Il male come motore di trasformazione.

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Psicoterapia con l’ITPSilvano Secco

Silvano Secco: psicologo e psicoterapeuta ITP.

Il male come motore di trasformazione.

“Non esiste grande genio senza una dose di follia.” (Aristotele)

 

Quando il male esce dall’Ombra la sua funzione, spiega bene Marie-Louise von Franz[1], è quella di suggerire o costringere il bene ad incamminarsi con l’Io, affrontare delle prove e produrre così dei cambiamenti inaspettati nell’Essere.

Svariatissime sono le figure psicologiche mediante le quali il male può essere rappresentato, a cui si può contrapporre ciascuna volta il suo opposto il bene. Potremmo come esercizio riempire questo diagramma inserendo l’opposto del male in ciascuna casella.

 

Male Bene
Tenebre ?
Buio dell’inconscio ?
Diavolo ?
Uomo nero ?
Strega ?
Serpente ?
Lupo ?
Squalo (di Pinocchio) ?
Mostro ?
Orco ?
L’estraneo ?
Mister Hyde ?
Ritratto di Dorian ?
Il doppio o i doppi ?
L’ombra ?
Seth (dio egiziano della distruzione che viene portato dal vento del deserto) ?
Susanawo (dio giapponese dell’uragano) ?
Diabolic ?
Piccolo diavolo di Benigni ?
Personaggi dei film horror ?
Il peccato originale (cristiani) ?
Le possessioni diaboliche (= irruzioni di complessi inconsci) ?
Debito karmico (concezione orientale) ?
Pulsione di morte (Freud 1920 Al di là del principio di piacere) ?
Seno cattivo (Klein) ?

 

Le caratteristiche del male sono:

  • Energia
  • Aspetto numinoso (tremendum e fascinosum)
  • Distruttivo
  • Affascinante ed attraente
  • Perturbante (un-heimlich di Hoffmann e poi in S. Freud)

Il male si associa volentieri e frequentemente in vari modi e forme a:

  1. Dolore fisico
  2. Dolore psicologico o sofferenza
  3. Al peccato o senso di colpa

I fenomeni di possessione.

Sentirsi posseduti, è vivere il proprio Io in balia di forze non definibili, difficilmente rappresentabili o per contro percepirsi in balia di figure paurose, terrificanti, in casi estremi definite diaboliche, come ad esempio nelle rappresentazioni di Goya che aveva dipinto sui muri della Quinta del sordo. Da un punto di vista della psicologia dinamica i fenomeni di possessione sono il risultato di potenti irruzioni nella coscienza dell’Io di complessi inconsci.

Tali irruzioni, che creano terrore e panico, possono emergere anche in fasi specifiche dello sviluppo come ad esempio la preadolescenza o l’adolescenza. Quando cioè si sta evolvendo una differenziazione accelerata della struttura psichica. È proprio questa accelerazione che può provocare irruzioni violenta nella psiche di un adolescente delle istanze (Io, Super Io, Es) che prendono una loro forma autonoma. La descrizione che ne dà l’adolescente e la sue reazioni di terrore possono far ipotizzare la diagnosi di allucinazioni psicotiche, in realtà sono delle esperienze soggettive di elementi strutturali che, di fatto, si devono integrare, associare, inducendo il dialogo interiore.

In altri termini la reazione di paura o di terrore manifestati dalla persona ci fa comprendere come l’Io sia presente in maniera debole e la sua organizzazione venga travolta, con il rischio di essere messo in scacco o addirittura offeso nelle sue funzioni. Di fatto, secondo Jung, l’Ombra e il male sono essenziali al processo di individuazione.

 

I complessi.

I complessi, secondo Pierre Janet e poi Carl Gustav Jung, sono parti autonome della psiche che possono emergere nella quotidianità o nei sogni come personalità parziali, ma con una loro caratterizzazione specifica e si comportano come i diavoletti di Cartesio.

