Riflessioni sui fondamenti intersoggettivi del processo psicoterapeutico.


In occasione di un recente incontro, un amico, del tutto estraneo al campo psicologico che ci è familiare, mi interrogava con una curiosità senza malizia sulle ragioni che mi spingono a continuare l’esercizio della pratica clinica oltre il pensionamento e il conseguente compimento di una vita professionale che le  è stata già largamente dedicata. La sua domanda mi ha lasciato al momento senza parole, non per la necessità giustificarmi per questa proroga ma a causa dell’incapacità in cui mi trovavo di fornirgli una risposta immediata adeguata, in grado di contenere e trasmettere una rappresentazione giusta, rispettosa di tale occupazione strana per i non iniziati, cioè una risposta insieme accessibile al mio interlocutore fuori da ogni condiscendenza ed enunciabile  da me senza enfatizzare o idealizzare la funzione. Dopo avere eliminato le considerazioni alimentari dal momento che  questa attività viene esercitata in modo non solo gratuito ma oneroso per me, esclusa l’ipotesi di un masochismo a cui non mi sento per niente affine, e anche di un altruismo militante su cui molti subito ironizzerebbero, abbandonata inoltre l’eventualità molto azzardata di una ricompensa al centuplo per una tale dedizione in una vita ulteriore, avevo bisogno di procurarmi un’argomentazione più convincente e soprattutto non limitata ad un egotismo inopportuno o a interessi immediati e prosaici. La nostra riunione di oggi, all’insegna di un bilancio commemorativo e prospettico su un piano collettivo più che individuale, mi fornisce un’eccellente opportunità per cercare di apportare alcuni sviluppi a questa domanda che in origine mi è stata rivolta personalmente, allargando il dibattito verso un orientamento dove l’apporto teorico trova il suo posto. Indicherò ora, in un modo che può sembrare stranamente prematuro, sbagliato e paradossale, che la comunità di appartenenza che noi rivendichiamo, anche se fornisce alcuni sottintesi e complicità supplementari tra di noi, non mi permette di risolvere completamente l’enigma posto del mio interlocutore. Un pezzo della mia esposizione consisterà infatti nel mostrare che una parte di essa, la più fondamentale in ragione della sua stessa natura, su cui dovremmo tornare, non può che restare aperta dunque sospesa; conserverà quindi in definitiva una parte di indeterminazione e approssimazione, che non dipende dal gusto del mistero o del pressappochismo che non rifiuto interamente in questa materia, ma soprattutto dalla sua definizione da cui la sua pertinenza ed efficacia risultano indirettamente. In altre parole, il persistere alla fine di una parte di fluttuazione, non sarebbe il prodotto di una qualche imperfezione, di un’ignoranza o di un residuo di incertezza ma risulterebbe piuttosto dall’approfondimento di una conoscenza a cui ci saremmo sforzati di accedere. La psicoterapia si colloca e si esercita nel campo clinico. Questa precisazione, e soprattutto questo ancoraggio, che andrebbero in altri casi da sé, mi sembra sempre di più che valgano la pena di essere sottolineati. Ai nostro giorni, un insieme di tecniche che proliferano e si sostituiscono senza fine le une alle altre in una inquietante corsa all’attualità, una competizione e un preteso rendimento, si dichiarano sempre più indipendenti da questo fondamento clinico, credendo di poterne  fare a meno o senza alcun bisogno di integrarvisi. Si limitano a delle misure puntuali, senza bisogno di rinviare ad un contesto di appartenenza né di poggiare su di esso.  