Guerra e Pace. Riflessioni sull’Immaginario

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Immaginario: studi e ricercheMauro Martin

 

Immaginario: studi e ricerche

 

Mauro Martin: psicologo clinico, psicoterapeuta ITP.

Guerra e Pace. Riflessioni sull’Immaginario.

Riassunto

Attraverso le parole della letteratura, della memorialistica di guerra, delle analisi storiche, degli psicoanalisti, degli etologi e dei filosofi s’è cercato di dipanare la maglia intricata dei significati sottesi all’instaurarsi dei conflitti bellici che, tuttora, avvolge con i suoi fili, densi ed inestricabili, i destini del mondo. Per quanto la pace stia a fondamento delle società civili, l’essere umano non riesce, suo malgrado, a rimanere ad una giusta distanza di sicurezza dal male e dalla guerra. Da essa, inconsciamente sedotto dalle sue spire avvolgenti, oppure attirato coscientemente dalla volontà di potenza di cui è imbevuta, ne è profondamente attratto. Il nostro è un mondo che si va deteriorando dal punto di vista climatico e degradando esistenzialmente. Se ne sono accorte da tempo discipline scientifiche avvezze ad argomentare tali tipi di problematiche, mentre ora se ne sarebbe accorta pure la psicologia con la psicoterapia, scienze che guardano poco fuori da loro stesse, abituate a lavorare soltanto sull’interiorità. Riconoscendo che l’anima è anche nel mondo, come dice Recalcati, la psicologia non riesce più a fare bene il proprio lavoro, dato che il “fuori”, l’esterno, è malato. Il mondo, come afferma il fisico Sturloni, è diventato tossico anche perché c’è un declino del senso più profondo della politica, mentre non c’è più un’autentica sensibilità per i veri problemi. La gente è passiva, non s’indigna più di fronte alle ingiustizie, sedata dal miraggio del profitto, dalla velocità e dall’amore fittizio per l’oggettistica. Ed intanto il male, l’aggressività, i conflitti, le incomprensioni dilagano. Ma, ogni volta che cerchiamo di affrontare la nostra violenza ed insofferenza nei confronti dell’inquinamento, del traffico, del clima, dell’ufficio, dell’illuminazione, della criminalità cittadina, e così via, tutto ci sembra inane perché sovrastati da qualche cosa più grande di noi. Per anni abbiamo pensato che, progredendo, la società e gli uomini diventassero migliori e più consapevoli. Ma le cose non stanno così. Il male esiste, indomito, e non riusciamo a frenarlo a sufficienza. La guerra miete consensi quotidianamente, ovunque e comunque, per quanto se ne conoscano a menadito gli effetti nefasti. Ed allora, solo una cultura rigorosa, responsabile, ecologica e mondiale, attraverso uno sforzo politico, democratico, immane e schietto di comunanza tra i popoli potrà salvare l’umanità dalla sua auto-distruzione. Per fare ciò forse è troppo tardi anche se, come diceva Nietzsche, l’essere umano, questa specie animale strana ed inquieta, riesce a dare sempre il meglio di sé solo quando è in affanno o quando le speranze sembrano perdute per sempre.

Parole chiave

Guerra, pace, pseudo-speciazione, paranoia, memorialistica, letteratura, Immaginario, etologia, psicologia, responsabilità, speranza.

Summary

Through the words of literature, war memoirs, historians, psychoanalysts, ethologists and philosophers, we have tried to unravel the tangled mesh of war conflicts which, still today, envelops the destinies of the world with its dense and inextricable threads. Although peace is the foundation of civil society, human beings are unable, despite themselves, to remain at a safe distance from evil and war. From it, unconsciously seduced by its enveloping coils, or consciously attracted by the will to Power with which it is imbued, he is deeply attracted by it. Ours is a deteriorating world. Psychotherapy and Psycology have also noticed this, a science that looks little outside of itself, used to working only on the interior. As the psychoanalyst Recalcati said, recognizing that the soul is also in the world, psychotherapy can no longer do its job well, given that the “outside” is sick. As the Physicist Sturloni said, the world has become toxic because there is a decline in political sense, there is no longer an authentic sensitivity to the real problems. People are passive, they are no longer indignant in the face of injustices, sedated by the mirage of profit, by speed and by the fictitious love for objects. And meanwhile evil, aggression, conflicts are rampant. But, every time we try to face our violence and impatience with pollution, traffic, climate, office, lighting or crime on the streets, and so on, it all seems inane to us as overwhelmed by something bigger than us. For years we have thought that as society and people progress, they become better and more aware. But that is not the case. Evil exists, indomitable, and we can’t stop it enough. War reaps daily consensus, everywhere and in any case, even though its harmful effects are known by heart. And then, only a rigorous, responsible, ecological and world culture, through a political, democratic, immense and sincere effort of commonality among peoples will be able to save humanity from its self-destruction. Perhaps it is too late to do this even if, as Nietzsche said, human beings, this strange and restless animal species, always manage to give their best only when they are in trouble or when hopes seem over.

Key words

War, peace, pseudo-speciation, paranoia, memoirs, literature, imagery, ethology, psychology, responsibility hope.

Introduzione

Non amiamo la guerra, ma il mito che la sottende, cantato dai suoi poeti e celebratori che, dall’alba dei tempi, ne hanno sempre esaltato l’aspetto potente ed audace, attraverso immaginari costruiti ad arte su eroismo e patriottismo. Un falso mito che, come tutte le narrazioni simulate, ne ha sempre nascosto il lato più oscuro e nefando, la falsa coscienza e l’ipocrisia. Ad essere ingannati dall’idea della guerra sono sempre stati, soprattutto, gli ultimi della terra, i più poveri, più manovrabili poiché più inconsapevoli, oppure allucinati pure loro dall’illusione del potere, consunti da una necrofilia perversa, convinti di potersi finalmente proporre come eroi o liberatori verso una società che non li aveva mai amati o, fino a qualche tempo prima, solamente offesi ed umiliati. Col suo tenore eccitato e compiaciuto, infatti, animato da un gusto sinistro e cinico, non il conflitto stesso, ma la sua mitologia, ne nasconde, nel contempo, gli aspetti più vili, reconditi ed inconfessabili. Parate ordinate e mostrine lucidate ne presentano gli aspetti grandiosi e patinati, mentre rimangono ben rimosse e nascoste le vere fattezze della guerra. Non attraggono, infatti, l’olezzo carneo delle ferite marcescenti dei soldati, o le agonie lamentose dei civili davanti alle macerie della propria casa distrutta. Immagini talmente pregnanti ed emotivamente disturbanti da risultare insopportabili alle nostre deboli sensibilità, e quindi negate e poste in angoli remoti delle nostre coscienze. A risvegliarci dal torpore dell’ubriacatura collettiva, ci vuole, purtroppo, solo il caos assordante e spaventoso del vero e vissuto campo di battaglia, poiché la guerra, come tutti i miti, diventando una sorta di divinità, si nutre di sacrifici e di venerazione. Il mito della guerra ci impone di svilire il nemico. Se da un lato idolatriamo i nostri soldati e piangiamo i nostri caduti, dall’altro diventiamo indifferenti a militari o civili ammazzati in campo nemico. Come se i nostri morti fossero diversi da quelli dei nemici. I nostri morti contano, i loro no. Noi siamo speciali, loro, invece, no, poiché apparterrebbero “ad un’altra razza”. Per giustificare la guerra, le nazioni si servono del patriottismo, il quale ha l’obiettivo di mostrare alla comunità che quanto essa ha di più sacro è minacciato: la sua religione, la sua cultura, persino la sua identità o il culto dei loro morti. E così viene a cancellarsi ogni atteggiamento critico o forma di pluralismo perché, come dicono i totalitarismi, essi sono pericolosi poiché “disorienterebbero le masse”.

Oltre alla necrofilia, la guerra scatena una carica “sessuale” intensa ed autodistruttiva. ‟Eros e Thanatos”, diceva Freud a proposito delle pulsioni primarie che, in guerra, dove gli esseri umani diventano cose da distruggere, esplodono sfrenate ed incontrollate. Perché in guerra, quando la vita vale meno di zero e a governare gli uomini è nient’altro che la paura, si ha la sensazione che a disposizione del singolo attore rimanga solo la morte o il labile piacere della carne posseduta con la violenza. Finita la guerra, poi, non resta che la ricostruzione e l’immane fatica di una lenta e non scontata guarigione interiore. Certi reduci, rimasti in vita, muoiono ad ogni modo, internamente, erosi e sconfitti dall’apparire di un nuovo mondo, non più familiare, alieni in un’esistenza che appare loro ora, senza senso. Come la droga, infatti, anche la guerra dà l´illusione di eliminare i problemi spinosi della vita mentre ai reduci non fa altro che crearne di nuovi ed irrimediabili.

Discussione.

Etologia e guerra.

l filosofo della scienza Telmo Pievani, docente all’Università di Padova, distingue tra aggressività e guerra. Come afferma la Goodall, mentre la prima apparterrebbe a tutto il regno animale, la seconda, implicante una divisione in gruppi con elevata organizzazione sociale e una capacità di creare armi, sarebbe tipica di Homo sapiens. Le prime evidenze archeologiche della guerra risalirebbero al Neolitico, a circa 10.000 anni fa, quando nasce l’agricoltura e con l’esigenza, da parte dell’uomo preistorico, di espandere l’influenza del proprio gruppo nel territorio (anche se vi sarebbero nuove evidenze paletnologiche le quali dimostrerebbero che la violenza era di casa già tra i cacciatori/raccoglitori paleolitici e mesolitici). Nell’evoluzione umana, secondo Pievani, ci sarebbe una profonda ambivalenza: da una parte, l’essere umano proverebbe un’estrema solidarietà interna al proprio gruppo di appartenenza, dall’altra, sarebbe indotto con estrema facilità ad individuare come nemico potenziale qualsiasi appartenente ad un gruppo estraneo. La cooperazione e il conflitto, però, sarebbero strettamente legati tra loro, tanto che, paradossalmente, sarebbero i conflitti tra gruppi a produrre l’altruismo. La guerra, come la solidarietà, quindi, sarebbero insite nella natura umana. Quando si parla di Homo sapiens, natura e cultura sono compresenti, dice Pievani, ma solamente alla “cultura” spetta l’arduo compito di scegliere tra il conflitto e la pace.