C’era un paziente psicotico che scherzosamente chiamava l’emergere della sua follia il “mio diavoletto”; così quando ne aveva percezione, ovvero quando il radar del suo Io ne percepiva la presenza, si rivolgeva spontaneamente allo psichiatra per regolare il suo diavoletto con i farmaci. Una delle funzioni della psicoterapia ITP, in questo caso, fu quella di aiutare il paziente a percepire queste sue parti scisse e indurre i paziente a chiedere aiuto, anche farmacologico e nel tempo dialogare con queste.

Secondo Jung un complesso è un nucleo a tonalità affettiva ed archetipica, venne scoperto somministrando un test proiettivo di associazione di parole.

Jung: Il complesso ha una sorta di corpo, una certa quantità di fisiologia propria. Questo può disturbare lo stomaco. Disturba il respiro, disturba il cuore – in breve, si comporta come una personalità parziale. Per esempio, quando volete dire o fare qualcosa e, sfortunatamente, un complesso interferisce con questa intenzione, allora fate o dite qualcosa di diverso dalle vostre intenzioni, allora fate o dite qualcosa di diverso dalle vostre intenzioni. Voi siete semplicemente interrotti, e la vostra migliore intenzione viene turbata dal complesso, esattamente come se foste stati interferiti da un essere umano o da circostanze esterne.”

Ancora sempre secondo Jung in termini scientifici il complesso: “E’ l’immagine d’una determinata situazione psichica caratterizzata in senso vivacemente emotivo che si dimostra inoltre incompatibile con l’abituale condizione o atteggiamento della coscienza.”

 

Cosa fare?

Se il male fa parte di noi, se il male è inevitabile, se incontrare queste figure ci distruggono o per contro ci aiutano, pur nella sofferenza o nel terrore, a conoscerci e a crescere, qual è il nostro obiettivo come persone? E poi noi psicoterapeuti che abbiamo la missione di aiutare, soccorrere i pazienti come possiamo intervenire?

Scindere e differenziare i contrari, separare il bene dal male, non è sufficiente, anche perché una parte quando è solo scissa mantiene una sua individualità e un suo nucleo di energia che può indurla a ripresentarsi, in qualsiasi momento, nello scenario della psiche. Possiamo affermare che scindere o meglio differenziare il male dal bene, guardare e comprendere, è solo il primo passo.

Gli opposti, il male ed il bene, dovranno essere con-tenuti, poiché sono facce di una stessa medaglia e funzionano come il simbolo (= συμβάλλω  = symballo, dalle radici σύν “insieme” e βάλλω “gettare”, avente il significato generico di “mettere insieme” due parti distinte). Infatti il soggetto continuando solo a separare rischia di originare il diabolico ( = dyaballein secondo gli antichi greci  è l’atto di separare).

In altri termini esiste in noi, ovvero nell’Essere umano che mira al Sé, inteso come entità globale, e certamente anche nell’Io, la cifra della nostra esistenza, la nostra individuazione in perenne trasformazione, fino all’ultimo istante del nostro soggiorno nella vita terrena.

Una delle differenze tra la psicologia ad indirizzo cognitivista e la psicologia ad indirizzo psicodinamico, è proprio questa, mentre la prima mira all’Io ed alle sue funzioni di coscienza, la psicologia psicodinamica, che ha come riferimento il lavoro di Jung, sottolinea l’importanza dell’impegno dell’Essere verso individuazione e la costruzione di un Sé armonioso. La vita in generale, intesa come continua trasformazione, procede in quanto attratta dal lavoro di coppie degli opposti.

È nel suo ultimo lavoro Mysterium coniunctionis che Jung affronta l’archetipo della coppia di opposti. La coniunctio junghiana della materia e dello spirito s’innesta in un “luogo intermedio” (metaxû), dove la coscienza e la materia psichica s’integrano, interagendo. Negli stessi anni Henri Corbin definirà tale strato come Imaginale, dando avvio ad una serie di ricerche che delineeranno gli studi contemporanei sull’immaginario collettivo, avallati dagli stessi junghiani, ma anche da studiosi di altre discipline, come, per esempio, Gilbert Durand, teorico di un’antropologia dell’Immaginario.

