Variazioni sull’immaginario e la creazione.

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Immaginario: studi e ricercheJean Burgos

Dopo tanti anni – tanti interventi, discussioni, scambi di ogni tipo, di cui, da parte mia, conservo il migliore
ricordo – dopo tanti anni bisognava proprio concludere. Quale migliore occasione, mi sembra, di queste
giornate in cui celebrare, a ragione, i fondatori del GITIM – questo centro di applicazione e attivazione delle
tecniche d’imagerie mentale che da tempo ha dato prova del proprio valore e mantiene oggi la sua rotta
contro venti e maree, secondo la linea dritta di coloro che l’hanno voluto così e che meritano la nostra piena
riconoscenza.
Ed è pensando a loro, e in modo particolare alla Signora Rigo (ho conosciuto il Signor Rigo solo attraverso i
suoi lavori),  che ritornerò, se siete d’accordo, sui numerosi momenti trascorsi in vostra compagnia – non so
contarli – , momenti in cui ho tentato di condividere con voi alcuni dei problemi  che mi stanno a cuore, alcuni
dei miei interrogativi più che delle mie certezze, alcune delle vie lungo cui mi sono avventurato a lungo, in
modo molto imprudente, e che rimangono da decifrare in seguito, è sicuro. Di cosa si è trattato?
Dell’immaginario, ve ne ricordate, di un immaginario che potrebbe far parte, a mio avviso, delle grandi
scoperte della seconda metà del 20° secolo, nella misura in cui i percorsi della creazione che apre e regola
secondo logiche diverse da quelle del pensiero razionale non potrebbero lasciare indifferente nessuno che si
proponga di vivere meglio e più a lungo, secondo la bella espressione del poeta.
Ma rassicuratevi: non è il caso che vi faccia qui, ancora una volta, l’elogio dell’immaginario, che ponga di
nuovo l’immaginario nel cuore della realtà quotidiana dove prende posto, né che mi ostini a mostrarvi l’uso
che se ne può fare in numerosi campi. Vorrei solo soffermarmi con voi, molto liberamente, su un fenomeno
lasciato in ombra troppo spesso e in ogni caso mal utilizzato, un fenomeno inseparabile dall’Immaginario che
arriva così a manifestare apertamente: voglio parlare della creazione – nel senso più largo del termine.
Creare, è far venire all’esistenza, dare essere a quello che non è, rendere reale e quindi realizzare nel senso
primo del termine.  Ora, a differenza di ogni altro modo di conoscenza che tende ad apprendere un dato
chiuso, finito, da cui non esce, l’immaginario, invece, aggiungerà qualcosa a questo dato fino ad uscire dal
campo del conosciuto: e questa è la creazione. In breve, diciamo che ogni vera creazione è emergere di una
nuova realtà; per questo, evoca una certa rottura con la realtà presente o con ciò che noi chiamiamo così.
Quello che, in campo artistico, permette di distinguere il vero creatore dal semplice imbalsamatore o
decoratore che il poeta Sain-John Perse denunciava nel suo discorso all’assegnazione del Premio Nobel nel
1960, è proprio questa disponibilità ad accogliere la novità dopo essersi messo nella condizione di
provocarla. E se prendo in prestito questo esempio dal campo artistico, forse è perché il mio primissimo
intervento al GITIM (me ne ricordo come se fosse ieri, ma è passato molto tempo da allora) era
precisamente dedicato ad “Arte e immaginario”. Ma perché riservare il termine di creazione, nel campo di
nostra competenza, con tutte le possibilità che le vengono riconosciute e tutto il prestigio di cui si circonda, al
solo campo dell’arte o di quanto le è apparentato? Lungi da ogni determinismo genetico come da ogni etica
programmata, non si potrebbe considerare ogni esistenza, ogni vita umana come continua creazione? Vale a
dire che, ponendo l’accento in ogni istante non su quello che è ma su quello che potrebbe essere, non più su
quello che viene fatto ma su quello che si sta per fare, non sarebbe indubbiamente impossibile per ciascuno
di noi rivelare e attivare le potenzialità inscritte in ciascun  momento in ogni situazione presente – e fare così
della propria vita una continua creazione, se non un’opera d’arte, almeno diventare in parte l’artefice del
proprio destino.  Ecco qualcosa che fa sognare – e forse sogno ad alta voce dicendovi questo. Ma non
importa: ponendo l’accento non su quello che è ma su quello che potrebbe essere, non su quanto è fatto ma
su quanto continuamente sta per essere fatto, non sarebbe possibile contribuire, almeno in parte, alla
creazione del proprio destino – non sarebbe possibile almeno orientarlo, questo destino, farne la propria
opera e farsene il firmatario?