Anche l’etologo Irenäus Eibl-Eibesfeldt, allievo di Konrad Lorenz, precisa che la guerra non sarebbe semplicemente il risultato della aggressività naturale dell’uomo; gli schemi comportamentali innati di aggressività entrerebbero in azione solo in cluster comportamentali più complessi, come risultato di un’evoluzione bio-culturale. Anche se entrano spesso in gioco impulsi deviati e perversioni agghiaccianti, rimane il fatto che i conflitti nascono come mezzo “razionale”, in mancanza di alternative meno brutali, per assicurarsi le risorse. L’aggressività umana, secondo l’etologo, quindi, non sarebbe innata, ma mediata dagli influssi educativi, mentre la guerra non sarebbe altro che il risultato dell’evoluzione culturale basata sull’evoluzione filogenetica. L’etologo austriaco parla del processo di “Pseudo-speciazione culturale”, meccanismo che considera i gruppi umani come separati gli uni dagli altri, come appartenenti a specie diverse. Quindi, i controlli innati dell’aggressività, i quali, come nel caso degli animali, ne disinnescano la violenza intraspecifica, nel caso dell’uomo funzionerebbero soltanto negli episodi di conflittualità gruppale interna. I conflitti tra gruppi diversi, assumendo caratteri simili a quelli dei conflitti tra animali di specie diverse, diverrebbero, invece, distruttivi. Ciò innescherebbe un contrasto fra norme comportamentali, dove la norma culturale, che comanda di uccidere il proprio nemico (considerato non umano), si opporrebbe a quella biologica che, invece, lo vieterebbe. Tuttavia, l’uomo, dopo avere capito i meccanismi in essa operanti può anche conformarsi alla propria inclinazione biologica. Le guerre di conquista, ritualizzandosi, verrebbero messe al bando attraverso la “forza” benigna delle convenzioni umanitarie. Ma, la guerra può trasformarsi in torneo incruento ed interrompersi solo quando allo sconfitto resta la possibilità della fuga. Oggi, tuttavia, secondo l’etologo, il nostro pianeta, sovrappopolato com’è, non offrirebbe più vie di scampo sufficienti. Pertanto, le speranze affinché l’automatismo dell’evoluzione possa ritualizzare la guerra sarebbero assai limitate. Per l’etologo, si può sperare soltanto in un’evoluzione guidata dalla ragione, motivata dalla nostra coscienza, la quale ci spinga ad agire in conformità con il nostro filtro normativo biologico. Per Eibl-Eibesfeldt, la guerra non deriverebbe né da istinti animali degenerati o devianti, né dalla necrofilia o da altre degenerazioni patologiche della vita pulsionale umana. Non si tratterebbe di un traviamento privo di funzione, bensì di una forma specificamente umana di aggressione fra gruppi per disputarsi terre e risorse. Però, alla guerra possiamo contrapporre soluzioni alternative. Non possiamo aspettarci che nazioni ridotte all’indigenza, perché si vieta loro l’accesso ad indispensabili materie prime, sopportino passivamente tale situazione. Né si può pretendere che una popolazione, dislocata in un’area inabitabile a causa dei cambiamenti climatici, aspetti di morire di fame senza fare nulla. In situazioni del genere, prima o poi qualche azione verrà intrapresa. Affinché vi sia la pace ci si dovrebbe assicurare che non tutti gli spazi vuoti della terra vengano occupati, allo scopo di poter assegnare in emergenza aree libere ai migranti climatici, economici e politici. Inoltre, le organizzazioni mondiali dovrebbe fare in modo che le materie prime siano distribuite equamente. Oggigiorno il ricorso alla forza, anche se non giustificabile, per alcuni è ancora redditizio. Secondo l’etologo, i conflitti armati che hanno funestato il secolo scorso, e quelli in corso che infiammano l’inizio del XXI° secolo, sarebbero la prova tangibile di quanto fosse illusoria e banale l’idea di Aldous Huxley di mostrare agli uomini delle testimonianze sulla crudeltà e le nefandezze della guerra affinché ci rinunciassero. Secondo Eibl-Eibesfeldt invece sarebbe urgente elaborare una nuova cultura della pace che, spazzando via ogni pregiudizio antropocentrico, riconosca la realtà istintuale e profonda che condiziona i nostri comportamenti. Dal regno animale deriverebbe la prova che la natura, da sempre, preferisce la risoluzione non violenta dei conflitti. Fra gli animali, le lotte per il rango e per il territorio, conducono raramente all’uccisione di un co-specifico, perché il conflitto, ritualizzandosi, ne limerebbe gli aspetti più distruttivi e l’uomo dovrebbe cercare di emulare tali comportamenti. Il Novecento ha battuto ogni record per la quantità di devastazioni a popolazioni e paesaggi, basti pensare che anche durante la guerra fredda si sono avuti centinaia di conflitti nel pianeta. Dopo la seconda guerra mondiale si sarebbe, però, sviluppata e consolidata una cultura della pace e ciò lo vediamo, ad es., nella “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” del 1948, dove si cita di un mondo libero e giusto, dove la pace è un diritto. In diversi stati europei, addirittura, l’educazione alla pace è diventata materia scolastica. Ma è soprattutto il grado di sofisticazione delle armi contemporanee a permettere l’esaltazione della violenza, e lo studioso, che avrebbe verificato le sue ipotesi nello studio comparativo di molte popolazioni, argomenta quanto sia errato colpevolizzare l’uomo per quella che è una sua funzione naturale, mentre occorrerebbe invece esplorare nuove vie che possano condurre ad “alternative incruente” ed efficaci alla guerra. Eibl-Eibesfeldt, concordando con il suo maestro Konrad Lorenz sulla natura originaria dell’aggressività, critica chi rifiuta l’importanza delle determinanti biologiche, non nutrendo dubbi sull’importanza delle condizioni sociali nella formazione dell’uomo e ritenendo insufficienti le teorie che minimizzano l’importanza dell’ereditarietà come fattore determinante. Diverse sue affermazioni sulla guerra, comunque, come mezzo per diminuire il numero degli abitanti, oppure come stimolo per lo sviluppo culturale e tecnico, appaiono oggi provocatorie e molto discutibili. Le nostre società potrebbero essere considerate, in un certo senso, simili alle specie animali per la tendenza a separarsi e a differenziarsi, ma l’uomo avrebbe bisogno della cultura che ne disciplini la vita istintuale. Eibl- Eibesfeldt, riprendendo e sviluppando appunto il concetto di Pseudo-speciazione, che in verità non sarebbe suo, ma introdotto, negli anni ’60 del Novecento dallo psicologo e psicoanalista Erik Erikson, afferma che vi è, nell’essere umano, una profonda e consolidata convinzione che qualche sorta di provvidenza lo abbia reso superiore a tutti gli altri individui. Proprio il meccanismo della pseudo-speciazione, che conduce un dato gruppo a disumanizzare gli individui dei gruppi vicini, a giustificare azioni di violenza estrema che oltrepassano i meccanismi inibitori della lotta intraspecifica, lo osserviamo oggi anche in Europa, nel conflitto europeo tra Russia e Ucraina, ma lo si poteva osservare fino a qualche anno fa, durante il conflitto jugoslavo, che ha portato sloveni, croati, serbi a produrre nuove frontiere. Secondo l’etologo austriaco, non vuol dire che la pseudo-speciazione non possegga pure delle radici biologiche ed innate come la repulsione per l’estraneo o il fascino per le azioni aggressive. Il timore dell’‘altro’ rimane un importante fattore scatenante dell’aggressività tra gruppi, sfruttato in quella forma di aggressione collettiva che è, appunto, la guerra. La guerra si sarebbe sviluppata sia come meccanismo culturale di mantenimento delle distanze che come aggressività territoriale determinata per via biologica. Il fatto che le proprie tradizioni siano sentite come valide, mentre i costumi delle comunità estranee siano giudicati “barbari” o “inferiori”, produce fenomeni di rivalità nei confronti dei “vicini nemici” e di identificazione con il proprio gruppo. Nella situazione odierna di globalizzazione e di “meticciato globale”, le rivalità sono frequenti. Eibl-Eibesfeldt afferma che gli impulsi aggressivi dell’uomo verrebbero controbilanciati da inclinazioni naturali alla socievolezza e al soccorso reciproco, altrettanto profondamente radicate. La cura della prole e le preoccupazioni per il futuro del bambino rappresentano un importante fattore motivazionale. La “fiducia originaria” è la premessa indispensabile affinché il bambino abbia, in seguito, una disposizione positiva nei confronti della società. Per imparare a non farsi la guerra, conclude Eibl-Eibesfeldt, bisogna ripartire anche da questa relazione originaria. L’inclinazione umana a polarizzare i valori è un tratto specifico difficile da spiegare tramite la sola selezione individuale. La base emotiva di questa risposta ha le sue radici nella difesa familiare, ma l’evoluzione culturale ha condotto allo sviluppo di un’etica bellica che fa sì che gli individui agiscano contro il loro interesse personale. A livello tribale i costi per i giovani maschi sono elevati ma, soprattutto nelle culture non alfabetizzate, l’indottrinamento all’eroismo alimenta incisivamente il senso dell’auto-sacrificarsi per il proprio gruppo e questo, spesso, va di pari passo con un addestramento all’obbedienza e al rito militare. Le strutture sociali che garantiscono tale situazione sarebbero il senso gerarchico di cieca obbedienza al comandante e l’indottrinamento elitario. Qui i membri si convincono che i loro nemici non sono umani, cosicché i sentimenti naturali di pietà e di compassione vengono rimossi. Un simile indottrinamento sulla base delle predisposizioni emotive per la lealtà e la disponibilità a difendere il gruppo, rende un essere umano capace di agire contro il suo e di sacrificare se stesso, anche se, tuttavia, gli individui che agiscono in modo spietato hanno, nella società globale, meno vantaggi di coloro che perseguono un ideale meno polarizzato, combinando le virtù eroiche con il senso di equilibrio e di pietas. Si permette, nelle società odierne, ai perdenti di arrendersi e di sopravvivere, mentre i crudeli possono andare facilmente incontro a rappresaglie ordite dal gruppo di appartenenza.

Un altro tratto difficile da spiegare tramite la selezione individuale è l’etica di condivisione umana che sarebbe scaturita dalla selezione individuale, anche se l’uomo ne avrebbe ampliato l’ethos della sua famiglia incorporando membri di gruppi distanti. Tuttavia, piuttosto spesso, la nostra etica del condividere sembra passare sopra l’interesse dell’individuo e della specie, mentre non risulta chiaro, tuttavia, se l’etica del dono, rivolta a chi non fa parte del gruppo, sia disposta nell’interesse del successo riproduttivo del donatore. Il dono altruistico rivolto ad individui appartenenti ad altri pool genetici si verifica abbastanza di frequente, ma affinché ciò abbia valore adattivo, la reciprocità dev’essere assicurata. Quando è economicamente conveniente, gli esseri umani danno la priorità nell’aiutare i parenti più vicini, piuttosto che quelli più lontani e ciò non si spiegherebbe col solo concetto di altruismo reciproco. Un’espressione riconducibile al termine “pseudo-speciazione” è quella di “razzismo culturale”. Quest’ultimo rappresenterebbe la convinzione per cui alcune culture sarebbero migliori di altre e quindi, per tale motivo, incompatibili con quelle percepite come inferiori, tanto da non poter coesistere insieme. Il razzismo culturale sarebbe, quindi, strettamente legato all’idea di appartenenza gruppale. Idea che potrebbe così trascendere nella convinzione che persone appartenenti a gruppi sociali diversi dal proprio siano, a priori, connotabili negativamente. Da qui l’applicazione di un insieme di norme comportamentali diverse da quelle che verrebbero applicate altrimenti. Le estreme conseguenze di ciò sarebbero il desiderio di mantenere “pura” ed incontaminata la propria cultura, di condannare etnocentricamente pratiche culturali diverse, di applicare fenomeni di sottomissione, il colonialismo e il genocidio. Come ogni altra forma di discriminazione, il razzismo culturale potrebbe essere rinforzato dai canali di comunicazione, informazione e ideologia politica della cultura di appartenenza. L’etologo Konrad Lorenz affermò che l’aggressività è insita nella natura stessa dell’uomo, e che non deve, pertanto, essere repressa, ma sfogata. Ciò anche se, soprattutto oggigiorno, all’uomo non piace sentirsi definire aggressivo, non gli piace riconoscere di avere degli istinti bassi, e poi perché, al giorno d’oggi, l’aggressività è uno degli istinti più deprecati. Se l’aggressività è insita nell’essere umano, allora diventa necessario comprenderne la dimensione irrazionale sottesa alla discriminazione perpetrata verso l’altro, nei confronti del diverso. Per questo, però, diventa necessario chiedersi se riconoscere il processo, anziché agirlo inconsapevolmente, possa costituire la base per l’elaborazione di nuove definizioni di convivenza. L’uomo ha la tendenza ad attuare una differenziazione fondata su fittizie caratteristiche biologiche e variabili culturali tra il suo gruppo e altri della sua stessa specie. Un’operazione arbitraria, questa, non aderente a categorizzazioni di tipo biologico e, quindi, realmente riconducibili alla speciazione, ma la distanza che verrebbe a crearsi in questo modo, fondata sull’implicita convinzione che il proprio gruppo sia migliore, più umano dell’altro, giustificherebbe una serie di comportamenti estremi. La conseguenza di ciò sarebbe la completa disumanizzazione dell’altro, che giustificherebbe così azioni di estrema violenza e forme di aggressività, attuate anche all’interno del proprio gruppo, ma solo in casi di estrema necessità. Se, infatti, l’aggressività è innata nell’uomo, la lotta intraspecifica verrebbe scoraggiata da meccanismi inibitori nei confronti del proprio simile.

