempi che potrebbero sembrare, nei riferimenti evocati, copiati l’uno dall’altro:

 Marc 54 anni:

 

< ^

1-      E’ sempre uguale, lo stesso genere di cosa… cos’è questo affare… E’ strano… ma vedo uno spaccato dell’addome femminile (Dbl), un ano (Db inferiore mediano), il sesso  femminile (D mediano), …è forse perché siamo in un ospedale, altrimenti avrei visto sicuramente qualcos’altro.

 

Inchiesta: in alto  il sesso femminile… uno spaccato trasversale… in un ospedale, questo fa pensare a questo … ed in basso l’ano… il bianco l’addome, non la parte nera e l‘affare rosso in alto non vedo (ed in basso?) non vedo la definizione.

 

v… … ^ > ^

 

2- Qua di nuovo sono molto limitato, non vedo altro… questo fa pensare ad un apparecchio a propulsione, tipo   un razzo, aereo, con i reattori dietro… con le ali delta anche se non è affatto come questo (tocca i bordi del Dbl)… ecco. Alla fine è la forma …è un aereo… si è comunque lontano dal conto…

 

Inchiesta: apparecchio a propulsione come il razzo che parte. Che è messo in verticale, è necessario il foro, l’ugello, da cui escono i gas di scappamento.

 

 

 

Carolina, 34 anni:

 

Pff…

V

1 (tavola tenuta a braccia tese) non so se è perché siamo in un ospedale ma il fatto di passare a del rosso questo fa pensare a del sangue, è il colore che fa questo (rosso inferiore mediano)

^ <

2 Qua come questo si direbbe una testa d’uccello con il piumaggio dietro (nel rosso)

 

Inchiesta: (?) qua questo fa come una cresta e qua una specie di jabot (gozzo) (nero nel rosso + sfumatura + rosso per il piumaggio)

 > ^ < v

Qua non mi ispira molto eh, no non vedo nient’altro eh, beh no eh, qua non mi ispira nient’altro. (una mano sul mento, riflette scuote la testa)

 

 

Gli esempi abbondano di questo contatto con una tavola II con una modalità insieme bloccata ed impulsiva dove il rosso ed il bianco della tavola si oppongono in un contrasto percettivo e tematico come attesta questo altro estratto riguardo a  questa tavola  di Anna, 43 anni, con un modo insieme simbolico e dolorosamente sofferto: “ Il sangue… questo fa contrasto i due colori, il nero che rappresenta la sofferenza ed il sangue che potrebbe rappresentare la vita. Inchiesta. (il sangue?) in basso ed in alto (il contrasto?) è astratto. E qua, il bianco, si ha l’impressione che sia qualcuno che è preso da un ingranaggio tutto attorno.”

 

L’interesse essenziale dello studio evolutivo è di intrecciare queste tendenze con i loro aggiustamenti sotto l’effetto di un percorso individuale aiutato dal rilassamento. Confrontiamo  su questa stessa tavola i due Rorschach  a due mesi d’intervallo in Josette, 43:

                                                                                 

1- Allora qua, evidentemente, le macchie rosse, alla fine evidentemente, le macchie rosse questo mi evoca del sangue.

2-E’ la tavola che fa paura. Qui gli organi genitali (D rosso) con l’utero (Dbl), l’ano in fiamme, rosso.

3- Qua fa un po’ radiografia dei bronchi (D nero)

4- E poi questi affari rossi in alto questo fa pensare a dei cappelli da folletto

[…]

-Se no questo rosso m’ innervosisce un po’; qua irrita ma è normale, (rit). Si è abbastanza violenta come tavola, io trovo, questo fa splash, questo fa esplosione di una macchia.

Oh ecco.

Ah si , mi ricordo questo che si doveva… due specie di elefanti, due bestie con la loro proboscide qua davanti, con le loro orecchie qua, o piuttosto  degli orsi che tengono qualcosa . Questo fa proprio fallico, cosa, questo mi fa pensare  a qualcosa di fallico.  

1– Allora questa è quella che l’ultima volta mi dava fastidio. Allora ci sono sempre delle specie di folletti qua in alto o di stomaci, i due stomachi.

2- E poi questa specie di immagine fallica  al centro che risale qua.