Significa già, in ogni caso, che in materia di conoscenza di sé è sicuramente più importante, comunque più
vitale, cercare di saper quello che diventiamo e contribuire a questo divenire, piuttosto che cercare di sapere
quello che siamo e accontentarcene. Dicendo questo, sono consapevole di essere poco originale nel
sostituire la massima di Nietzsche:   “Diventa quello che sei ”  a quella di Socrate di cui si è tanto parlato:
“Conosci te stesso”.  Ma è vero che la massima Socratica lascia intendere che ognuno è costretto nel
proprio essere ben chiuso, un essere che si potrebbe indubbiamente esplorare maggiormente ma senza la
speranza di uscirne o di modellare in modo diverso; mentre la massima di Nietzsche, l’avrete già notato,
evitando ogni chiusura, lascia aperta la porta su un divenire che è scoperta e novità di ogni momento,
possibilità di diventare diverso rimanendo lo stesso – una continua creazione.
E’ su questa connessione tra immaginario e creazione che vi ho promesso di fare delle variazioni – nel
senso musicale del termine – è questa connessione che si trova illustrata magnificamente e valorizzata in un
mito che mi è caro e che si presta in modo particolare alle variazioni: il mito della Fenice. Sia chiaro che un
mito, contrariamente all’uso che comunemente si fa di questo temine, non è una storia fantasiosa, una
gratuita affabulazione, un racconto più o meno estroso trasmesso di generazione in generazione e che non
ha niente a che vedere con la realtà vissuta. In breve, dirò che un mito è una storia fuori dalla storia, del tutto
simbolica, che racconta in modo esemplare come questo o quel fatto, questa o quella realtà è apparsa, è
arrivata a esistere. Un mito è sempre il racconto di una creazione, un racconto che riferisce come qualcosa è
stato prodotto, ha cominciato ad essere. Indubbiamente non c’è storia esemplare, nel suo svolgimento e
nelle sue varianti fino ai suoi minimi dettagli, che ci riferisca questi processi della creazione meglio, e in
modo altrettanto immaginifico, del mito della fenice.
L’origine, di questa fenice di cui ci parlano numerosi testi antichi, greci e latini, non è importante. Esiodo,
Erodoto, Plutarco, Ovidio, specialmente, sembrano averla raccolta in diverse tradizioni egiziane ed etiopi ben
presto diffuse in tutto il Medio-Oriente. In ogni caso, Fenice è descritta come un uccello favoloso, una specie
di aquila gigante dai colori notevoli tra cui domina la porpora (in Greco, è la stessa parola a indicare la fenice
e il colore porpora). La durata della sua vita è eccezionale, sfida il tempo umano, e l’unico avvenimento di
tale vita è la sua morte, se posso dire, ma una morte che è essa stessa origine di vita. Ma, cosa ancora più
importante, Fenice è l’unica della propria specie; ed è proprio perché è unica, unica per sempre, che non
deve morire veramente – da cui l’importanza, al centro del mito, della sua perpetuazione.
In tutte le tradizioni, che siano occidentali o vicine all’oriente, viene detto che, quando Fenice sente arrivare
la propria fine, si fa un nido, ma un nido del tutto particolare fatto di ramoscelli profumati, cioè di piante
aromatiche a cui aggiunge anche, secondo alcune tradizioni, dei granelli d’incenso (Ovidio, il poeta latino del
primo secolo avanti Cristo, insiste a lungo su questi aromi a cui è molto attento). Fatto questo, si installa
nella sua tomba profumata. A partire da qui, incontriamo due tradizioni. La prima che è di gran lunga la più
diffusa e quella a cui ci si riferisce più spesso, vuole che, con  il suo stesso  calore infiammi i ramoscelli del
suo nido e si consumi a poco a poco in questa profumata fornace. Ma anche se sparisce in questo modo è
solo per  rinascere subito dalle proprie ceneri sotto la forma di una nuova fenice, che a sua volta ripeterà la
stessa avventura che non conosce così mai fine. Ma una seconda tradizione, più antica e molto più
complessa, che ci interesserà maggiormente, ci dice che Fenice, adagiata allo stesso modo nel suo nido
profumato, ben presto muore ma impregnando questo nido con il proprio seme. Nessuna fiammata, questa
volta, ma la nascita programmata di una nuova fenice, come si sospettava. La mitologia raggiungerebbe qui
la biologia più elementare se la nuova fenice, appena nata, non dovesse prima di ogni altra cosa occuparsi
del cadavere del proprio padre (sento già fremere gli psicanalisti).