Per la corrente a cui faccio riferimento, psicoterapeutica nel suo nome non più che nella sua vocazione, il processo curativo si colloca in una prospettiva comprensiva che lo supera di molto al punto che questo non si presenta mai come prerequisito indispensabile alla sua attuazione né implicito al suo progetto. Va da sé che non può quindi ridursi all’applicazione di un insieme di procedure miopi, amministrate meccanicamente, ma che si esercita al contrario a partire da una presa in carico del paziente e da una attivazione del clinico sempre contestualizzate, circostanziate e personalizzate, sempre legate ad un metodo. Stabilire che l’intervento psicologico non possa ridursi ad una tecnica è un modo diverso di affermare che esso suppone una base e un  fondamento teorico grazie al quale o a partire dal quale potrà emergere un panorama ed un registro di intervento che non possono ridursi ad un quadro o a un insieme di contratti, di convenzioni, di  rituali tra parti interessate a questa esperienza. Tutto accade come se più il riferimento teorico o metodologico si dimostra solido, meno l’intervento psicologico prova il bisogno di preoccuparsi di un arsenale di condizioni preliminari, mentre al contrario un sovraccarico in questo senso tradirebbe piuttosto una compensazione ritualizzata delle fragilità del supporto o del suo attuatore. Chiediamoci, nello stesso tempo, se l’attuale tendenza al diluirsi dei metodi d’intervento, delle specializzazioni nell’ esercitare, alla moltiplicazione all’infinito di tecniche tanto effimere quanto sempre più  assurde, di cui ogni giorno almeno una nuova si vede apparire sotto un acronimo astruso, se l’esclusione di specialisti della salute e del disturbo psichico competenti, a favore di marginalità dai successi facili e passeggeri,  non  dipendano, almeno in parte, dall’impoverimento o da una crisi dei modelli teorici di riferimento. Per effetto di una tendenza contemporanea a promuovere l’aneddotica e la superficialità, queste guadagnano forza e rapidità di propagazione presso persone sbrigative e spesso mediocri o che hanno perso il valore del radicamento e della solidità che deriva da un approfondimento duraturo, a lungo termine e di ampio respiro. Ognuno a modo suo, Edmund Husserl (1858-1938), Ludwig Binswanger (1881-1966), Karl Jasper (18831969) e Eugène Minkowski (1885-1972) furono insieme dei precursori e dei teorici di questo modo di considerare i fenomeni che diede il nome a questa corrente chiamata giustamente “fenomenologica” e che si
presenta innanzitutto, al di là del contesto psicopatologico in cui ci collochiamo, come un indispensabile ritorno all’osservazione dei fenomeni interni e alla loro considerazione in quanto tali, lontano da preconcetti iniziali. Il pensiero di Husserl non si presta affatto né alla sintesi né alla schematizzazione per quanto appare complesso nella sua enunciazione ed evolutivo nella sua formulazione. Non potremmo quindi avere qui la pretesa, e tanto meno l’audacia, di rendere conto di un’opera così monumentale ma ci accontenteremo di evocare brevemente come la radicalità della sua chiamata in causa abbia permesso di inventare una via per un approccio psicopatologico originale su cui ancora oggi ci basiamo. Ricordiamo innanzitutto che i precetti di Husserl si costruiscono nel campo strettamente filosofico e di conseguenza non hanno alcuna ambizione di occupare il campo clinico. Cosa che non impedisce loro di affermarsi in rottura con una tradizione sia filosofica che psicologica, in un epoca in cui  le due discipline restavano ancora  aggregate, e di andare contro ad una specie di evidenza, rafforzata da molti secoli di associazionismo,  che i contenuti e le modalità di pensiero si prestano naturalmente, in quanto derivati dalla sensazione, ad una osservazione “obiettiva”, quindi come se fossero delle “cose”, più esattamente puramente o strettamente delle cose, dei dati che  si potrebbero studiare senza precauzione o particolare riserva secondo una esteriorità analitica con una pretesa neutralità scientifica. La ben nota formula di  Husserl che ribadisce che “ogni coscienza è coscienza di qualcosa” ha il merito di ricordare  che un accesso astratto alle funzioni psicologiche non offre né legittimità, né direzione, né futuro perché senza rapporto con la loro inscrizione in una realtà umana incarnata e specifica.  