Relativamente al quesito inerente al cosa fare? è interessante far riferimento alla ricerca operata da Marie-Louise von Franz sulle fiabe, in particolare alla prima parte del suo libro L’Ombra e il male nella fiaba[2], quando parla dell’Ombra. Nelle favole emerge dall’Ombra una figura negativa, maligna opposta a quella positiva incarnata dal bene.

Marie-Louise von Franz, ma anche Bruno Bettelheim, individua delle funzioni psicologiche interne alla fiaba, e per la risoluzione del conflitto, in termini di evoluzione del Sé, sottolinea che è importante la funzione del personaggio terzo. Ad esempio nella fiaba dei Tre porcellini è il terzo che agisce la funzione dell’Io e individua la soluzione, quasi sempre comunque il più piccolo.

Nell’artista esiste un contenitore importante, ovvero l’arte. L’arte diviene un sacco contenitore dove potersi immergere, corpo e psiche, per trasformare la dolce sofferenza. Esiste poi nelle fiabe un quarto elemento che interviene per aiutare nella ricerca di una soluzione, che di fatto è trasformazione del Sé, ovvero l’anima o animus.

Jung dal canto suo in La Psicologia della Traslazione (1946) scrive che conoscere la propria Ombra rende l’uomo corporeo. In Psicologia e Religione (1938-1940) Jung scrive: Ognuno è seguito da un’Ombra, tanto più nera e densa quanto meno è incorporata nella vita cosciente dell’individuo. Nelle opere sull’alchimia, l’Ombra viene paragonata alla nigredo, la nerezza, appartenente alla prima materia. Rammento che Goya aveva dipinto le sue pitture partendo da uno sfondo nero pece.

Jung ha proposto anche una differenza tra l’Ombra personale e l’Ombra  collettiva.  L’Ombra personale è direttamente legata alla storia personale, alle proprie rimozioni. Robert Bly nel suo Il Piccolo Libro dell’Ombra, descrive l’Ombra personale come una sacca che ci portiamo sulle spalle piena di tutti quei contenuti psichici, che per le più svariate ragioni, tendiamo a non spendere coscientemente nella nostra vita. L’Ombra collettiva è legata agli archetipi, allo spirito del tempo, è inevitabilmente connessa con il tema del male.

 

Il male come motore di trasformazione.

Il male inteso sia come archetipo, associato al bene, sia come esperienza di vita che incontriamo incidentalmente, nel momento in cui ad esempio interviene una malattia fisica, o un evento esterno quale un terremoto, diventa motore di trasformazione che si manifesta a più livelli. La trasformazione potrà procedere verso una direzione negativa o positiva, involutiva o evolutiva.

Vi è il male che nella sua accezione più desueta, ma anche la più conosciuta, determina sofferenza ed altera le funzioni, non solo biologicamente vitali, depauperandole, oppure modificando quelle più creative.

William Utermohlen è un artista americano che ha lavorato a Londra per la maggior parte della sua vita professionale, nato il 4 dicembre del 1933 e morto nel marzo del 2007 per le conseguenze della malattia di Alzheimer diagnosticata nel 1995. Egli ha sempre dipinto, anche durante il periodo della malattia, e la moglie ha raccolto le sue opere, dalle quali si può osservare la perdita graduale e la deformazione delle forme.

Vi è poi il male che con la sua forza, con la sua energia mobilita le funzioni vitali prima sopite, mobilita i processi creativi, favorisce un certo tipo di conoscenza.

Nel Giardino dell’Eden in mezzo vi era l’albero della vita e poi viveva anche l’albero della scienza del bene e del male. Dei frutti, di questo secondo albero, Dio disse ad Adamo ed Eva che non dovessero mangiarne alcuno, pena la morte. Il serpente li tentò promettendo che, se ne avessero mangiato il frutto, i loro occhi si sarebbero aperti e sarebbero diventati conoscitori del bene e del male. Il prezzo, dell’ingordigia orale e della collegata consapevolezza, divenne la cacciata dal Giardino e la futura sperimentazione del dolore.

 

Il male nell’arte.

Queste le affermazioni di alcuni artisti:

Hegel: il male è motore della storia.