Psicologia e massa

Il perché di questo agire irrazionale dei gruppi ce lo spiega Freud a proposito dei movimenti di massa. Gli anni venti del Novecento furono un periodo di gravi sconvolgimenti sociali quando nacquero, infatti, le lotte operaie organizzate, ma anche le grandi ideologie e le dittature. Mentre in Austria si assistette agli effetti della disgregazione dell’Impero asburgico, avvenuta alla fine del 1918, in Italia nacquero il Partito Nazionale Fascista e il Partito Comunista Italiano, successivamente in Germania Adolf Hitler divenne leader del Partito nazionalsocialista tedesco. Nel 1921 Freud, nella monografia “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, s’interessò ai comportamenti massificati affrontandoli in chiave psicoanalitica. Prendendo spunto dai lavori di Gustave Le Bon sulla psicologia delle folle, Freud cercò di dimostrare che i fenomeni regolanti la vita di gruppo non erano poi così lontani dal confermare ed avvalorare le scoperte psicoanalitiche relative ai processi individuali. Una massa, secondo Freud, era un’entità provvisoria ed eterogenea, impulsiva, mutevole e irritabile, controllata quasi esclusivamente dall’inconscio. Freud distingueva due tipi di masse: quella occasionale e transitoria e quella organizzata ed “artificiale”, destinata a durare di più nel tempo, come la Chiesa o l’esercito. Entrambi i tipi di massa sarebbero tuttavia interessati dagli stessi processi mentali, in riferimento alla teoria freudiana degli istinti dove le masse erano tenute insieme da legami libidici. Ogni individuo, per Freud, nella massa, agirebbe grazie ad impulsi libidici deviati dagli obiettivi originali e, come Le Bon, affermava che, come parte di una massa, l’individuo veniva ad acquisire un senso di potenza infinito, che gli consentiva di agire tramite comportamenti che, come individuo isolato, avrebbe tenuto a freno per paura di ritorsioni penali. Questi sentimenti di potere e sicurezza porterebbero la massa ad una perdita di coscienza, ad uno “stato ipnotico” e alla facile suggestionabilità, dove l’individuo contribuirebbe, a sua volta, ad amplificare gli stati emotivi attraverso una sorta d’“induzione reciproca”. L’ “anima della massa” verrebbe descritta da Freud come forza elementare ed onnipotente dove, gli individui che ne fanno parte, perderebbero autonomia ed equilibrio, ma acquisendo una forza immensa, rassicurante e protettiva. La massa, per sua natura mutevole, impulsiva, governata interamente dall’inconscio, impermeabile al Super-Io, non tollererebbe alcun indugio o temporeggiamento fra il desiderio e la sua realizzazione. Il suo anelito, però, non durerebbe a lungo, perché la massa è incapace di volontà duratura e niente di quello che fa sarebbe premeditato. L’individuo nel branco vivrebbe una sorta di regressione narcisistica, con la scomparsa di tutte le inibizioni individuali, a favore di istinti fuori controllo. Non è raro che la massa compia atti crudeli, come il linciaggio, ma anche gesti di generosità estrema, di sacrificio, superando i limiti imposti dall’autoconservazione. Ogni individuo, nella massa, rinuncia al suo “ideale dell’Io” per trasferirlo sul suo Leader, il quale ne simbolizza l’animo gruppale, dirigendolo in un’identificazione narcisistica. Da qui la riduzione dell’individualità e dello spirito critico, in quanto l’ideale dell’Io del capo diventa l’Ideale dell’Io di tutti, cancellando le differenze e le rivalità a favore di un sentimento di identità e comunione, dove ciascuno, legato al Leader da un legame d’amore, si aspetta che anche il Leader lo ricambi con lo stesso sentimento. Il segreto della Leadership, per Freud, starebbe dunque tutto nell’Eros, che “tiene unite tutte le cose del mondo”, mentre l’idealizzazione del Capo, in realtà, ne maschererebbe l’odio e l’invidia proiettati sugli avversari e su quanti, all’interno del gruppo, non si identificano completamente con il Leader. I dissidenti interni possono dunque diventare nemici pericolosissimi in quanto metterebbero a repentaglio l’unità del gruppo. Il sentimento sociale, dunque, nasce dalla trasformazione di un sentimento precedentemente ostile in un attaccamento positivo, sotto forma di identificazione col Leader. Qualcosa di molto simile accade anche nell’amore poiché anche due persone possono essere considerate un gruppo che, quando si innamorano, vivono la stessa condizione di suggestionabilità tipica delle masse.

Anche i meccanismi di inclusione/esclusione nelle aggregazioni giovanili che, attraverso gerghi e riti collettivi, creano una loro tribù, sarebbero analoghi al riprodursi della Pseudo-speciazione che individua ogni volta un criterio di selezione per individuare il nemico. Nel 1952 lo psicologo sociale Sherif, volendo investigare sulla formazione, coesione, conformismo e conflittualità gruppale, nell’esperimento di Robbers Cave in Oklahoma, dimostrò quanto facilmente il gruppo adotti un’identità esclusiva, che può velocemente degenerare in pregiudizio e antagonismo verso coloro che ne stanno al di fuori. Prese una ventina di dodicenni e li divise casualmente in due squadre. Quasi immediatamente i due gruppi assunsero identità contrapposte, creando rivalità e cameratismo. Nella prima parte dell’esperimento ogni gruppo si diede un nome: Serpenti a Sonagli e Aquile. Le gare proposte inasprirono talmente le rivalità che, dopo un paio di giorni iniziali di sportività, Sherif fu costretto a bloccare l’esperimento. Sherif aveva portato alla luce come si arrivava a odiare e combattere le altre persone per la loro appartenenza a un gruppo diverso dal loro. Sherif sosteneva che il disprezzo per gli altri era necessario al rafforzarsi dell’identità gruppale. Tanto più forte era la necessità di competere per le scarse risorse, maggiori erano il senso di coesione per il proprio gruppo e l’avversione per gli altri. La seconda parte dell’esperimento aveva come obiettivo quello di ridurre l’antagonismo tra le due fazioni. Si idearono attività per riavvicinare i gruppi, come vedere un film in compagnia, assistere insieme ai fuochi d’artificio, ma i risultati furono deludenti. Sherif allora tentò un altro approccio, creando degli obiettivi sovraordinati, che richiedevano la collaborazione di tutti per essere raggiunti. Con la scusa di un falso sabotaggio dell’acqua corrente dovuto a un gruppo di misteriosi vandali, un nemico comune ed esterno. Entrambi i gruppi, ispezionando l’area ed esaminando insieme il serbatoio, scoprendo che un tubo era stato ostruito da un sacchetto di plastica, parteciparono assieme per risolvere il problema. I gruppi, costretti a collaborare per risolvere i problemi comuni che capitavano al campo, raggiunsero la quiete. I singoli individui iniziarono a ragionare autonomamente, senza farsi influenzare dai pregiudizi e stringendo amicizia tra loro. Sherif mostrò, con questo esperimento, che l’opposizione Noi-Altri è una componente fondamentale della società, che i gruppi si formano istantaneamente, automaticamente e con essi gli stereotipi sui non appartenenti al proprio gruppo. L’appartenenza a un gruppo, quindi, influenzerebbe il comportamento individuale in base alla percezione che si ha degli altri. Si può, però, rimediare all’antagonismo e ai conflitti tra gruppi, creando obiettivi comuni. Gli esperimenti dello psicologo sociale Sherif avrebbero dimostrato anche che, nelle situazioni competitive di gruppo, potrebbero emergere gli aspetti più irrazionali ed antisociali del comportamento umano. Un’elaborazione letteraria di questo tema è stata proposta da William Golding ne: “Il signore delle mosche”. In questo romanzo Golding ha dato forma alla convinzione che l’esplodere della violenza e del male, dipenda da una natura umana violenta e primitiva messa a dura prova da situazioni avverse. È il paradigma Hobbesiano, a cui già Rousseau rimproverava di aver scambiato l’uomo civilizzato, aggressivo e condizionato, con l’uomo naturale.

In un altro esperimento, del 1971, condotto da Zimbardo, un altro psicologo sociale, si volle indagare il comportamento umano in una società in cui gli individui sono definiti soltanto dal gruppo di appartenenza. L’esperimento prevedeva l’assegnazione, ai volontari che accettarono di parteciparvi, dei ruoli di guardie e prigionieri all’interno di un ambiente carcerario ricostruito. I risultati ebbero dei risvolti così drammatici, da indurre gli autori dello studio a sospendere la sperimentazione. In tempi più recenti i risultati sarebbero stati messi in dubbio e l’esperimento criticato per aver utilizzato una metodologia non scientifica e non etica. Zimbardo, utilizzando alcune idee di Gustave Le Bon, in particolare la teoria della de-individuazione, voleva osservare se gli individui di un gruppo coeso arrivavano a perdere la consapevolezza ed il senso di responsabilità, condizionati esternamente da stimoli antisociali. Al quinto giorno, alcuni dei prigionieri che avevano subito sevizie, mostrarono sintomi evidenti di disgregazione individuale e collettiva, comportandosi docilmente e passivamente. Il loro rapporto con la realtà appariva compromesso da seri disturbi emotivi, mentre, per contro, le guardie continuavano a comportarsi in modo crudele ed efferato. Secondo l’opinione di Zimbardo, assumere una funzione di controllo sugli altri, come un ruolo istituzionale, induce ad assumere ed introiettare le norme e le regole dell’istituzione come unico valore a cui il comportamento deve adeguarsi, inducendo una cosiddetta “ridefinizione della situazione”, utilizzata anche da Milgram per spiegare le conseguenze dello stato eteronomico (assenza di autonomia comportamentale) sul funzionamento psicologico delle persone. Il processo di de-individuazione indurrebbe, nell’individuo, una perdita di responsabilità personale, una ridotta considerazione sulle conseguenze delle proprie azioni, indebolendone i controlli basati sul senso di colpa, la vergogna, la paura, così come quelli che inibiscono l’espressione di comportamenti distruttivi. La de-individuazione implicherebbe una diminuita consapevolezza di sé, un’aumentata disinibizione, identificazione e sensitività agli scopi e alle azioni intraprese dal gruppo: l’individuo si convincerebbe, cioè, che le proprie azioni, anche sadiche e vessatorie, condivise dal gruppo, diventino lecite e giuste. “Effetto Lucifero” fu il termine utilizzato da Zimbardo per indicare il processo per cui l’aggressività veniva influenzata dal contesto in cui l’individuo si trovava, dimostrando l’importanza dell’ambiente nel determinare le condotte individuali, ridefinendo e sottolineandone la loro importanza, fino a quel momento sottovalutata nella letteratura sull’aggressività. In precedenza, infatti, le cause dei comportamenti veementi e feroci venivano attribuite, quasi esclusivamente, a fattori interni all’individuo. All’esperimento s’ispirarono poi anche alcune opere letterarie, cinematografiche e teatrali.