Di fronte alla tradizione, stabilita da lunga data e riconosciuta dalla maggioranza, di una psicologia il cui ruolo si riduceva ad una scomposizione dei contenuti di coscienza e alla loro ricomposizione  per progressivo impilamento di tali elementi all’inizio indipendenti, l’approccio husserliano oppone una concezione più omogenea della coscienza e del suo oggetto strettamente articolati l’uno all’altro, interdipendenti l’uno dall’altro, uniti da subito al punto da non poter essere separati. Si potrebbe così parafrasarla o almeno modularla affermando anche che “ogni coscienza è coscienza di qualcuno”, cioè non la coscienza di uno qualunque ma di una persona particolare in quanto giustamente singolare, differenziata e distinta da tutte le altre. Le due formule dicono la stessa cosa ma la seconda presenta il vantaggio di portare l’accento  sull’individualità della coscienza  ancora di più che sull’oggetto a cui  è destinata ad applicarsi. La sua ambiguità permette anche di riferirla sia a se stessi che alla presenza fantomatica  e spesso latente dell’altro in sé  che Husserl designerà con il neologismo “ appresentazione”. Ma, in questa differenza, l’altro si manifesta anche come un “alter ego”, cioè il riflesso di me stesso. Così facendo, Husserl instaura un altro postulato: la coscienza non è una forma vuota, inerte, un puro ricettacolo da riempire, si definisce certamente attraverso un contenuto concreto ma presenta anche un movimento che determina per essa un’intenzione, un obiettivo, una mira, che il filosofo condenserà, con un meritato successo, per insistere senza dubbio sul suo carattere generale e non solo sulla sua traduzione immediata e personale in un desiderio attuale, con un vocabolo improntato allo psicologo Franz Brentano: “l’intenzionalità”. In una critica al dualismo di Cartesio, Husserl la definisce così, a partire da termini riconoscibili come riferimenti al suo celebre predecessore: “La parola intenzionalità non significa altro che questa particolarità innata e generale che la coscienza ha di essere coscienza di qualcosa, di portare in se stessa, nella sua qualità di cogito, il suo cogitatum” (Méditations Cartésiennes) . La coscienza e il mondo appaiono allora come dati concomitanti e non frazionati dal pensiero o dalla percezione. Vediamo inoltre a corollario che la coscienza non si definisce solo attraverso un oggetto o un contenuto ma attraverso una tensione verso qualcosa; non è solo recettiva ma attiva, dinamica. Alcune riflessioni illustrano in questa direzione il pensiero di Husserl: “Non vedo sensazioni di colori ma oggetti colorati, non sento sensazioni uditive ma la canzone della cantante”, “ azioni diverse possono percepire la stessa cosa e tuttavia provare delle cose del tutto diverse”.  Per Husserl il mondo non si divide in due parti con da una parte l’insieme degli oggetti e dall’altra una soggettività che ne fa conoscenza o possesso, ma realizza una unione significante indissociabile di questi due componenti. Il concetto di intenzionalità tenta di liberarsi dalla persistente dualità con la frase “ ogni coscienza è coscienza di qualcosa” unendo il soggetto che percepisce e la cosa percepita in uno stesso slancio  in cui si strutturano. Come viene riassunto in modo convincente da Ian Patoçka, uno dei discepoli cecoslovacchi di Husserl, “L’intenzionalità è il legame unificante che fa si che l’esperienza della coscienza non sia un assemblaggio d’impressioni e altri fenomeni, ma un processo unitario, dotato di senso”. Non siamo ancora arrivati all’idea di un’intersoggettività ma, idea che la prepara, a quella di un’intima alleanza, di una convergenza tra l’io e la cosa, di ciò che si potrebbe designare con il termine  d’intrasoggettività per suggerire la doppia faccia dell’impronta della soggettività nell’oggetto percepito e la parte soggettiva nella conquista dell’oggetto. E’ così che Husserl apre la strada a quella che verrà ormai chiamata “fenomenologia”, per insistere sulla necessità di un approccio non più esteriore ma “vicino” alla realtà psichica per come si offre  alla lettura, in una comprensione  il più diretta possibile, senza intermediari, attraverso un vissuto concreto particolare. In questo senso il fenomeno non è la cosa percepita ma la cosa per come si offre alla coscienza in un’intuizione. Si tratterà allora per lo psicologo di avvicinare i fenomeni così come si mostrano e come vengono vissuti o piuttosto, ancora meglio e in un senso forte, così come si presentano a noi e ai nostri pazienti,  due versanti che non potrebbero sostituirsi completamente l’uno all’altro  ma possono tentare di sovrapporsi parzialmente in un continuo aggiustamento reciproco. Il primo a cogliere l’importanza di introdurre questa riflessione nel campo psichiatrico o piuttosto