3- L’immagine centrale in bianco, qua farebbe quasi pensare ad una razza che nuota

4- E poi si direbbero due orsi che tengono qualche cosa sulla punta del loro naso (D nero)

5- E poi questa macchia rossa in basso che è una éclaboussure, non so troppo cosa (rosso inf.).

v Quando la si guarda nell’altro senso, questo potrebbe quasi fare insetto, con le sue specie di corna, di mandibole, qua (rosso med.)

< … … In questo senso,  non ci vedo niente.

> v…^ No, davvero è tutto.

v… > no, non ho voglia di vedere di più. Non ho voglia di spremermi il cervello.  

 

 

    

 

    

LLL’evi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’evidenza e l’immediatezza del sangue s’impongono alla prima prova nelle macchie rosse propriamente “evocatrici”. Esse si oppongono al bianco svuotato dell’utero preso tra gli organi genitali ed un “ano in fiamme”, in un approccio al corpo insieme eccitato, impulsivo ed ai limiti dell’incoerenza. La radiografia dei bronchi prende poi la distanza da tutta questa esaltazione, nel suo modo di apprensione fondato sul nero, il suo accesso somatico più erudito e distanziato, il suo contenuto meno caricato dalla pulsione sessuale; essa annuncia una ripresa più placata del colore in questi cappelli da folletto di  migliore adattamento affettivo (FC) ma che non mette definitivamente al riparo delle rappresentazioni esplosive che si alterneranno alla fine della tavola con le risposte meglio controllate delle banalità animali.

 

La dinamica della seconda prova è tutt’altra. Il ricordo di un disagio precedente, insieme legato al rosso ed ai contenuti anatomici è presente, ma come una evocazione superata, un ricordo passato, anche se la denegazione continua a renderlo soggiacente. I folletti vengono in primo piano in un’atmosfera immediata nettamente più temperata di prima, da cui è esclusa la stigmatizzazione impulsiva del sangue e dell’esplosività. Sola persiste una  “éclaboussure” indeterminata, come il segno di uno sconfinamento antico. I contenuti anatomici e sessuali sono divenuti meno pressanti, più distanziati, nei Dbl l’utero cede il posto all’immagine più viva e dinamica di “una razza che nuota”.

 Il confronto tra Rorschach prima e dopo la presa in carico con il rilassamento va in generale nello stesso senso di un abbassamento delle caratteristiche conflittuali, dell’ambiguità, dell’amalgama ingarbugliato di contenuti eterocliti  riuniti dall’esaltazione e la precipitazione costantemente rettificata o combattuta con la ripresa critica  o il rifiuto. Ne diamo un esempio in questo approdo di personaggi banali della tavola III da parte di Carolina:

Tavola III:

 

1 Oh! Si direbbero due personaggi, due donne (tavola sempre tenuta con le braccia tese), e sia si può dire che stanno portando un sacco di farina, e sia come si vede in alcune trasmissioni degli africani che stanno battendo il miglio, solo che qui non battono niente.

Inchiesta: solo che non hanno quella specie di grosso bastone 

Tavola III:

 

“Qua mi fa sempre pensare alle mie due donne nere che preparano la pappa.

[…] E qua le mie due nere, vogliono portare questi aggeggi, hanno anche due panieri.

Inchiesta: è vero che si ha l’impressione che portino  qualcosa, della farina. In effetti non stanno preparando la pappa stanno per farlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’alternativa esitante, oscillante e costantemente rilanciata della prima prova, con un’azione oscillante tra delle tendenze contraddittorie in cui i ” e  sia” e i “solo che ” ripetuti in modo martellante dei pentimenti e delle successive riserve, è sostituito  più tardi da uno slancio più diretto, molto meno condizionale, in un’animazione meno contorta, meno cavillosa, pur conservando una traccia velleitaria. La chiarezza e la pulizia ci hanno guadagnato ed anche, senza dubbio, l’accettazione della realtà quale si presenta.

 Tali appaiono i primi insegnamenti, riassunti troppo velocemente, di un lavoro in grado di portare un chiarimento sia sui meccanismi psichici relativi a questa sintomatologia, se non alla loro base, sia sulle loro capacità e limiti di trasformazioni interne e sulla valutazione dei mezzi per cercare di rimediarvi.Degli indicatori incrociati  riguardanti la sensibilità fisiologica, la recettività  individuale alle situazioni di stress, la tendenza all’espressione di un’ansia reattiva o di fondo, le caratteristiche strutturali di personalità e la loro influenza sull’implicazione del paziente nel processo di cura possono così essere presi in considerazione nel determinismo e nella riduzione dei sintomi funzionali presentati.