Un altro esperimento simile, dello psicologo sociale Milgram, fu condotto nel 1961, il cui obiettivo era lo studio del comportamento di soggetti ai quali un’autorità ordinava di eseguire delle azioni in conflitto con i valori etici e morali dei soggetti stessi. Milgram voleva osservare se poteva essere plausibile che il criminale di guerra Adolf Eichmann ed i suoi complici fossero diventati tra i principali esecutori materiali della Shoah, dirigendo personalmente le deportazioni degli ebrei ungheresi sino alla fine del 1944 e potendo decidere della vita e della morte di centinaia di migliaia di persone, semplicemente convincendosi di aver eseguito degli ordini commissionati dall’alto. Contrariamente alle aspettative, nonostante i soggetti dell’esperimento di Milgram, dopo aver ricevuto ordini assurdi e truci, si mostrassero tesi, una considerevole percentuale di questi obbedì con diligenza allo sperimentatore. Questo stupefacente grado di obbedienza, che avrebbe indotto i partecipanti a violare leggi e a soprassedere ai propri principi morali, è stato spiegato da Milgram in rapporto ad alcuni elementi, quali l’obbedienza indotta da una figura autoritaria considerata legittima, la cui autorità induce uno stato eteronomico, caratterizzato dal fatto che il soggetto non si considera più libero di intraprendere condotte autonome, ma un semplice strumento atto ad eseguire ordini. I soggetti dell’esperimento non si sarebbero, perciò, sentiti moralmente responsabili delle loro azioni, ma esecutori dei voleri di un potere esterno. L’esperimento di Milgram venne rappresentato in molte opere letterarie e cinematografiche. L’esperimento di Milgram, come quelli di Zimbardo e Sherif, hanno ricevuto conferme, ma anche smentite e critiche; sembrerebbero comunque attestare che l’individuo, anche se caratterialmente passivo e temporaneamente in balìa di particolari circostanze condizionanti, può opporre resistenza alla criticità contingente, attraverso la consapevolezza, la critica, il senso d’indignazione personale.

Dalle masse ammaliate al capro espiatorio.

Secondo Romano Màdera, filosofo e psicoanalista junghiano, col termine Pseudo-speciazione si toccherebbe una questione centrale riguardante i fondamenti stessi della cultura umana. Con essa si spiegherebbero certe modalità di differenziazione culturale, attraverso certi comportamenti che arrivano a superare certe inibizioni legate all’appartenenza di specie, non riconoscendo come umani altri umani, e creando i presupposti per aggressioni ed uccisioni, eventi che, tra primati ed altri mammiferi, possono accadere, ma solo in situazioni eccezionali.  La Pseudo-speciazione, teorizzata dall’etologia umana, secondo lo psicoanalista, può̀ costituire una base per spiegare anche l’uso culturale del “Capro espiatorio”, come condizionamento dei comportamenti collettivi, alla base del superamento metodico delle inibizioni che limitano o proibiscono di distruggere i membri della stessa specie. Le tecniche di “mostrificazione”, per Màdera, tenderebbero a trasformare la percezione dell’altro in qualcosa di così minaccioso e svalutato da doverlo/poterlo sopprimere, anche se ciò condizionerebbe tanto le vittime quanto i carnefici. Tra i mammiferi, l’uccisione di un altro conspecifico avviene solo in circostanze molto particolari, oppure come conseguenza accidentale di uno scontro, perché́ il comportamento violento viene ritualizzato in movimenti tipici e l’azione istintuale della lotta viene neutralizzata non appena il rivale accetta la sconfitta, sottomettendosi o abbandonando il campo. Questo lo si vede molto bene durante gli scontri per il possesso delle femmine che avviene tra gli elefanti marini o tra gli orsi. Proprio l’opposto di quanto accade nelle culture umane, dove i rituali che preparano alla sfida violenta, sono tesi a modificarne la cruda percezione per riuscire a superarne indenni l’inibizione naturale. Seguendo questo ragionamento Konrad Lorenz attribuì̀ proprio all’invenzione delle armi da fuoco un ruolo chiave nella estensione ed intensificazione delle guerre: i proiettili, infatti, colpendo a distanze molto più̀ grandi che non nello scontro diretto, ne attutirebbero la percezione della violenza sull’altro aiutando il soldato a superare l’inibizione ad uccidere. I rituali per cambiare la percezione includerebbero anche l’induzione di stati alterati di coscienza prodotti da movimenti, suoni o costumi speciali, intensificati, fino al parossismo, attraverso l’ingestione di sostanze che ne neutralizzano la risonanza empatica. Per una profonda trasformazione culturale della percezione e per neutralizzare il circuito empatico deve intervenire una ristrutturazione valutativa che indichi che l’attacco al “nemico”, ad es., possa superare le barriere di specie per considerarlo altro da me. È caratteristico di molte culture e di molti popoli chiamare se stessi “popolo degli uomini”. Anche gli antichi greci concepivano i barbari che non “hanno il logos”, come stranieri, balbettanti, dunque non-greci o sub-umani. In Grecia, come a Roma, bisognerà aspettare epicurei, stoici e, soprattutto, i cristiani per arrivare all’universalismo. Salvo poi, col cristianesimo diventato religione di Stato, trovare altri modi per ricominciare le manovre di esclusione di eretici, apostati, giudei, musulmani, streghe, “selvaggi” del nuovo mondo e soprattutto delle donne.

Lo psicoanalista Zoja affronta nei suoi lavori tematiche malagevoli come la violenza maschile, la disumanizzazione delle donne e del loro corpo a fini bellici, evidenziando la correlazione che vi è tra guerra, militarismo e oppressione della popolazione nemica, dove l’individualità viene soppressa per lasciare spazio esclusivamente alla volontà gruppale. La violenza sessuale, che sembrerebbe collegata ad una mera bramosia maschile, trova, invece, in questo meccanismo la sua base fondante. Chi non partecipa può essere deriso, guardato con sospetto o considerato anormale. Con il termine centauro, Zoja spiega l’ambivalenza maschile attorno alla differenza tra vita e violenza sessuale, che sullo sfondo della guerra è qualcosa che viene dagli uomini automaticamente confuso anche perché l’atto cruento commesso in gruppo rende la colpa personale lieve, la giustifica e la deresponsabilizza. Emerge come la pulsione allo stupro, in tempo di guerra, si propaghi alla stregua di una patologia collettiva, laddove alla base vi è la semplice emulazione delle azioni tra i membri del gruppo, o il fatto che commettere violenza sessuale contro le donne, sia da ritenere un processo obbligatorio per il consolidamento dell’individuo all’interno del gruppo. Lo stupro per Zoja assumerebbe quindi la fisionomia di un rituale per rendere simbolica l’appartenenza al gruppo dei maschi, atteggiamento che ben si allinea ad una simbiotica assimilazione dell’individuo al branco animale. Da ciò, Zoja considera il “Centaurismo” come un aspetto regressivo della mascolinità, un rendere omaggio all’uso gratuito della forza fisica a fini distruttivi. In questa modalità, la perpetrazione della violenza sessuale diventa una sorta di contagio che si propaga e ne fa scaturire lo smarrimento dell’identità maschile che, attraverso le perversioni commesse, arriva ad annientare se stesso e la sua individualità, in favore di una decisione generale. Dunque umani in senso pieno siamo sempre “noi”, e sotto-umani o non umani sono sempre “gli altri”. Questo processo sembra caratterizzare da “sempre” la formazione di una certa “identità̀” di gruppo, con caratteri relativamente stabili. Gli estranei sono pregiudizialmente visti con diffidenza e chi devia dalle regole collettive viene in qualche modo, formalmente od informalmente, punito. Le tradizioni sono meccanismi esperienziali che dirigono le modalità̀ di sopravvivenza, mentre la loro relativa “sacralità̀” contribuirebbe a fornire una guida non soggetta ai conflitti di potere interni. Per questo insieme di motivi Màdera crede che l’unità di gruppo sia il bene fondamentale da tutelarsi per assicurare la sopravvivenza dei singoli. Le pene per chi mette tutto ciò in pericolo sono severe. L’esclusione può̀ portare a una condanna a morte di fatto, o, in ogni caso, all’esilio. Ma l’unità del gruppo e i suoi confini possono essere difesi solo elevandoli a una dimensione inarrivabile, sancita da una qualche “superiorità̀ culturale”. Ed allora, l’ostilità̀ tra i gruppi può crescere fino a forme di confronto fisico. Ma, una volta riunificati i gruppi, dando a tutti compiti comuni, la polarizzazione viene meno, soprattutto quando ai gruppi viene indicato il “nemico comune”, efficacemente costruito, nella nostra storia plurimillenaria, come “inumano”, come una sorta di “mostro”, poiché la sua percezione può̀ essere alterata al punto da doverlo sopprimere, come se fosse di un’altra specie. Si può passare, poi, dal disconoscimento assoluto, che comporta la distruzione del nemico come indegno persino di essere riconosciuto come degno avversario, al misconoscimento che, pur arrivando all’uccisione, ne tributa onore e virtù̀. Il rinnegare l’altro è, comunque, un fenomeno endemico e riguarda tutte le forme sociali storiche. Proprio perché́ il rifiuto dell’altro mina le basi del riconoscimento originario, esso è così potente da condizionare sia i perpetratori che le stesse vittime. E diventa uno dei meccanismi fondanti delle identità̀ collettive poiché tutto ciò̀ che la maschera sociale dell’identità̀ di gruppo cerca di nascondere o rimuovere, viene a creare parti dell’inconscio, degli aspetti d’ombra, o dei “doppi impresentabili”. Sono proprio questi tratti nascosti e disprezzati che vengono proiettati sugli altri, fornendo il materiale fantasmatico per la creazione del nemico come mostro e, all’interno del gruppo come all’esterno, per individuare i “Capri espiatori”. Il Capro espiatorio è una esemplificazione del processo di pseudo-speciazione e ha sempre funzionato, storicamente, nel giustificare l’annientamento del nemico, soprattutto quello esterno, garantendo, nei momenti di crisi, l’omogeneità̀ dei gruppi e delle organizzazioni politiche interne. Forse l’origine di stati e nazioni deriva proprio da tale costrutto psico-sociologico.