Cospargendolo di unguenti profumati – ancora i profumi, l’avrete notato – fino a chiuderlo in vero e proprio
uovo di gomma aromatica, lo porta fino ad Eliopoli, emblematica citta del sole, dove lo deporrà su un altare
del tempio di  Iperione. Fatto questo, la giovane fenice girerà in cerchio sopra al tempio fino a quando un
sacerdote non ne esca e arrivi a confrontare l’aspetto dell’uccello in aria con quello rappresentato nei libri
sacri. Solo allora il sacerdote brucerà il cadavere della vecchia fenice (il rito del fuoco purificatore e
rigeneratore ritorna qui con forza), e la nuova  fenice – compiuto il rituale – potrà ritornare alle sue terre e
ricominciare un ciclo uguale.
Se questa tradizione, la più antica e la meno conosciuta, mi colpisce in modo particolare, è perché, oltre alla
totale vittoria sul tempo degli orologi che essa celebra apertamente, sembra rinviare a tutti i processi della
creazione in tutte le loro diverse tappe, come anche a colui che mette in azione questi processi, creatore di
un’opera o della propria vita come opera. Sottolineo innanzitutto che Fenice è unica della propria specie,
come unica è ogni vera creazione, opera o  vita singolare. Ed è perché è unica che non può riprodursi come
gli altri animali e la sua perpetuazione evoca necessariamente la sua morte – ma una morte che sarà origine
di vita. Questo significa che il suo essere eterna passa per il tempo cronologico – un tempo cronologico a cui
non sfugge, indubbiamente, perché sente arrivare la propria fine, ci dice la tradizione; una fine che arriverà
tuttavia a superare o piuttosto a sventare. L’ancoraggio al tempo degli orologi, su cui insiste questa versione
del mito, mi sembra di primaria importanza quando ci dice che non c’è vera creazione, di qualunque natura
sia tale creazione, non ci ritorno, che non sia inscritta, radicata prima di tutto in una temporalità che è il
destino della nostra umanità. Ecco che mi fa pensare a quell’aforisma di un poeta francese dell’ultimo
secolo, un grande poeta contemporaneo di Apollinaire, Max Jacob: “ Per essere poeta, bisogna essere prima
di tutto uomo, poi un uomo poeta. Altrimenti si è un piccolo uccello molto più ridicolo di un maiale.” Infatti la
poesia a cui si allude non è un modo di cantare la primavera, i fiori e i piccoli uccelli, né la maniera di far
scorrere le parole a ritmo cadenzato, ma , ritorniamo all’etimologia, azione creatrice (il poiein, in Greco, che
è il fare creatore) che consiste nel far emergere una realtà altra nel cuore della realtà stessa. Qui siamo
davvero al centro della creazione.
Quanto al rituale che va dalla chiusura del cadavere della vecchia fenice nell’uovo di mirra che lo conserverà
– la creazione non implica la cancellazione della memoria – alla sua deposizione sull’altare del sole, esso
manifesta in modo evidente, il passaggio dall’oscurità alla luce, essendo ogni creazione rivelazione, nuova
conoscenza, quando non è illuminazione. Inoltre, questo passaggio si compie grazie ad un viaggio aereo
che è presa di distanza dal mondo originario, dal mondo sensibile, e nello stesso tempo unione di due luoghi
estremi e radicalmente opposti: senza dubbio mai i processi della creazione sono stati meglio raffigurati. E
senza andare più lontano nel dettaglio del mito e del suo deciframento, insisterò solo sulla sua ultima tappa,
quella che vede il sacerdote del tempio del sole confrontare la nuova fenice che volteggia sopra l’altare con il
disegno che la rappresenta nei Libri sacri. Infatti questo confronto mostra la ricerca dell’identità nel cuore
dell’alterità – la creazione che fa che l’altro sia ancora lo stesso. E molto più che un’ultima precauzione da
parte del sacerdote che si prepara a far sparire ben presto ogni traccia della vecchia fenice (fuori dalla
mitologia diremmo cancellare o dimenticare l’uomo vecchio) e questo facendola bruciare sull’altare (davvero
il fuoco ha a che vedere con la creazione), in questo vedrei volentieri una evidente intrusione del sacro nel
profano, la manifesta volontà di raccordare tempo profano ( il tempo cronologico) e tempo sacro (il tempo
che non passa e non si misura), lo sforzo di farli di nuovo congiungere, al di là della rottura operata al
momento della morte della vecchia fenice, che poteva passare per perdita d’identità. Da questo punto di
vista, il sacerdote del tempio del sole appare come il mediatore tra due mondi, quello rappresentato
dall’uccello in aria e quello rappresentato dal suo modello sul libro; e questo modello, che appartiene, ci dice
il mito, ai libri sacri è il riferimento immutabile nel suo principio di cui il mondo ha costantemente bisogno.