Artaud: ho bisogno che il male mi raggiunga, altrimenti non posso creare.

Klee: il male non è un nemico che ci schiaccia o ci umilia, ma una forza che collabora all’insieme.

Kandinskij: ciascuna opera nasce da catastrofi.

Delacroix: per dipingere, necessità di avere la febbre.

Poussin: dipingendo mi sento infiammato.

Kafka: il male è informato del bene, ma il bene non sa niente del male.

Due le domande fondamentali: che cos’è l’arte e che cos’è il male? Possiamo aggiungere una terza domanda, ovvero quali sono i punti di contatto tra il male e l’arte?

Le arti in generale sono una messa in scena dei conflitti e dei complessi nascosti nell’immaginario o dall’immaginario.

Che cosa differenzia l’artista dall’uomo qualsiasi? L’artista possiede la capacità della messa in scena, grazie al confronto, esplicito ed irriverente, con il peccato originale e con il desiderio. Lo stare nel giardino dell’Eden per poi uscirne con la mela e con il rischio continuo della punizione, ovvero della malattia che è la figlia negativa del male e del bene.

L’arte presuppone sempre, in qualsiasi contesto si trovi, l’addomesticamento del gesto, che si chiama anche tecnica. In pittura, scultura, musica è come se la mano che pensasse per immagini. Nella danza è tutto il corpo nella sua globalità che vive le immagini. Ogni generazione in periodi storici diversi crea una propria arte, vedi ad esempio la Venere di Hohle Fels, i graffiti dove vi sono le impronte delle mani.

Semir Zeki, fondatore della neuroestetica, afferma che (una) funzione principale del cervello è l’acquisizione di nuove conoscenze sul mondo e l’arte visiva ne è una estensione. In altri termini l’arte estende le funzioni del cervello e vi partecipano tutti i sensi, in particolare, secondo lo scienziato, la vista.

 

Francisco José de Goya y Lucientes. (1746-1828)

Quando nei seminari, convegni o libri viene affrontato il tema del male viene utilizzata frequentemente come immagine simbolica il Saturno devorando a su hijo di Goya. Questo dipinto fa parte di una serie di dipinti eseguiti da questo pittore incisore sui muri della casa chiamata Quinta del Sordo. Guardando tutta la produzione artistica del pittore, vissuto fino all’età di 82 anni, è come se vi fossero due stili molto diversi l’uno dall’altro. Quello prima della manifestazione dei sintomi della malattia, quand’era pittore della Corte spagnola in stato di salute, e quello successivo, dopo l’alternanza di stati  acuti di malattia, sviluppatasi nell’arco di alcuni decenni, intervallati da periodi di ripresa della salute.  I periodi di malattia ed in particolare il sintomo più grave che fu sempre presente, ovvero la sordità, condussero Goya alla introversione ed alla creazione di uno stile molto originale, nuovo.

I biografi riconoscono l’esistenza, già nel 1777, di un lieve stato di malattia con dolori addominali, cefalea, disturbi all’udito, alla vista, parziale perdita dell’uso della mano, durato forse per pochi giorni. Un’altra breve descrizione di malattia la ritroviamo in una missiva del 1787 quando scrive: “Sono magro e non lavoro molto … sono diventato vecchio , con molte rughe … occhi incavati e naso camuso”.

Il primo episodio della sua malattia è datato 1792-93. Goya si lamentava di forti dolori, tutti concentrati sulla testa, e la sordità mista a ronzio persiste. Proprio nel 1793 esegue il suo primo Autoritratto nello studio rappresentativo forse del recupero dello stato di salute.

Il secondo grave episodio si verificò nel 1819. Il terzo e ultimo episodio grave si manifestò nel 1825.  Ad aprile del 1819 quindi ebbe il secondo attacco con febbre, paralisi parziale, cefalea, deliri, allucinazioni.  Nel 1820 una volta ristabilitosi dalla malattia il pittore ubbia sulla tela l’interessante Autoritratto con il medico Arrieta (1820). E’ probabile che già in quel periodo Goya fosse stato messo al corrente dal medico della diagnosi della sua malattia e relativa denominazione che traspare in tutta la sua espressività nel Saturno che divora i suoi figli (Saturno devorando a su hijo) 1821-23.