Sia Carl Gustav Jung che Erich Neumann leggono, rispettivamente, la prima guerra mondiale e la proiezione dell’ombra collettiva, utilizzando la figura del capro espiatorio, sia tra gli strati sociali elevati, per cultura e censo, della popolazione sia tra gli esclusi e gli stranieri. In Neumann la dinamica è costruita differenziando i funzionamenti psicologici della repressione e della rimozione, correlate a strati sociali e fasi storiche, ed espresse esteriormente in modi più o meno inconsci, nelle persecuzioni delle “vittime sacrificali” designate. Così, la figura dell’altro viene demonizzata, “mostrificata”, resa disponibile ad ogni sorta di angheria e di tortura, fino all’eliminazione. Vengono messi in luce, quindi, i nessi tra le dinamiche di riconoscimento e misconoscimento, l’utilizzo della divergenza culturale fino ai livelli estremi della Pseudo-speciazione e la funzione della deviazione della violenza distruttiva sui capri espiatori prescelti. Si può̀ capire, perciò, la funzione necessaria della Pseudo-speciazione in condizioni di precarietà. Essa appare, secondo Màdera, quando vi sono forti differenze tra i gruppi che s’incontrano o sono costretti a vicinanze imposte. Essa s’impone quando i popoli entrano in competizione tra loro per l’utilizzo di risorse, spesso scarse, magari aiutati a malapena da tecnologie disponibili povere od obsolete, dove il loro incremento viene rallentato appositamente dalla tradizione, serbatoio di saperi immemori e tipicamente osteggiante qualsiasi tentativo d’innovazione. Fino alla rivoluzione del capitalismo industriale l’innovazione è stata subordinata alla tradizione. Le tecniche e, quindi la divisione del lavoro sociale, fino all’avvento del capitalismo, non hanno mai oltrepassato un livello che possiamo chiamare di “interdipendenza locale”. Con l’avvento del capitalismo globale, l’interdipendenza tra popoli e cose è diventata, anche se ben lontana dall’essere ancora assimilata nella coscienza collettiva, la condizione base di ogni branca del sapere universale, così come, ovviamente, dei mercati, delle merci e dei servizi. La politica stessa, che lo riconosca o meno, dipende dall’andamento globale di queste variabili tecnico-economiche e dai loro risvolti sociali. La Pseudo-speciazione e il suo corteo di guerre civili intra-specifiche, di violazioni, esclusioni ed umiliazioni però, per Màdera diventerà̀ sempre più̀ controproducente, inefficace e autodistruttiva. Per l’umanità̀, divenuta una sorta di “Universale concreto”, ogni sforzo che si porrà nella direzione di costruire un senso spirituale e materiale di cooperazione globale sarà eticamente adeguato alla realtà̀ dei processi in corso. L’analisi di Renè Girard sul Capro espiatorio, sul sacro e sul meccanismo vittimario parte dall’osservazione del mimetismo umano (sulla simbolica del sacro si vedano anche le opere di Ananda Kentish Coomaraswamy). Al centro del processo mimetico ci sarebbe il desiderio umano di desiderare qualcosa perché già ce l’ha o lo fa qualcun altro. Come diceva Freud, mentre l’animale agisce secondo appetiti dettati dall’istinto, l’uomo, invece, guidato dall’impulso, osserva e, successivamente, imita (sull’imitazione nell’uomo e il modeling si vedano anche i testi del cognitivista Albert Bandura). Le cose che vogliamo avere non le desidereremmo di per se stesse, ma perché sono possedute dal modello a cui ci omologhiamo e, se finiamo col desiderare tutti le stesse cose, diventiamo rivali ed antagonisti. La rivalità mimetica sarebbe, dunque, il conflitto antropologico per eccellenza (ne danno conto anche gli ultimi comandamenti, che prescrivono di non desiderare né la donna, né i beni del proprio vicino). Quando la rivalità eccede un certo limite, oppure quando irrompono paura ed insicurezza, un sentimento di odio si diffonde in tutta la società e tende a canalizzarsi minacciosamente su una sola vittima sacrificale. Per Girard, il capro espiatorio sarebbe un individuo o un animale che deve pagare per tutti o al posto di altri, non perché sia particolarmente colpevole, ma perché la comunità non può tranquillizzarsi se non unendosi contro qualcuno o qualcosa. Nell’antica Grecia, uomini scelti per la loro bruttezza, che simbolicamente richiamava il male del mondo, dopo essere stati nutriti per un anno intero a spese della città, venivano cacciati a sassate fuori dalle mura per arginare le angosce di contaminazione gravanti sulla comunità. Streghe ed eretici in Europa, ebrei e zingari nei campi di sterminio, a loro, nella storia, verrà fatto pagare il prezzo più alto, quello salato della paura, affinché le pestilenze fossero debellate e le carestie eliminate. A queste infelici creature, considerate appartenenti al regno innominabile dei quasi-uomini e del diabolico, verranno distribuite, prima di essere massacrate ed eliminate, senza parsimonia, le peggiori torture. Il capro espiatorio, quindi, ne svierebbe la violenza del gruppo sociale facendola convergere su un bersaglio legittimo e non pericoloso. Mentre il suo assassinio non sarà vendicato, il suo sacrificio fonderà e rinsalderà il legame religioso della comunità, lavando la città dalle sue colpe, perché il capro espiatorio è sia reietto che salvatore. L’etimo del termine immolare deriverebbe da mole, la pietra che nei miti fondativi si confonde con la lapide, il monumento che ricorda la vittima divinizzata. Per Girard, quindi, l’origine del legame sociale lo si troverebbe nella violenza dell’uccisione del capro espiatorio, nella condivisione gruppale dell’assassinio di un innocente, capace, però, di cementare il patto di convivenza sociale tra i suoi membri. Girard evidenzia, infatti, come il sacro, la religione ed i miti nascano proprio dal processo vittimario, che si scatenerebbe in momenti di grave crisi intestina in cui si trova la comunità sociale, minanti la solidità del gruppo. In questi momenti, in cui verrebbe messa a repentaglio la sua stessa sopravvivenza, come nel caso di una carestia o di una pestilenza, la tranquilla esistenza della collettività verrebbe sconvolta e gli individui, incapaci di fronteggiarla, andrebbero alla ricerca di uno strumento di ricomposizione della crisi, capace di rassicurare e riconciliare gli animi. Durante le crisi collettive emergerebbe sempre la stessa soluzione, con le singole rivalità tra gli uomini che degenerano velocemente, dando vita ad un desiderio unanime e indifferenziato di vendetta. Il dilagare di questo sentimento di rivalsa e ritorsione sarebbe il cosiddetto “Contagio mimetico”, un’emozione collettiva talmente forte da diffondersi a macchia d’olio all’interno della comunità e da interessare anche i membri meno coinvolti. La folla contagiata diverrebbe pronta, ad un semplice cenno del proprio leader, a concentrare contro il nemico additato come bersaglio, tutta la potenza d’odio di cui è capace. Girard giunge alla conclusione che la folla in preda a frenesia mimetica, sceglierebbe le proprie vittime non in base a indizi di colpevolezza, ma situazionali o fisici, da associarsi alla presunta sacrificabilità del soggetto. Nella dinamica del capro espiatorio non si ricorrerebbe, infatti, al normale procedimento giudiziario d’incriminazione penale. Si individuerebbe, sommariamente, qualcuno come potenziale responsabile dei mali sofferti dalla collettività, generalmente con segni evidenti di diversità fisica o morale dal resto del gruppo, tali da impedirne eventuali dinamiche d’identificazione. Il sacrificabile sarebbe qualcuno la cui morte non verrebbe vendicata, come detto, per cui non s’innescherebbe un nuovo ciclo di violenza, dunque una persona socialmente marginale o appartenente alla famiglia reale, con la quale difficilmente ci si può identificare. Se il gruppo si convincerà che uno solo di loro è responsabile della crisi che mina le basi della collettività, se riescono a vedervi la “macchia” che li contamina tutti, massacrandone la vittima sacrificale, crederanno di sbarazzarsi anche dell’origine di tutti i loro mali. Per Girard, il prototipo del sacrificabile potrebbe essere Edipo, segnato in tenera età (zoppo dalla nascita perché era stato appeso per i piedi, affinché morisse per non avverare la terribile profezia che ne aveva predetto il destino di parricida), e socialmente isolato (arriva da straniero mendicante, nato a Tebe ma cresciuto a Corinto, e diventa re sposando la regina vedova del re suo padre, che egli stesso aveva ucciso in una lite stradale, senza sapere chi fosse). Il giovane re avrebbe una potenza soprannaturale, lui solo potrebbe distruggere o salvare Tebe. Edipo infrangerebbe, senza saperlo, i tabù fondamentali di ogni società, uccidendo il padre e compiendo incesto con la madre, così che la peste che colpisce la città sarebbe scatenata dalle sue colpe inconsapevoli. Accecandosi e cercando la morte, salverà la città per la seconda volta: dalla peste, dopo averla salvata dalla sfinge.

Ma, più ancora di Edipo, l’esempio paradigmatico del capro espiatorio sarebbe, per Girard, la lapidazione di Efeso narrata da Flavio Filostrato in: “Vita di Apollonio di Tiana”. La lapidazione di Efeso fu un fatto storico avvenuto in un momento di forte tensione sociale dovuta alla pestilenza che affliggeva la città. Anche qui vi sarebbe il cosiddetto pharmakós, meccanismo vittimario da operarsi su qualcuno in grado, col suo sacrificio, di ottenere una risoluzione che la comunità, da sola, non riesce ad ottenere. Ecco il presupposto fondamentale: una grave crisi, irrisolvibile attraverso le forze umane e che mette in pericolo l’esistenza stessa della comunità. Ogni ordine sociale e politico, prima ancora di essere articolato nei suoi dispositivi di controllo, fonda i suoi equilibri interni su un sacrificio cruento, un gesto che codifica il rapporto tra quella comunità, la crisi da risolvere, e la vittima designata per assommarne tutte le colpe (nel cristianesimo sarà l’Eucarestia). Filostrato racconta che Apollonio si rivolse alla città dicendo di farsi coraggio, perché il giorno stesso si sarebbe messa fine al flagello. E con tali parole condusse l’intera popolazione al teatro, dove si trovava l’immagine del dio protettore. Lì, egli vide quello che sembrava un vecchio mendicante che si faceva passare per finto cieco, era vestito di stracci e il suo viso era imbrattato di sudiciume. Apollonio dispose gli Efesini attorno a sé, disse loro di raccogliere delle pietre e di scagliarle contro questo nemico degli dei. Gli Efesini erano sbigottiti dall’idea di uccidere un miserabile che li supplicava di avere pietà di lui. Ma Apollonio insistette, incitando gli Efesini a scagliarsi contro di lui e a non lasciarlo fuggire. Non appena alcuni di loro cominciarono a colpirlo con le pietre, il mendicante, che prima sembrava cieco, gettò loro uno sguardo improvviso. Gli Efesini riconobbero allora che si trattava di un demone e lo lapidarono sino a formare sopra di lui un grande cumulo di pietre, che Apollonio ordinò loro, poi, di rimuovere, rendendosi conto che avevano ammazzato un animale selvaggio. Trovarono che il mendicante era scomparso, e che al suo posto c’era un cane simile a un molosso, ma delle dimensioni di un enorme leone. Esso stava lì sotto i loro occhi, spappolato dalle loro pietre, vomitando schiuma come i cani rabbiosi. A causa di questo la statua del dio protettore, Eracle, venne posta proprio nel punto dove il demone era stato ammazzato. Girard evidenzia in questa vicenda tutti gli elementi del meccanismo vittimario: c’è una crisi in atto e un leader alla ricerca di una valvola di sfogo alla tensione che serpeggia in città. Nel corso di una cerimonia la vittima, un mendicante straniero, viene individuata e uccisa. Risalta l’incompleto transfert di divinizzazione: né al mendicante, né all’animale, che ha preso il suo posto, viene riconosciuto alcun potere divino, per cui è la statua di Eracle ad essere posta sul luogo della lapidazione. Se la lapidazione di Efeso è il paradigma del capro espiatorio incompleto, cioè l’omicidio che riscatta la pace sociale, ma non viene in cambio sacralizzato (come i roghi delle streghe o i pogrom degli ebrei), il circuito completo è quello che sfocia nel mito e nella religione, da Dioniso al Cristo. Oggi i gruppi che chiedono la soppressione o l’allontanamento delle minoranze, sulla base della convinzione che complottino contro chi li ospita, sono eredi di tali credenze nei poteri soprannaturali del capro espiatorio. Girard afferma che il denominatore comune dei miti consiste in due transfert: il primo, detto anche “Transfert di aggressività”, consiste nella lapidazione o nell’espulsione della vittima dalla quale deriva un beneficio concreto per l’intera comunità (ricomposizione della crisi e successiva pace), mentre il secondo, detto “Transfert di divinizzazione”, pone fine al processo e consiste nella venerazione della vittima immolata da parte della comunità riappacificata, giustificata dal potere conciliatorio del capro espiatorio. Le tregue conseguite con il meccanismo vittimario sono temporanee, di breve durata, per questo il ricorso al capro espiatorio è frequente e dà vita a una serie di violenze ininterrotte. Per questo, secondo Girard, si rende necessario l’intervento esterno di qualcuno che sia capace di svelare il processo vittimario, rendendo i membri dei gruppi consapevoli del male commesso e della sua inutilità. Poiché, per svelare il contagio mimetico occorre esserne immuni, l’individuo che si incarica di far luce sul meccanismo vittimario deve essere un estraneo o un membro del gruppo che sia capace di osservarlo da lontano e di tirarsene fuori al momento opportuno. Girard offre una lettura importante del Cristianesimo, indicandolo come il punto di svolta culturale che porta una nuova visione del sacrificio perché svela l’innocenza della vittima. Le società primitive sono strutturate in modo tale che non si possa dubitare della colpevolezza e della divinità della vittima. Nell’ebraismo e nel cristianesimo questa credenza sparisce perché la vittima viene presentata come innocente: questa sarebbe la vera rottura tra l’universo mitico e quello ebraico-cristiano, la rivelazione del sistema del capro espiatorio. Essi ci mostrano sempre una vittima contro la quale tutta la comunità si è riunita, ma una vittima innocente. Lo studioso identifica l’età pre-cristiana (quella dei miti) con il Regno di Satana: Satana sarebbe il portatore di violenza per eccellenza, il padre dei miti e della menzogna, il fondatore del meccanismo vittimario, in quanto lo sostiene e ne è il fondamento. Non bisogna però intendere Satana dal punto di vista religioso, ma da quello meramente antropologico: egli sarebbe il portatore di scandali per eccellenza, dove per scandalo s’intende il meccanismo vittimario e le sue inevitabili conseguenze tragiche. Satana è, prendendo alla lettera i testi evangelici, il Re delle Tenebre: secondo Girard le tenebre non sono altro che una metafora per indicare la condizione di accecamento della folla inconsapevole, in preda alla frenesia mimetica. Ecco perché Cristo, in punto di morte, chiede perdono per i suoi aguzzini che non sanno quello che fanno: sono ancora incapaci di comprendere il male che vanno a commettere e quello che le folle hanno commesso in secoli di storia caratterizzati dal processo vittimario.