psicopatologico, nella misura in cui non è sufficiente descrivere o anche ordinare un insieme di sintomi per definire e soprattutto per comprendere un disturbo psichico, è Jaspers. Egli agisce da pioniere importando ed adattando l’approccio fenomenologico dal piano  filosofico di Husserl al campo psicopatologico. In psichiatria, il fenomeno, per Jaspers, parte dalla considerazione delle frasi e dai vissuti diretti dei pazienti, così come si enunciano “qui e ora”, in un modo sincronico e non deformato fin dall’inizio da rubriche della classificazione sintomatica o nosografica, cioè da una conoscenza preliminare appresa o scientifica. “La fenomenologia, dice Jaspers, ha per oggetto lo studio degli stati d’animo provati dagli ammalati, essa ce li vuole rappresentare in una forma concreta e considerare i loro rapporti di parentela. Essa cerca delimitarli con la maggiore precisione possibile, di distinguerli, di nominarli con dei termini definiti. Non possiamo mai percepire direttamente lo stato mentale degli altri, come percepiamo il loro stato fisico, si tratta solo di una rappresentazione, un’interpretazione, una contemplazione intuitiva, una comprensione che otteniamo enumerando una serie di segni esteriori dello stato d’animo, le condizioni in cui questo stato d’animo appare. Ci arriviamo infine attraverso dei confronti e dei simboli che parlano ai sensi e attraverso una specie di “quadro soggettivo”. A questa comprensione concorrono prima di tutto le confidenze registrate nel modo più completo e  chiaro possibile nel corso di una conversazione”. I punti più essenziali dell’approccio fenomenologico ricorrono in ogni momento di questa citazione dandole di volta in volta un accento metodologico, pedagogico, teorico, pratico e anche, in filigrana, etico. Il rigore del clinico vi si articola nell’esposizione delle modalità di approccio al paziente: da una parte e dall’altra Jaspers insiste sul carattere indiretto, derivato, dell’enunciazione dei disturbi o della loro trasposizione in un quadro dal valore più soggettivo che oggettivo. La rappresentazione, la relazione, la comprensione, la traduzione semiotica o simbolica, il contesto, il confronto, l’intuizione, l’interpretazione appaiono come altrettanti modi di sottolineare la parte di ripresa costruttiva che spetta al clinico in quello che non si può mai cogliere in modo immediato o diretto.  Così anche nell’approccio al paziente s’impone il massimo rispetto per una prossimità con i suoi specifici vissuti, e anche lo sforzo di elaborazione comprensiva che ne risulta non può che derivare da una relazione mediata tra lui e noi. Dal momento in cui entra nel campo psichiatrico, l’approccio fenomenologico diventa quindi chiaramente intersoggettivo.  Là dove altri psichiatri presentano subito una tassonomia, una nosografia, cioè una classificazione delle malattie mentali, Jaspers pure propone una categorizzazione, ma fondata su un altro ordine di priorità, quello del metodo o più esattamente dell’insieme dei metodi, cioè quella che si dovrebbe definire, propriamente parlando, la metodologia.  Nello stesso tempo, ci mette in guardia da altre derive: “Ma è pericoloso indagare solo il soggetto di cui si occupa la psicopatologia, non si tratta di conoscere di psicopatologia, è importante al contrario allenarsi ad osservare in modo psicopatologico, a porre domande in modo psicopatologico, ad analizzare e a riflettere in modo psicopatologico.”  Uno stile osservativo, un tipo di ascolto e di recezione, un deliberato orientamento di questa sono dunque all’opera in questo processo che non si limita mai ad una registrazione passiva e disincarnata di dati bruti sui cui le scienze della natura si danno da fare ma che anche  una certa psicologia pretende, per mimetismo o pura e semplice trasposizione,  senza alcuna considerazione per le specificità di quello che viene osservato.  “ E’ solo nelle situazioni limite che l’uomo prende coscienza del proprio essere. E’ per questo che, fin dalla mia giovinezza, ho cercato di non nascondermi il pericolo. Fu uno dei motivi che mi fecero scegliere la medicina e la psichiatria: la volontà di conoscere il limite delle possibilità umane, di cogliere il significato di quello che di solito ci si sforza di nascondere o di ignorare. ” Così si esprime Jasper in un’Autobiografia filosofica  scritta alla fine della sua carriera e della sua vita. Affetto fin da giovanissimo da mucoviscidosi, per cui i medici molto presuntuosamente gli avevano augurato una longevità molto ridotta, non fa mai mistero delle condizioni personali del suo coinvolgimento in studi molto lontani dai progetti su di lui del padre banchiere; lungi dal rendere sospetta la sua vocazione, questa condizione certo la umanizza, ma inoltre, aldilà della fragilità, della vulnerabilità assunta, la inscrive in origine in questa fondamentale unità tra quanto si aspira a comprendere, se non ad aiutare, e la personale traiettoria intima. Un’approfondita riflessione su questa comune condizione permetterà a Jaspers di prendere coscienza di quello che egli chiama le “situazioni limite”, nel corso delle quali la nostra esistenza si trova scossa e denudata in quello che ha di più essenziale, spesso di più tragico, ma anche di più specifico e di valore. Va da sé che il disordine psichico, inteso sia nella sua comune accezione di un transitorio disorientamento del corso del destino sia della sua minaccia più apertamente psichiatrica, si rivela in modo dipendente da un buon numero di questi periodi di maggiore destabilizzazione, che ne siano all’origine, in concomitanza o come contraccolpo ad essi; il loro comune radicamento nella condizione umana autorizza il clinico a non poterli considerare come dati completamente esterni a se stesso  ma sempre in risonanza con la propria sensibilità condivisa.  In un insieme di conferenze radiofoniche registrate nello stesso periodo a Radio Bâle  e da cui è stato tratto un libro intitolato Introduzione alla filosofia queste idee sono state sviluppate nel modo seguente: “Consideriamo un po’ qual è la nostra condizione, di uomini. Ci troviamo sempre in situazioni determinate. Le situazioni cambiano, si presentano delle occasioni. Quando non si colgono, non ritornano. Posso impegnare me stesso per cambiare una situazione. Ma ce ne sono che sussistono nella loro essenza, anche se la loro momentanea apparenza si modifica e il loro completo dominio si nasconde sotto un velo: mi tocca morire, mi tocca soffrire, lottare; sono in balia del caso, mi trovo inevitabilmente preso nei lacci della colpa. Queste situazioni fondamentali che la nostra vita implica, le chiamiamo situazioni limite. Significa che non possiamo
superarle, non possiamo trasformarle. Prenderne coscienza, dopo lo stupore e il dubbio, è raggiungere l’origine più profonda della filosofia.”  Sembrerebbe proprio che impegnandosi a definire più precisamente, nel momento decisivo di un bilancio della propria vita, i fondamenti di una filosofia iniziata con la psicopatologia, Jaspers abbia anche descritto quello che potrebbe servirci da riferimento di base per ogni iniziativa dalla pretesa psicoterapeutica. Precisa inoltre un po’ più avanti la questione inserendola nel campo di un’autentica comunicazione che raramente viene presentata come uno dei pilastri della filosofia ma potrebbe esserlo di ogni pratica clinica degna di questo nome: “La comunicazione che si stabilisce, non solo da intelletto a intelletto, da spirito a spirito, ma da esistenza a esistenza  usa ogni significato e valore impersonale solo come intermediari […] nel momento decisivo, e per una reciproca esigenza, ognuno pone all’altro le questioni essenziali. E’ nella comunicazione che si attualizza ogni verità altra, è solo in essa che sono me stesso, che invece di accontentarmi di vivere, porto a compimento la mia vita in modo pieno. L’atteggiamento fondamentale che qui espongo in termini intellettuali nasce dalla sofferenza che la mancanza di comunicazione provoca, dal bisogno di una comunicazione autentica e dalla possibilità di uno scontro fraterno che unisce nel modo più profondo un essere libero ad un altro essere libero”. Il radicamento esistenziale emerge da questo slancio verso l’altro. Si è già ampiamente imposto nel momento