Bella illustrazione, secondo me, della creazione questa tripla immagine di cui una sola, che non appartiene
né alla cosa sensibile, né alla sua rappresentazione, appartiene in proprio all’immaginario. Ma anche bel
riconoscimento della situazione della cosa o del nuovo essere creato, dell’opera all’incrocio dei due mondi
opposti che non cessano di rinviare l’uno all’altro, di appoggiarsi l’uno all’altro oltre le rotture che delimitano
ogni creazione e la fanno progredire verso una nuova realtà – un incrocio che ha per nome l’immaginario.
Significa che il mito della Fenice, da qualunque parte lo si consideri, sembra essere la storia esemplare di
ogni creazione. In effetti, inizia con l’apparizione e l’apprendistato di una nuova fenice che insieme sottolinea
una permanenza atemporale e offre l’inizio di un nuovo ciclo temporale, mette così l’accento sulla doppia
appartenenza, finita ed infinita, dell’opera creata, di qualunque natura. Ma più ancora, mi sembra, questo
mito ci parla del senso di ogni vera creazione: afferma che questo senso non è mai dato ma è sempre da
venire, dal momento che il ciclo non è mai chiuso ma sempre da venire, come la grande annata che
inaugura. Così come il mito della fenice è la storia di una storia destinata eternamente a ricominciare, nello
stesso tempo uguale e diversa, trovando il proprio senso nelle sue stesse possibilità di ricominciare, alla
stesso modo l’opera non può trovare senso in se stessa ma solo nelle possibilità che libera, le virtualità che
realizza ad ogni tappa della sua elaborazione o della sua messa in azione per chi se ne prende la
responsabilità, in questo o in quel modo, e la riporta in vita. Infatti è proprio perché c’è l’emergere di una
realtà altra al cuore di una realtà uguale che si può veramente parlare di creazione.
Appare così che tutte queste fusioni e fenditure, queste composizioni e decomposizioni, queste continuità e
rotture che lavorano insieme in ogni creazione, frutto di un immaginario in azione, le troviamo tutte riunite in
questo mito esemplare della fenice. Senza dubbio è già tanto il fatto che ci inciti a comprendere ogni
creazione, ogni vera opera, non in ciò che la rende tale e non diversa, ma nel suo stesso divenire, nelle
possibilità che libera nel farsi e che può ancora liberare tanto quanto la si saprà interrogare. Ma oltre a
questa lettura particolare che evoca, il mito della fenice introduce una problematica dell’identità molto
particolare quando, al cuore stesso dell’identità, l’alterità è all’opera. Già Ovidio, il poeta latino che citavo
poco fa, autore delle Metamorfosi, accordava un posto molto speciale alla Fenice l’unico essere che si
rigenera e riproduce sé stesso. Mentre tutte le metamorfosi si presentano come passaggi dall’uguale al
diverso, la metamorfosi della fenice si rivela passaggio dall’uguale all’uguale: alla problematica dell’alterità si
sostituisce una problematica dell’identità. Ma una problematica abbastanza strana, ci dice Ovidio, perché al
termine della sua metamorfosi la fenice resta unica essendo nello stesso tempo diversa e uguale.
Bell’esempio da seguire, mi sembra, per ciascuno di noi, quando la continua creazione di se stessi (fare
della propria vita un’opera d’arte sempre rimaneggiata), una creazione a cui non ho smesso di pensare nel
corso di questa analisi, ci conduce alle stesse conclusioni  che non svilupperò oltre, consapevole di essere
stato già troppo lungo e sicuramente non abbastanza chiaro – vi chiedo di volermi scusare per questo. Ma ci
tenevo, come punto finale dei miei numerosi interventi presso di voi tutti che gravitate, in modi diversi,
intorno all’immaginario e alla creazione, ci tenevo a condividere con voi queste variazioni che bisognerebbe
sviluppare ancora – musicalmente – sul mito della fenice. E non potrei concludere in modo migliore citando
Claudiano, poeta latino del 4° secolo che ha consacrato una delle sue opere a Phoenix: “Lo stesso che era
stato padre ora si  slancia come figlio e si succede diverso”. Definizione che è quella della fenice, uccello
mitico, sicuramente, ma che potrebbe essere anche quella di chi genera se stesso attraverso la propria
azione su di sé e diventa così, in qualche modo, il proprio creatore.  Ecco tutto un programma, che dà da
sognare, che la creazione, grazie all’immaginario, non smette di porsi, come la fenice, in tutte le sue
condizioni.