Prima di trovare i dipinti della Quinta del Sordo vi è la serie di 80 incisioni dei Capricci, eseguiti tra il 1797 e il 1799 in bianco e nero, con varie sfumature di grigio, dove i colori più che scomparire sono stati, per così dire, assorbiti, sintetizzati nei neri. Sono rappresentazioni libere di sogni, allucinazioni, fantasie dell’uomo Goya che forse anche tramite l’attività artistica dell’incisione cercava una via rappresentativa e auto curativa al male che lo affliggeva, oltre che certamente un tentativo riuscito di critica umoristica rivolta ai problemi sociali.

Durante un soggiorno di riposo in Andalusia nell’autunno del 1792 (46 anni) Goya si vide repentinamente assalito da vertigini, cecità, emicranie e sordità. Sintomi che sparirono nel giro di alcune settimane,  tranne la sordità che rimase per tutto il resto della sua vita.
L’attività di pittore nella Corte passò in secondo piano e si concentrò alla realizzazione di queste opere di piccolo formato in bianco e nero, nelle quali egli scrisse “sono riuscito a fare molte osservazioni che di rado trovano posto nelle commissioni che mi vengono affidate, dove il capriccio e la fantasia non sono i benvenuti”.

Jean Starobinski scrisse: “Nel 1789 Goya è destinato a un’evoluzione che lo allontanerà dallo stile dei suoi esordi. Non solo per la sordità comparsa dopo la malattia del 1793, egli è vicino a Beethoven: ma anche per la straordinaria trasformazione stilistica attuata in pochi decenni. Questi due artisti chiusi nella solitudine sviluppano nella loro produzione un mondo autonomo, con degli strumenti che l’immaginazione, la volontà e una sorta di furore inventivo non cessano di arricchire e di modificare, al di là di ogni linguaggio preesistente”.

La malattia di cui soffriva Goya fu determinata probabilmente, secondo lo psichiatra W.G. Niederland e la storica dell’arte M.T. Rodrìguez Torres, dall’utilizzo massiccio che faceva di colori che contenevano piombo. Questa malattia chiamata anche saturnismo dal latino Saturnu(m) che è il nome del pianeta attribuito al piombo dagli antichi alchimisti medievali.

Dobbiamo poi aggiungere per comprendere il famoso quadro che, dei venti figli che la leggenda  attribuisce a Goya, ovvero dei sei che si possono ritrovare nei documenti ufficiali, ne rimase vivo solo uno e anche questi eventi luttuosi forse possono essere fatti risalire al contatto con un ambiente inquinato dal piombo.

 

Vincent Van Gogh 1853-1890.

Vincent van Gogh prima e dopo la morte ebbe molte diagnosi: epilessia, demenza, psicopatia, psicosi degenerativa, reazione schizoide, tumore cerebrale, psicosi luetica, schizofrenia, epilessia psicomotoria, colpo di sole, intossicazione alcoolismo da assenzio, avvelenamento da acqua ragia o da trementina.

Da giovanissimo quando abitava all’Aja ebbe violente emicranie e continui esaurimenti nervosi, contrasse la blenorragia da Sien, la prostituta con la quale conviveva.

Ad Anversa, un paio d’anni più tardi, iniziò ad accusare dolori allo stomaco, determinati anche dalle pessime condizioni dei denti e della masticazione e dalla sconfitta di essere stato scartato dal Consiglio dell’Accademia di Belle Arti.

La follia cominciò a rendersi manifesta nei violenti litigi con Gauguin, con episodi di aggressione fisica. Poco prima il pittore aveva anche appreso la notizia delle imminenti nozze del fratello Theo. Ad Arles, il pittore si tagliò il lobo dell’orecchio sinistro e lo portò incartato, “per ricordo”, a Rachele, una prostituta appena sedicenne disputata con Gauguin.