in cui Jaspers scrive queste righe prima come corrente filosofica, poi come modalità d’interpretazione e di presa in carico dei disturbi psicologici. La sua figura emblematica, Ludwing Binswanger, nutrito di filosofia husserliana e heideggeriana da una parte e di psicanalisi freudiana dall’altra, cercherà di tracciare la strada originaria per una “Daseinanalyse” termine tradotto in francese con “analisi esistenziale”. Ci accontenteremo di ricordare qui alcuni principi in rapporto alla sua inserzione psicoterapeutica che tale approccio rivendica esplicitamente in quanto prolungamento naturale di un fondamento antropologico. Al termine di un’allocuzione di benvenuto a riguardo di “Analisi esistenziale e psicoterapia” pronunciata nel 1954 durante il II° Congresso Internazionale per la psicoterapia, Binswanger conclude il suo discorso con queste parole: “L’attuale bilancio delle relazioni tra l’analisi esistenziale e la psicoterapia si può riassumere così: L’analisi esistenziale non può fare a meno, sulle lunghe distanze, di metodi psicoterapici verificati; ma può diventare efficace terapeuticamente solo se arriva ad aprire all’uomo suo simile la comprensione della struttura dell’umano essere-presente; se arriva quindi a fargli ritrovare, fuori dal suo mondo e dal suo modo di essere presente nevroticamente o psicoticamente attraversati, fuorviati, straziati o distorti, il cammino verso la libertà del potere-disporre delle sue più proprie possibilità d’esistenza.  Questo presuppone che l’analista esistenziale come psicoterapeuta non debba solo disporre di una comprensione della “cosa”, o di una competenza che inglobi sia l’analisi esistenziale che la psicoterapia, ma anche che, nella lotta per la libertà del partner nell’essere presente, deve osare la messa in gioco della propria esistenza.”  Questa esposizione non solo della propria soggettività ma anche e soprattutto della personalità del clinico nel legame stabilito con il suo paziente si esercita lungo il filo del processo della sua presa in carico durante la quale l’accento sulla temporalità non è più unicamente espressa attraverso la qualità di una presenza istantanea ma sviluppata soprattutto nella continuità e la fedeltà di una relazione duratura. Viene affermato che è su tale apertura verso il suo simile che poggia fondamentalmente e simbolicamente il postulato di un’efficacia terapeutica. D’altronde, come il suo amico Sigmund Freud, Binswanger aveva pubblicato, per illustrare tutto ciò, dei minuziosi resoconti di cure di lungo termine con pazienti psicotici, come Il Caso Jürg Zünd (1947), Lola Voss (1949), il più noto Suzan Urban (1952) o il primo di tutti dal tragico esito Il Caso Ellen West (1945). La sua reputazione gli è valsa di prendere in carico il grande storico dell’arte Aby Warburg, ricoverato per dei gravi disturbi psicotici alla clinica Bellevue de Kreuzlingen da cui uscirà nel 1924 definendosi un redivivo, un “reduce” molto esattamente; un’opera originale che raggruppa ogni annotazione della cartella medica, frammenti autobiografici di Warburg e un nutrito scambio epistolare tra i due uomini è stata pubblicata tardivamente, molto dopo la loro morte.  Per la scuola esistenzialista il segno e l’influenza intersoggettiva non si limitano più quindi solo al rispetto minimo di una differenza o specificità dell’altro ma si riferiscono ad una necessità fondamentale di accordarsi e confrontarsi per un percorso comune, una traiettoria mutualizzata di ampio respiro per giungere liberamente a scrivere una storia condivisa che finisce per acquisire un senso aperto. Siamo qui molto lontani da un’azione psicoterapeutica che sia, come scrive Binswanger “al solo servizio dell’oggetto” e da un clinico ridotto al ruolo di erogatore di servizi di fronte colui che è stato chiamato a volte molto impropriamente, secondo una infelice deriva capitalista, un “cliente”. Lo esprime in modo ancora più chiaro nello stesso saggio, non senza una critica verso un certo accademismo psicoanalitico in cui non si riconosce: “Tale cura psicoterapeutica non rappresenta solo un lavoro spirituale in comune applicato ad un oggetto o ad un problema comune, un servizio o di conseguenza una