Il pensiero di Franco Fornari sulla guerra.

Lo psicanalista Franco Fornari, avendo vissuto gli scenari disperanti della Seconda guerra mondiale, allo scoppiare della bomba atomica, covava la certezza che l’umanità fosse arrivata a un punto di non ritorno, segnato dalla possibilità di distruggere contemporaneamente, senza distinzione sia il nemico che l’amico. Il suo pensiero, prendendo il via dall’esperienza traumatica della guerra e dall’anelito alla pace, si evolve e dipana faticosamente nel tentativo di cercare una risposta alle domande fondamentali circa il bene e il male. Se oggi le teorizzazioni di Fornari continuano a parlarci è proprio perché hanno saputo evolversi in una ricerca incessante che non s’è ancora conclusa. Del perché ci fosse la guerra, già Freud ed Einstein si ponevano, nel 1931, questa domanda. Nel Carteggio, all’interrogativo di Einstein se fosse possibile, per gli uomini, diventare capaci di resistere ad odio e distruzione, Freud rispondeva negativamente, perché non c’era speranza di sopprimere totalmente le inclinazioni aggressive e distruttive dell’essere umano che, essendo incontenibili, provocavano la guerra perché derivavano dalla proiezione esterna della pulsione di morte, sempre presente con quella di vita. Aggiungeva, però, che si potevano trovare degli antidoti da opporre alla guerra nelle relazioni d’amore, nella possibilità di identificarsi nell’altro e in tutto ciò che poteva favorire l’incivilimento. La teorizzazione di Fornari prende le mosse da questi quesiti, accettando la sfida di contribuire con la psicoanalisi alla costruzione della pace, tentando di comprendere la follia della distruttività umana e di cercarne un rimedio duraturo.  Del suo pensiero sulla guerra è conosciuta principalmente la teorizzazione contenuta in “Psicoanalisi della guerra”, opera del 1964, in cui i conflitti sono visti come risultato del meccanismo di elaborazione paranoica del lutto. L’essere umano, non riuscendo a sopportare lutto ed angoscia primordiali, cercherebbe un nemico esterno in cui “deporre”, o proiettare, ogni male, al fine di liberarsene definitivamente. Fornari aveva formulato l’ipotesi che il lutto impossibile da accogliere, per l’essere umano fosse quello relativo alla propria morte. Il pensiero di cominciare a morire nel momento stesso in cui si nasce sarebbe, infatti, per Fornari inconcepibile da sopportarsi per l’essere umano. Per questo ci sarebbe la necessità, per l’uomo, di rappresentarsi la morte come un fatto totalmente avulso da se stesso. L’essere umano sente che tutto ciò che riguarda la vita è bene, mentre la morte porterebbe nient’altro che male e dolore, da dover espellere a tutti i costi, anche proiettandolo su un nemico esterno da identificare ed annientare. Secondo Fornari, per l’uomo, all’angoscia per la morte propria si aggiungerebbe, parafrasando la Klein, l’angoscia per la morte della madre. Poiché la vita del neonato dipende in tutto dalla madre, ogni minima assenza di quest’ultima verrebbe vissuta illusoriamente, come una presenza cattiva che può dare la morte e che è necessario eliminare per sopravvivere. Da qui deriverebbe al neonato la necessità, per poter continuare ad attaccarsi alla madre, di scinderla in una madre che dà la vita e in una che dà la morte. Nella frustrazione sentita come minaccia di morte, e nella spinta alla sopravvivenza, si formerebbe l’esperienza psichica che la psicoanalisi chiama posizione schizo-paranoide, sempre pronta a ripresentarsi in occasione di ogni evento vissuto come minaccioso. Qui, attivata dall’angoscia di morte e dall’istinto di sopravvivenza, starebbe anche l’origine dell’aggressività non innata quindi, ma creata come tentativo di difesa. Il bambino, però, rendendosi conto che questa scissione avrebbe radici illusorie, che la madre che gli dà la vita, e che egli fantastica gli dia anche la morte, sono la stessa cosa, allora esperirebbe in sé la simultaneità di amore e odio rivolti allo stesso oggetto, trovandosi nella condizione di temere, in modo non reale, di far morire chi più gli è indispensabile per vivere, con conseguente morte anche di sé stesso. Ecco allora che, per sopravvivere, entrerebbe in azione quel meccanismo di difesa che è l’elaborazione paranoica del lutto, attraverso la quale, per salvarsi dall’angoscia e dalla colpa, il bambino utilizzerebbe nuovamente la scissione, per mettere tutto il bene in sé e nel proprio oggetto d’amore e tutto il male e la morte in un nemico esterno, un po’ come succede nell’angoscia dell’estraneo. Questa sarebbe la radice affettiva dello schema amico-nemico, che starebbe alla base delle guerre, arrivando all’illusione che siano i nemici quelli che vogliono farci morire (sulla logica amico-nemico e sul concetto di guerra giusta si vedano gli scritti del giurista Carl Schmitt). In questa prospettiva, la guerra sarebbe un’istituzione sociale che, accanto alla funzione difensiva rivolta verso un nemico esterno, ne eserciterebbe anche un’altra, nascosta, inconscia, volta a difendersi dal “terrificante” nemico interno. La teoria fornariana porterebbe la riflessione sulla guerra a un punto di svolta, collocando il terrificante alle soglie della vita e individuando il modo in cui la natura se ne libera. Fornari avanza l’ipotesi che il bambino nasca predisposto a conoscere il mondo, perché porta in sé i coinemi, programmi predisposti alla sopravvivenza e alla vita dell’individuo e della specie, bagaglio innato comune a tutti gli uomini, punto di congiunzione tra il somatico e lo psichico. Tra i coinemi sarebbero fondamentali, proprio in funzione della sopravvivenza, quello della nascita e quello della morte, pronti ad agire in ogni istante, per distinguere ciò che è bene da ciò che è male.  Questo fa sì che, in un clima di estrema crisi reciproca, la madre partorirebbe tra angosce persecutorie e depressive, tra timore di morire e di far morire, mentre, contemporaneamente, il bambino farebbe esperienza dell’angoscia primaria legata alla perdita della condizione intrauterina. Stretto nel canale del parto, egli vivrebbe un’esperienza drammatica, non comprensibile, che lo sradica dal luogo originario, per scaraventarlo in un altrove, abitato solo dal male. Qui si scatenerebbero quegli affetti terrificanti che sono l’angoscia e la disperazione primarie, prototipo di ogni successiva esperienza terrificante. La morte e la violenza, quindi, coesisterebbero con la vita stessa fin dall’origine, necessarie affinché la specie si perpetui ma, chi viene al mondo, non lo sa e ha bisogno che qualcuno si faccia garante per lui della necessità di quel travaglio, che è un dolore sì, ma necessario affinché venga alla luce una nuova forma di esistenza. Per liberare il campo persecutorio e rendere possibile l’instaurarsi della simbiosi, necessaria alla sopravvivenza del bambino, la paranoia primaria fa sì che il padre si assuma la responsabilità del male del parto e gli attribuisca un senso.  Il padre avrebbe una duplice funzione, di separare e avviare alla vita il bambino, simbolizzandola e dandole una direzione, non negando la violenza contenuta nel parto, assumendola su di sé, rielaborandola come necessaria e dandole un senso. Il terrificante e l’indistinto verrebbero a tacitarsi solamente attraverso l’attribuzione di un senso e di una direzione mentre, attraverso un’elaborazione paranoica del lutto, il padre, assumendosi i pesi di lutto e morte, sposterebbe sul nemico esterno il male di cui si è fatto carico durante il parto. Nei sogni delle madri in gravidanza, la madre spesso si identifica con il bambino, mentre, spesso, la famiglia viene rappresentata come un collettivo e l’evento della nascita come una vicenda di gruppi contrapposti. Il bambino verrebbe rappresentato come gruppo di bambini o di animali in pericolo, assaltato da un gruppo di nemici crudeli, ma protetto e salvato da un gruppo amico che fa loro la guerra. Troviamo cioè, con la nascita di un bambino, una rappresentazione del sociale Immaginario ed intrapsichico che si muove anche qui secondo lo schema amico-nemico. Il gruppo, come collettivo interno, la cui radice corporea potrebbe forse essere ipotizzata nelle contrazioni uterine, si attiverebbe come risposta affettiva e simbolica all’angoscia genetica, cioè a quel timore angoscioso, specifico di ogni progetto creativo, che il prodotto del concepimento possa ammalarsi o morire. La vicenda del parto quindi, secondo Fornari, provocherebbe ancora un’elaborazione paranoica del lutto collettiva, poiché la morte verrebbe proiettata esternamente alla famiglia, come avviene nella guerra, oppure, come nelle rivoluzioni, all’interno dell’istituzione stessa. Nel gruppo, predisposto alla guerra, l’istinto di conservazione non funzionerebbe più a livello individuale, ma a livello collettivo, dove tutti sarebbero compartecipi di una realtà illusoria, rappresentata dalla necessità di salvare il bambino dalla morte voluta dal nemico.  Questo tipo di gruppo potrebbe, nella realtà, trarre forza e ideologizzarsi, diventando dispotico, dittatoriale, pronto al sacrificio fino alla morte. In ogni caso, il suo obbiettivo sarebbe, comunque, quello di salvare l’oggetto d’amore, sia esso la madre patria o la propria verità, entrambe simbolizzate fragili, come un bambino inerme. La violenza contro il nemico, cioè, attingerebbe non ad una distruttività insita nella natura umana, bensì all’impulso di proteggere, a tutti i costi, un progetto o una bandiera, sentiti deboli ed inermi come un bimbo. Attraverso il gruppo, i singoli individui alienerebbero da loro stessi la morte e la violenza, delegandola, sempre in funzione di difesa dall’angoscia, sia essa paranoide, depressiva o genetica, ad un ente superiore, come può essere lo Stato, il quale potrebbe avere il potere di autorizzarne la guerra. Il sistema della guerra, entrato definitivamente in crisi con l’era atomica, coinvolgerebbe direttamente nella crisi anche la vita dei gruppi. Ed è proprio in questo fallimento della guerra, come difesa dalle angosce psicotiche, che Fornari vede, paradossalmente, fondarsi la speranza che l’umanità, per necessità di sopravvivere, trovi altre strade. Egli pensa che l’umanità possa riuscire ad esprimere un’attitudine riparativa, basata sulla responsabilità individuale e sulla capacità di convivenza col dolore. La legge dice quello che si deve e non si deve fare per controllare la propria aggressività (che comunque non scompare) e le proprie angosce nel preservare il proprio oggetto d’amore, affermando che la riparazione dell’oggetto deteriorato va fatta dall’autore stesso del danno. Di fronte alla legge tutti, anche gli stati, sono uguali e Fornari ipotizza che si possa costituire un’istituzione sovranazionale che, di fronte al pericolo di distruzione totale, aiuti l’umanità a mantenere la pace, nuovo simbolo materno, contenitore nel quale i nostri oggetti d’amore possano convivere. Essa, a differenza dello Stato sovrano, basato sulla necessità di proiettare il senso di morte, sarebbe basata sull’elaborazione autentica del lutto e avrebbe il compito di aiutare ciascuno, come membro della società civile, a sentirsi in grado di tollerare la sofferenza, fiducioso nelle proprie capacità riparative, convinto della propria forza affettiva di cui è naturalmente dotato fin dalla nascita. Fare la pace con la propria morte e con la morte insita nella vita, nostra grande madre, vorrebbe dire poterla lasciare alle proprie spalle, proprio come avviene alla nascita, dopo il travaglio, quando la funzione paterna la bonifica, simbolizzandone il presente e indicandone il futuro in funzione della vita. Di fronte a ogni novità non priva di angoscia, non sarà più necessario esportarne il pericolo e la morte in un altrove, facendo la guerra. Il cambiamento, dal più impercettibile a quello più catastrofico, potrà infatti essere letto come un travaglio verso una nuova vita, lasciandosi la morte alle spalle. I singoli ed i gruppi, consapevoli della natura mortale propria e dell’intero creato, potranno allora adoperarsi, in un ritrovata dimensione di collaborazione fraterna, per la vera salvaguardia della vita propria e della specie.