Negli ultimi anni, Vincent van Gogh trapiantò sulla tela le sue angosce ed i suoi turbamenti. Nel penultimo anno di vita, trascorso nel manicomio di Saint‑Remy, eseguì centocinquanta quadri e cento disegni. Egli arrivò al manicomio dopo essersi amputato l’orecchio nel maggio del 1889. Ricordiamo alcuni tra i vari dipinti: Gli Iris,  La camera di Vincent ad Arles, L’autoritratto blu,  L’Arlésienne,  La notte stellata.

Col passare del tempo i disturbi psicologici e comportamentali si accentuarono, van Gogh arrivò a gettare dal balcone i mobili di casa, ad ingerire tubetti di colore e bere acqua ragia. Venne quindi ricoverato in manicomio e nell’aprile 1889 Vincent van Gogh, La corsia dell’ospedale, 1889, Oskar Reinhart Collection ‘Am Römerholz’, Wintertur.

Domandò spontaneamente di entrare come pensionante nella casa di cura di Saint‑Paul‑de‑Mausole, dove gli fu concessa una stanza e la possibilità di recarsi nei campi, sotto la sorveglianza di un guardiano, per dipingere. Vincent Van Gogh, Campo di grano con volo di corvi, olio su tela (50,5×100,5 cm), 1890, Van Gogh Museum di Amsterdam.

Poco dopo si trasferì in un luogo più confortevole, ad Auvers-sur‑Oise, dove fu preso in cura dal dottor Paul‑Ferdinand Gachet. Il pittore lo raffigurerà in diversi quadri, in uno dei quali il medico è seduto con davanti un fiore appoggiato in un bicchiere. Il fiore di una pianta cantata anche da Giovanni Pascoli come simbolo di morbosità e peccato.

A 37 anni mentre camminava nei campi, il pittore (probabilmente) si tirò un colpo di rivoltella al cuore. Morì pochi giorni dopo. Secondo alcuni critici l’ultimo quadro che dipinse fu quello dei Campo di grano con volo di corvi secondo altri fu invece Radici d’albero che tra l’altro egli non aveva completato e stilisticamente appare anche come figurativamente incompleto. Forse le radici del male.

 

Emily Bronte .

Emily Bronte ha scritto poche poesie ed un libro bellissimo Wuthering Heights (Cime tempestose). La sua interiorità trovò voce solo nella scrittura e nella creatività, mentre nella realtà quotidiana visse in piena austerità con le sorelle in una canonica, senza conoscere l’amore reale, se non, appunto, tramite i personaggi che il suo Immaginario riuscì a plasmare, Catherine Hearnshaw e Heathcliff.

L’amore dei suoi personaggi fu un amore incompiuto e carico di sofferenza, nato e vissuto nella brughiera durante un’infanzia svincolata dalle regole oppressive degli adulti bigotti. Il male nella narrazione di Cime tempestose, arrivò sotto il mantello del padre nelle sembianze di un bambino zingaro adottato, Heatchcliff (= il nome significa brughiera scogliera). Senza alcun dubbio appare perturbante il parallelismo tra la morigerata moralista e buonista Emily ed il suo perverso personaggio Heathcliff consacrato al male ed alla distruzione. Anche Caherine, con la quale forse Emily si era identificata, pronuncerà a lui l’ultima frase d’amore assoluto “I am Heathcliff”. Attraverso il romanzo Emily vive l’amore e l’infanzia, ma riesce anche ad aggirare la Legge della morale e della ragione. Ma per assurdo, solo nel momento della morte vi è la confessione della purezza dell’amore, similmente a molte altre storie dove l’intensità e la proibizione sociale dell’amore, questo si svincola dalle regole sociali attraverso la porta della morte e del male.

Sembra che solo la letteratura possa far conoscere ad Emily le forze della sessualità e del male, da queste lasciarsi trasportare, ma solo perché il tutto si svolge nelle budella dell’immaginario, nei meandri dell’arte, e delle scrittura in questo caso. Nel contesto quotidiano della morale e della religione questo (mascheratamente) è impossibile.

Eppure non eviterei nessuna spina,

né vorrei nessuna fortuna lenita.