performance, ma anche un contatto comunicativo ed una reciproca influenza continui, cosa che è l’elemento decisivo proprio ad ogni trattamento psichico. In nessun modo questa comunicazione dovrebbe essere concepita, come credono gli psicanalisti ortodossi, come semplice ripetizione, quindi, nel caso positivo, come transfert e contro-transfert e, nel caso negativo, come resistenza e contro-resistenza, in quanto la relazione tra malato e medico rappresenta un fatto di comunicazione nuovo ed autonomo, un nuovo legame creato dai due  destinati, non solo in funzione del rapporto malato-medico, ma ancora, e soprattutto, in funzione della relazione puramente umana, nel senso di un’autentica collaborazione.” Binswanger insiste sul fatto che si tratta proprio di un mettere in comune esperienze vissute in modo condiviso e non di una ricostruzione unilaterale o di due ricostruzioni
divergenti in funzione delle eterogenee competenze che i due si scambiano; questa elaborazione, precisa ancora, sottolineando nel suo testo un gran numero di passaggi a cui attribuisce quindi un valore preponderante, si basa su “ un lavoro paziente, comune, sistematico, per una ricostruzione delle esperienze vissute e una ricostruzione riflessiva della storia interiore della vita, lavoro assolutamente creativo per i due partecipanti, lavoro fatto dell’assemblaggio di azioni, esperienze, di comprensione e di interpretazione che, formando fin dall’inizio gli uni con gli altri un tessuto lasco, appaiono poco a poco come sempre più legati tematicamente e strutturati, così che, al posto dell’intervento intuitivo, il tema, ora, diventa determinante.” Nel corso di questa avventura esplorativa, che egli valorizza in quanto creativa e non solo recettiva alle due estremità di un partenariato impossibile da ridurre a due protagonisti, nel senso che implica una coppia di persone in posizione paritaria, che uniscono i loro sforzi nella conquista per tentativi di un orizzonte intravisto insieme, la ricostruzione qualificata da Binswanger come “riflessiva” potrebbe quindi implicare tre registri da declinare intrecciati e da far vivere insieme: quello di una riflessione, nel senso intellettuale del termine, di un paziente invitato a pensare il corso della propria esistenza in compagnia di un clinico che la esamina con lui, dove ciascuno è implicitamente invitato ad integrare una rifrazione dell’altro sulla propria esistenza. Questi tre riflessi sono a loro volta chiamati ad aggiustarsi costantemente gli uni agli altri, come in una fuga musicale, in nome, in ricordo e in virtù di una comune appartenenza a delle radici umane. Strada facendo, siamo passati da un contenuto a un tema, cioè un insieme organizzato e significante portato verso un destino, una realizzazione e un compimento di sé. Così per Binwwanger ogni progetto psicoterapeutico non punta né in origine né essenzialmente né in modo prioritario a qualche miglioramento del benessere del paziente ma comporta la comprensione della sua specifica azione e di lui stesso in cammino. E’ quello che viene sintetizzato e sottolineato in un passaggio di una relazione più matura del 1958 dove scrive: “Così l’analisi esistenziale non porta solo alla psicoterapia ma anche alla sua stessa comprensione.” Ogni psicoterapia, si potrebbe dire in altro modo, si dimostra simultaneamente “meta-psicoterapia”, continua a ridefinirsi attraverso le iscrizioni reinventate senza fine della sua realizzazione. Mentre l’approccio naturalista, di causalità lineare, all’opera nelle scienze sperimentali, studia come l’Uomo viene determinato, l’approccio fenomenologico ed esistenziale cerca di comprendere, attraverso la sua indagine e le scoperte che ne procedono, come l’Uomo si determina includendosi antropologicamente in quanto Uomo e soggettivamente in quanto persona. L’anno scorso ho restituito a sufficienza la posizione di Minkowski nella scia, continuità, complementarietà, assortita di alcune critiche verso i suoi illustri predecessori e contemporanei della stessa corrente per cui non è necessario ritornarci di nuovo. Accontentiamoci quindi di ricordare l’importanza primordiale che accorda, nello sviluppo dell’affettività ma anche più ampiamente