Guerra e potere.

Per Alessandro Barbero, professore di Storia medievale all’Università degli Studi del Piemonte Orientale, romanziere e saggista, le guerre sarebbero scontri di creatività. Lo storico spiega che nella storia, i conflitti hanno aiutato l’uomo ad aguzzare l’ingegno, mentre oggi, più delle idee, conterebbe la logistica. Per Barbero ci vuole estro per fare la guerra perché, è la storia a dimostrarcelo, la forza distruttiva dei conflitti può celare una buona dose di creatività, inventiva ed intraprendenza. Le guerre sarebbero un fenomeno complesso in cui le società e gli individui vengono messi alla prova duramente, pertanto, i conflitti metterebbero in campo anche forze creative imponenti. Per Barbero, comunque, se riflettiamo sull’enorme sforzo logistico necessario per mettere in mare una portaerei, è evidente che anche nelle guerre attuali ingegno e creatività sono necessari. Tuttavia, rispetto al passato, oggi vi sono eserciti permanenti e nessun governo li costruisce dal nulla come si faceva in passato. L’ultimo caso fu quello della Guerra Civile Americana, dove un paese giovane si divise, creando ex novo, due eserciti che si combatterono a lungo l’un l’altro durante un conflitto sanguinosissimo. La guerra è creativa se pensiamo a situazioni in cui il conflitto è tale che bisogna continuamente inventare dal nulla i propri mezzi, come si faceva con le galere spagnole, che d’inverno venivano smontate e ritirate in secca, e in primavera rimesse in mare nuovamente. Secondo Barbero, anche le guerre di religione, le crociate e la jihad islamica, furono effettivamente delle guerre benedette. Le prime dal Papa, la seconda da una certa lettura ed interpretazione del Corano. Per lo storico, più che guerre giuste, esse furono guerre sante. Con le crociate la guerra contro gli infedeli non solo fu tollerabile per il papa e i cristiani, ma diventò giusta e santa tanto da equiparare a un martire chi vi partecipava, uccidendo più saraceni possibile. I primi cristiani furono degli obiettori di coscienza ante litteram, infatti, se si rifiutavano di combattere per l’imperatore, rischiavano la condanna a morte.  Ma dopo Costantino e con la diffusione del Cristianesimo a Roma, i fedeli cominciarono a prestare il servizio militare. Le crociate segnano l’inizio dell’avventura di quei cristiani che accettarono l’appello del Papa, sentendone il fascino, mettendosi in gioco, facendo cose che oggi ci sembrano molto discutibili e che invece a quel tempo sembravano sacrosante. Erano uomini pronti a rischiare la vita, a stare lontani da casa per anni, con la possibilità per nulla remota di non tornarci, per rivivere la Passione di Cristo, per penitenza, perché pensavano che l’esistenza avesse un senso trascendente, che andava al di là degli interessi materiali e della quotidianità. Per Barbero, però, anche se la guerra stimola la creatività degli uomini, non è mai creativa di per se stessa. È un fenomeno complesso, doloroso e devastante. I documenti storici dimostrano che la guerra s’è sempre fatta, dall’alba dei tempi, che è stata sempre considerata importante nella società e che si sono tributati sempre grandi onori ai combattenti. Se nemmeno il Cristianesimo dei primi cristiani ha potuto estirparla, dovremmo convincerci che si tratti di un aspetto del genere umano con cui si faranno i conti in eterno. Secondo Barbero, però, le guerre non nascono mai da cause giuste, ma per annettere territori strategici, per volontà di potenza o cinico godimento nell’uso del potere. La volontà di attestare la superiorità di una razza, come fu con gli Ebrei, non aveva a che fare con motivi di purezza del sangue, ma solo perché la maggior parte di essi era considerata ricca. Non è certo il desiderio di creare una comunità russofona in Ucraina, afferma lo storico astigiano, che avrebbe spinto Putin a far guerra, mentre la resistenza di un popolo aggredito non sarebbe nient’altro che la legittima difesa di chi non vuole cadere sotto il giogo nemico. Ma, si chiede lo storico, chi paga i danni per l’orrore seminato senza alcuna pietà? Sono i civili, coloro che dalla guerra non guadagneranno nulla, neppure se appartengono alla parte vincitrice. Sono i combattenti, quelli in prima linea, che spargeranno dolore in nome di una ricchezza che non li riguarderà. Le guerre arricchiscono chi già detiene il potere, gli altri, qualsiasi sia la mimetica indossata, perdono in ogni caso, soprattutto la loro umanità. Sempre Barbero, parlando della Grande guerra, afferma che i conflitti bellici sono belli solo nei romanzi e nei film, dove gli eroi, i trionfi e le imprese vengono ingigantiti dalla magniloquenza. La guerra non sarebbe né romantica, né epica, presupporrebbe, più che altro, preparazione, freddezza, autocontrollo e distacco dalla realtà che, nelle condizioni di follia estrema vissuta al fronte, sarebbe perlomeno distorta, capace di partorire fantasmi, visioni e dunque false leggende. Barbero afferma che non dev’essere stato bello assistere a commilitoni, amici e fratelli, annegare in buche piene di sangue, perché la Grande guerra fu un conflitto davvero atroce. Il limitato sviluppo dell’industria bellica non consentiva uccisioni “efficaci”, si moriva lentamente e in situazioni orribili. E dove falliva l’Iprite, cioè il gas, ci pensavano le malattie, gli stenti, la fame, la sporcizia, il gelo e il fango delle trincee, un fango pesante, capace di rallentare eserciti, inzuppare uniformi, invadere pensieri e soprattutto di uccidere, infettandone piaghe e ferite.

Guerra, tra Epica ed Estetica.

La sola letteratura italiana sulla guerra è sterminata. Per limitarci alla Grande guerra, pensiamo solo a Slataper e Lussu, a Serra e Palazzeschi, a Ungaretti e Rebora. Il punto di vista di Gadda, almeno inizialmente, sarà quello del convinto interventista, dannunziano e iper-nazionalista, infervorato dalle imprese dei condottieri romani, dagli ideali risorgimentali, severo con gli ufficiali e la vigliaccheria, nonché partecipe di un clima culturale impregnato di retorica bellicistica (movimento futurista, la rivista “Lacerba”, etc.). Più tardi, in Gadda, l’idealizzazione ingenua della guerra cederà lo spazio alla descrizione dell’orrore, dei lutti e dell’umiliazione. Ricordando quegli “anni terribili”, alluderà ad un “eroismo” diverso, da applicarsi non tanto a spericolate e cruente imprese militari, quanto a un lavoro di continua conoscenza di Sé e del male oscuro della nostra condizione umana, di auto-indagine impietosa (nei confronti della propria natura “difettiva”), di confronto con i propri inestinguibili rimorsi.

Nel presentare una rassegna di autori e di testi letterari rappresentativi della letteratura di guerra in Italia, i punti di vista dei vari autori ci appaiono differenti: c’è chi sottolinea l’eroismo e la solidarietà dei soldati, chi la ferocia del conflitto, chi celebra la guerra con toni patriottici ed accesi. Pur nella loro diversità, anche di stile e di genere, tutti questi testi hanno però al loro centro la riflessione sul conflitto bellico e mostrano come un evento storico possa essere all’origine di infiniti dibattiti culturali e di opere letterarie oramai ritenute “classiche”. Se parliamo di esaltazione della guerra come forma di “rigenerazione” della società e della cultura non possiamo che riferirci all’opera di Filippo Tommaso Marinetti, celebre per essere stato l’ideatore del Futurismo, il movimento d’avanguardia novecentesco che mirò a rinnovare la tradizione culturale italiana ed europea attraverso un programma articolato e pervasivo di svecchiamento dell’estetica, della letteratura e delle arti, ma anche della politica, della vita quotidiana e del costume sociale. L’atto di nascita del movimento venne affidato al Manifesto del Futurismo pubblicato a Parigi nel 1909, nel quale Marinetti espose le sue idee-guida, tra cui la modernità, la velocità, la lotta ed il culto per la guerra. In particolare, in un opuscolo del 1915, intitolato “Guerra sola igiene del mondo”, Marinetti, riprendendo alcuni articoli e concetti esposti in anni precedenti, esaltò la guerra come emblema dello scontro, del movimento e del rinnovamento sociale. La guerra, secondo Marinetti, è una sorta di evento fondamentale dal quale può sorgere la rinascita ideale, culturale e sociale dell’umanità, anche se a prezzo del sacrificio di un gran numero di vite umane. Prendere le armi significava, perciò, combattere i nemici del rinnovamento, cosa che Marinetti fece anche in prima persona, arruolandosi come volontario in due conflitti.