Più questo martirio mi strazia,

e più presto mi libererà.

E sia essa ammantata di fiamme infernali

O splendente di luce celeste.

Sempre che venga ad annunciarmi la morte,

sarà una visione divina.

The prisoner, 09.10.1845.

 

Charles Baudelaire

Il quarto e ultimo componimento della prima sezione del libro di Charles Baudelaire, I fiori del male, si intitola Spleen. I temi trattati sono la noia, l’insopportabilità di vivere, l’angoscia per l’esistenza percepita come vuota.

Spleen significa tradotto in italiano milza e deriva dal greco (splēn), successivamente ha assunto il significato di malinconia, disgusto, tedio esistenziale. Le antiche teorie mediche localizzavano nella milza la determinante della depressione.

Sopra la porta dell’inferno di Dante troviamo la scritta: Lasciate ogni speranza a voi che entrate.

I campi semantici della poesia di Baudelaire si rifanno ad attributi clinici:

La claustrofobia la ritroviamo nel cielo basso, nel coperchio, nella prigione umida.

L’umidità la troviamo nella prigione umida, nel soffitto marcio, nella pioggia, nel pianto.

Il suono e il rumore li troviamo nelle campane, nelle urla e nei gemiti, nell’assenza di rumore, nel silenzio funebre.

I colori li troviamo nella luce nera del giorno, nel vessillo nero contenente anche l’angoscia.

Spleen:

Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni, e versa, abbracciando l’intero giro dell’orizzonte, un giorno nero più triste della notte;

quando la terra è trasformata in umida prigione dove la Speranza, come un pipistrello, va sbattendo contro i muri la sua timida ala e picchiando la testa sui soffitti marci;

quando la pioggia, distendendo le sue immense strisce, imita le sbarre d’un grande carcere, e un popolo muto d’infami ragni tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli, improvvisamente delle campane sbattono con furia e lanciano verso il cielo un urlo orrendo, simili a spiriti vaganti e senza patria, che si mettono a gemere ostinatamente.

E lunghi trasporti funebri, senza tamburi né bande, sfilano lentamente nella mia anima; vinta, la Speranza piange; e l’atroce Angoscia, dispotica, pianta sul mio cranio chinato il suo nero vessillo.

 

William Blake.

William Blake (Londra 1757-1827) incisore e poeta rivendica il primato dell’immaginazione sulla razionalità, anticipando il pensiero di Nietzsche. Egli nel suo lavoro combinava la scrittura con le incisioni iconografiche.

Egli scrisse queste eloquenti frasi: “L’immaginazione non è uno stato mentale; è l’esistenza umana stessa”[3], “Senza contrari non c’è progresso”.

Con il suo lavoro di incisore ritrasse il Libro di Giobbe e L’inferno di Dante. La sua vita esteriore non corrispose con la sua vita interiore proiettata nelle sue incisioni e nei suoi scritti, simile all’intuizione introversa di cui si è occupato Jung. Per quest’ultimo le intuizioni delle immagini dell’inconscio hanno la medesima dignità delle cose e degli oggetti[4]. Blake rischia ancor maggiormente affermando: Le percezioni dell’Uomo non si limitano agli organi percettivi, l’Uomo percepisce più di quanto possano scoprire i sensi. E questo avviene grazie alla poiesis, alla percezione poietica, al Genio poetico prodotti direttamente dalle forze dell’Immaginario.

 

Da Charcot a Freud.

Jean-Martin Charcot, maestro di Sigmund Freud, scrisse con Paul Richer un interessante testo dal titolo Les démoniaques dans l’art (Paris 1887)[5]. Dove riporta i disegni, le incisioni, i dipinti delle posture delle isteriche riprodotte nell’arco dei secoli spostando l’attenzione dalla demonologia teologica, dove era stata rigettata fino al XVIII° secolo, alla patologia su un piano clinico, mediante una disamina delle rappresentazioni artistiche.