nel suo percorso fenomeno-strutturale, ai fenomeni dell’eco e della risonanza in quanto attestano e trasmettono un’innata solidarietà umana: “ Se la vita istintivoaffettiva attraversa la vita dell’individuo e la segna, l’affettività-contatto trova il suo fondamento ‘tra gli individui’, nel senso che  subito, come lo diciamo, ha un carattere interumano. Non sono più in gioco pulsioni o sentimenti individuali. Il fenomeno essenziale su cui si basa questo aspetto importante della nostra esistenza è quello dell’eco o della risonanza. Questo fenomeno è anteriore (non nel senso cronologico del termine) alle manifestazioni individuali in occasione delle quali, all’occorrenza, si realizza […] Lo “psichico” non ha come unica origine movimenti d’anima limitati al soggetto. Si basa, al contrario, su fenomeni “interumani” per essenza. Essi costituiscono il quadro generale in cui viene ad inserirsi, mostrandosene tributaria, ogni vita individuale.” Poco sorprendente, viste queste condizioni, questa massima di Minkowski, bastone del pellegrino di tutta una vita, e alla quale il nostro mondo attuale farebbe bene ad ispirarsi  come motto o metterla all’ordine del giorno: “Infatti l’uomo è fatto per cercare l’umano”.  Allora, amico, in cosa dovrei ancora giustificarmi per voler continuare il più a lungo possibile e fino alla fine una scalata così appassionante? A lui come a voi, che dovreste esservene convinti abbastanza, ho tentato di fornire alcuni motivi legittimi quanto entusiasmanti, prendendo a pretesto il suo stupore. Se qualcuno ad ogni costo volesse attribuirmi un’aspettativa egocentrica nell’incontro con i pazienti, allora consideriamola una prova di familiarizzazione con le situazioni-limite, perché non una specie di tentativo di mitridatizzazione, o come minimo di lenitiva attenuazione dei loro deleteri effetti,  superati ma ancora vivi, o anche d’esorcizzazione rispetto la temuta possibilità di una loro recidiva. Dove sarebbe l’impostura, l’impudenza o la colpa nel riconoscere queste fragilità che ci abitano ma anche ci animano? Più altruista e pragmatica, si potrà indovinare, tuttavia, soggiacente, un’aspirazione a servirsi di esperienze tratte da proprie perigliose traversie per cercare di farne beneficiare altri. Il nostro intervento si esercita così in memoria dei sostegni che ci sono stati offerti nelle circostanze in cui ci siamo sentiti vinti dal terrore, la disperazione, la siderazione, la solitudine: gesti previsti o inattesi, timidi o esuberanti, maldestri o goffi, in ogni caso toccanti nel loro sforzo di solidarietà durante il superamento di questi scogli nel bel mezzo di un mare in tempesta. Più in generale infine, resta il piacere dello scambio riguardo a queste situazioni critiche e al loro radicamento umano. All’uscita da una di queste fasi, una dei miei pazienti prendeva coscienza che non era solo libera da un brutto momento e ormai al sicuro da quello che l’aveva tormentata. Trovava un’ispirazione sussidiaria nel suo ritrovato respiro grazie ad una soddisfazione complementare, espressa nel suo edificante commento che ormai non ha niente di cui stupirci: “Sono contenta di aver condiviso tutte queste cose con lei…” . “A volte, mi piacerebbe essere già in pensione, e lasciare il lavoro ad altri. Ma chi tra i mortali mi metterà in
pensione?”, confessa un Freud perplesso tra stanchezza ed arroganza al suo amico Binswangwer, in una lettera che gli invia da Marienbad nel luglio del 1913. Vi sono molto riconoscente, come ai miei pazienti l’avrete capito, di contribuire alla sospensione compiuta per me di una parte della sfida di questa ambivalenza freudiana, orgogliosamente combattuta tra l’insostenibile ostracismo di tutti gli altri “mortali” e l’imbarazzata solitudine del suo ultimo desiderio,  appena nascosto, di farne alla fine parte. Le anticamere del pensionamento e della morte rappresentano delle “situazioni limite” nel senso di Jaspers, in cui sono messe alla prova, in persistente o ricomposta compagnia di alcune e in assenza di altre, le nostre capacità a salvaguardare, tra assenza e presenza, rinnovate gemme d’esistenza per le quali incombe su di noi la responsabilità collettiva di avere gran cura.