Il corpo era immaginato come il contenitore e l’incarnazione del male altrimenti invisibile. Così Charcot individuò nelle rappresentazioni fatte dagli artisti nell’arco dei secoli come una testimonianza senza alcun dubbio migliore rispetto ai trattati medici e demonologici.

Il corpo con le sue posture teatrali e ben raffigurate diviene per Charcot il ponte tra l’Immaginario ed il reale. Charcot coglie in queste produzioni artistiche una caratteristica che troviamo anche in pittori dell’epoca di Freud, quali Kokoschka e Schiele, e cioè l’eccedenza o teatralità estrema. In quei periodi a cui si riferisce Charcot, ora nei nostri tempi non più, il corpo dell’isterica assumeva forme contratte, vi era la forma inarcata, la convulsione isterica, oppure all’opposto la forma estatica del santo.

Charcot, anche von Franz, sottolinea come nei quadri, gli episodi comprendessero sempre la presenza di tre personaggi. Sarà comunque questo corpo, chiacchiericcio del male, che provocherà l’invenzione della psicanalisi freudiana che, della clinica, diede sempre più spazio alla sola immagine acustica della parola.

 

Da Freud a Kokoschka, Schiele.

Freud elaborò, grazie all’aiuto delle isteriche, la sua cura attraverso l’uso della parola, mentre Klimt, Oscar Kokoschka, Egon Schiele intrapreso una forma di autoanalisi tramite l’immagine[6]. Tutti questi sperimentatori vissero nella stessa epoca, ma intrapreso strade diverse.

Kandel scrive: Kokoschka usava queste tecniche non per ottenere un ritratto somigliante al modello, ma per catturarne i tratti psicologici, i sentimenti e l’umore. Così facendo, inconsciamente portava alla superficie anche le sue sbrigliate pulsioni istintive … essa agisce quindi come narrazione dell’inconscio dello stesso Kokoschka nel momento n cui costruiva l’immagine … specialmente i gesti delle mani possono comunicare le emozioni … sono mani parlanti.

Egon Schiele invece utilizzava l’intero corpo. La narrazione avveniva, ancora una volta, attraverso distorsioni ed esagerazioni.

Semir Zeki, uno dei fondatori della neuroestetica, afferma che l’arte visiva è una estensione di una delle funzioni principali del cervello di acquisizione di conoscenze con caratteristica di novità. Quindi l’arte estende le funzioni del cervello. Di fatto, partecipano tutti i sensi e non solo quello visivo.

Dennis Dutton, filosofo dell’arte, afferma che noi ci siamo evoluti come narratori naturali poiché le attività immaginative partecipano alla nostra sopravvivenza. Narrare storie attraverso la parola, ma anche attraverso il disegno, l’incisione e altro ancora sono modi immaginari di affrontare la vita ed i suoi problemi esistenziali.

Dove c’è l’uomo c’è arte, dove c’è l’essere vivente c’è arte, vedi ad esempio le figure tracciate nei fondali marini dal pesce palla.

Kandel E.R. scrive[7]: la nostra risposta all’arte nasce da un’irrefrenabile urgenza di ricreare nel nostro cervello il processo creativo -cognitivo, emotivo ed empatico – attraverso cui l’artista ha realizzato l’opera.  … in ogni epoca storica gli uomini hanno creato immagini nonostante il fatto che l’arte non sia necessità fisica per la sopravvivenza … l’arte è una forma di sopravvivenza nell’Immaginario, dell’Immaginario che molte volte sgorga dalle ferite provocate dal male.

 



[1] Von Franz M.L., L’Ombra e il male nella fiaba”, Boringhieri, Torino, 2018.

[2]              Von Franz M.L., L’Ombra e il male nella fiaba”, Boringhieri, Torino, 2018.

[3]              Blake W.  Milton: a poem.

[4]              Jung K. G., Tipi psicologici.

[5]              Charcot J.M. e Richer P., Le indemoniate nell’arte, Spirali Edizioni, Milano, 1980

[6]              Kandel E.R., L’età dell’inconscio, Raffaello Cortina, Milano, 2012.

[7]              Kandel E.R., L’età dell’inconscio, Raffaello Cortina, Milano, 2012, p387.