Diversa appare la vicinanza con la tragedia, la domanda sul senso della vita e sul proprio ruolo nella storia perseguita da un altro grande autore, Giuseppe Ungaretti che, dopo aver vissuto in Egitto ed in Francia, dove conoscerà i più grandi artisti e poeti dell’epoca, nel 1914 farà ritorno in Italia e, allo scoppio della guerra, si arruolerà come soldato semplice di fanteria, combattendo sul fronte del Carso. La vita di trincea sarà un’esperienza che lo segnerà profondamente nell’animo e da questo evento nascerà la sua prima raccolta di poesie, “Il porto sepolto”, pubblicata nel 1916. Ungaretti, in trincea, si troverà a combattere una guerra crudele e tremenda, facendo, quotidianamente, l’esperienza della morte, della paura e dell’eroismo. In questo tragico contesto, rifletterà sul senso dell’esistenza umana e, soprattutto, sul significato della propria presenza nel mondo. Scoprirà così di essere un poeta-soldato, che lotta ogni giorno con la fame e il freddo, con l’angoscia e con la perdita dei propri affetti. Ungaretti, con le sue poesie, ha saputo dare voce ai temi e alle domande più profondamente radicate nel cuore dell’essere umano, ed è per questo motivo che i suoi versi risultano ancora estremamente attuali per l’uomo di oggi.

La ferocia della guerra sarà causa del dramma personale e della conversione religiosa di Clemente Rebora, scrittore e religioso italiano. Combatté sul Monte Podgora, rimanendo gravemente ferito, poi venne riformato per un fortissimo trauma cranico dovuto ad un’esplosione. Dopo aver trascorso alcuni anni in diversi ospedali per l’effetto di disturbi nervosi dovuti alla guerra, maturò una profonda crisi religiosa che culminò con la sua consacrazione sacerdotale. Pur non avendo scritto un’opera organica, nella sua celebre lirica “Voce di vedetta morta”, pubblicata nel 1917, rappresenta il contrasto stridente tra la morte, espressa con l’immagine del soldato defunto nella trincea, e la vita, raffigurata dall’immagine del reduce che, facendo ritorno a casa, ritrova la donna amata. Le immagini strazianti evocate costituiscono il grido di denuncia del poeta contro la malvagità e l’ingiustizia della guerra, l’inutilità delle morti ma, al tempo stesso, l’eroismo e lo spirito di abnegazione dei soldati al fronte, che mettono quotidianamente a repentaglio la loro vita.

Il genovese Piero Jahier, invece, si formò a Urbino e a Firenze, dove entrò in contatto con i “vociani”. Nel 1916 si arruolò come volontario negli Alpini, dove vide incarnarsi il mito della guerra democratica e rivoluzionaria. Mentre si trovava al fronte, curò la rivista “L’Astico. Giornale delle trincee” e la raccolta dei Canti di soldati, mentre la sua opera più importante relativa al periodo bellico fu: “Con me e con gli Alpini”, pubblicata nel 1918 su “La Riviera ligure”. In essa traspare la vena populista di Jahier, che vede la guerra, pur nella sua brutalità, come un’occasione di fratellanza e solidarietà tra le classi umili, consapevole della grande presenza di contadini nelle file dell’esercito. Jahier farà suoi i tradizionali valori di dedizione alla famiglia e alla terra, di fratellanza e della solidarietà in nome della patria comune e, forse influenzato dalla religione valdese, Jahier celebrerà nelle sue opere la religiosità ingenua e genuina dei più umili, dando una visione ottimistica e consolatoria al loro sacrificio.

Il fiorentino Aldo Palazzeschi, poeta e scrittore, abbraccerà, prima di approdare alla narrativa, i movimenti letterari del crepuscolarismo e del futurismo. Diversamente dai suoi colleghi futuristi e dall’ambiente intellettuale coevo che in larga parte appoggiava l’interventismo, egli non fu favorevole alla guerra esprimendosi in favore del neutralismo. La sua opera è un esplicito atto di accusa contro la guerra ma, a differenza della maggior parte degli altri scrittori suoi contemporanei, si arruolò, anche se non ebbe esperienza diretta del fronte. Nelle retrovie poté osservare con distacco quanto accadeva intorno, scoprendo la compassione per l’umanità sofferente, il rispetto per il dolore degli altri e l’affetto fraterno per i propri simili.

Un altro poeta che, pur essendosi arruolato, non combatté al fronte, fu il triestino Umberto Saba. Le sue Poesie, scritte durante la guerra, costituiscono una sezione del Canzoniere, pubblicato nel 1921. In esse il poeta racconta la vita militare in modo intimistico e riflessivo.

Uno scrittore che visse in prima persona le vicende della Prima guerra mondiale fu il pescarese Gabriele D’Annunzio che, dapprima focoso oratore interventista, fu poi volontario e pilota di mezzi aerei e navali. Conclusa la guerra, con l’occupazione di Fiume, diede vita alla “Reggenza italiana del Carnaro”, con la quale, per più di un anno, inneggiò all’irredentismo e all’annessione all’Italia dei territori istriani e dalmati, terre storicamente appartenenti alla Repubblica di Venezia. L’opera “Giorni di guerra” del trevigiano Giovanni Comisso costituisce la rievocazione della vita dell’autore da soldato, in forma diaristica. In essa, che inizia con la chiamata alle armi alla fine del 1914, la guerra non presenta, agli occhi dell’autore, niente di eroico, anzi, viene vista come un’occasione per sfuggire alla noia della vita quotidiana. La guerra diventa così esperienza dell’avventura e dell’imprevedibilità, nella quale anche gli aspetti più tragici sono sempre visti con distacco grazie al cameratismo, alla solidarietà fra i soldati e ai piccoli piaceri quotidiani.

Persino quando narra della ritirata di Caporetto, Comisso racconta la fuga con toni quasi favolistici. Anche la fine della guerra non viene celebrata trionfalmente dall’autore, ma con la consapevolezza, un po’ nostalgica, che si era conclusa la luminosa stagione della propria giovinezza. Il triestino Giani Stuparich, a Firenze, dove si laureò, si legò anche lui all’ambiente della “Voce”, rivista letteraria e politica, colta e irriverente verso la vita culturale italiana dell’epoca. Desideroso di ottenere la libertà per la sua terra, partì volontario per il fronte nel 1915, insieme al fratello Carlo e all’amico Scipio Slataper, combattendo sul Carso e in altre zone limitrofe. Fu ferito e subì l’internamento in diversi campi di prigionia austriaci. Le sue opere sono caratterizzate da una profonda analisi interiore, corredata da forti e spesso pungenti analisi politiche. Nucleo centrale dei suoi scritti è la città di Trieste, per la quale nutre un legame profondo e tormentato, mentre, diversi suoi testi, anche se pubblicati ad anni di distanza dagli avvenimenti narrati, riguardano la sua vita di soldato. L’autore ripercorre la propria esperienza bellica, dall’entusiasmo dell’adesione volontaria, alla maturazione di una coscienza critica nei confronti della logorante vita di trincea e degli orrori quotidiani, insieme alla sofferenza per la separazione dal fratello Carlo, dagli amici più cari, tra cui Slataper, e dalla madre. Si tratta di testi meditati criticamente, in cui la narrazione procede senza autocompiacimento o retorica, e dove la guerra è vista tanto come un evento tragico e meschino, quanto come un viaggio di ritorno verso l’agognata casa.

Il sardo Emilio Lussu, dopo aver compiuto gli studi di legge a Cagliari, entrò in contatto con gli interventisti democratici che caldeggiavano l’ingresso in guerra dell’Italia contro l’impero austroungarico e contro quello tedesco. Prese parte attivamente alla Prima guerra mondiale come ufficiale nella Brigata Sassari, composta per la maggior parte da pastori e contadini suoi conterranei. Fu inviato, nel 1916, a fronteggiare le armate austriache sull’Altipiano di Asiago, dove rimase fino al luglio 1917, tra successi e sconfitte. Da questa sua esperienza trasse spunto per il memoriale intitolato “Un anno sull’Altipiano”, una delle testimonianze più importanti del primo conflitto e pubblicata nel 1938. Lussu intende mostrare l’insensatezza del conflitto, la mancanza di direttive univoche date alle nostre armate, l’orrore dei massacri conseguenti agli assalti disordinati e l’irrazionalità di una guerra combattuta da persone che si trovavano a lottare per ragioni a loro sconosciute, a migliaia di chilometri di distanza da casa, per un conflitto che non avrebbe cambiato di una virgola le condizioni di miseria nelle quali la loro vita si trascinava prima di entrare in guerra. A partire da questa esperienza, Lussu formò la propria personalità umana e politica, mentre la sua militanza proseguì per tutta la vita, passando attraverso l’antifascismo, per il quale subì anche il confino a Lipari, e la partecipazione alla Guerra civile spagnola. Terminata la Seconda guerra mondiale, fu ministro nel primo governo di unità nazionale.

Il lombardo Carlo Emilio Gadda, come abbiamo visto, iscrittosi alla facoltà di Ingegneria, fu inizialmente interventista, mentre interruppe gli studi per partire alpino volontario. Combatté nelle zone degli altipiani vicentini e dell’Adamello, fu fatto prigioniero dopo la battaglia di Caporetto e venne inviato in un campo di prigionia in Germania, mentre il fratello Enrico, aviatore, morì negli ultimi mesi del conflitto. A partire dal 1915 scrisse un diario relativo alla sua esperienza bellica, che sarà pubblicato solo nel 1955, una raccolta di appunti personali, nei quali Gadda scrive dell’estenuante vita militare, degli orrori quotidiani, dell’indignazione per l’incompetenza dei superiori, nonché del durissimo periodo di prigionia in Germania. Compare già, in questo primo scritto, un tema tipico di tutta la narrativa gaddiana: il disordine del reale e la difficoltà di capirlo poiché difficile da afferrare e categorizzare.

Memorialistica di guerra.

Si tratta di una tipologia di testi che, ricordando l’evento bellico, contribuiscono a restituire al lettore, la cruda realtà vissuta, palesando anche una sorprendente consonanza ideo-culturale tra individui impegnati, nel corso del conflitto, su fronti avversi. E’ stata la Letteratura, in definitiva, a restituirci tutto l’orrore di quella follia collettiva dalla quale fu investito l’intero Pianeta. Quella Letteratura che resta il solo strumento capace, nel recupero memoriale, di offrire, attraverso la ricca varietà di forme e toni di narrazione (diaristica, epica, di denuncia, romanzesca, etc.), ampi spazi all’analisi dei fatti storici, garantendo anche, in modo contestuale, l’applicazione di moduli stilistici e di interpretazioni ideologiche anche molto diversi. Chi legge le memorie e le lettere scritte dai soldati si trova dinanzi non solo a battaglie cruente, ma a un sorprendente spaccato di guerra quotidiana, con la paura, il dolore, la fame, ma anche la vita di tutti i giorni, gli uomini, le donne e le cose. Con la sua portata storica, politica, etica e sociale, i due conflitti bellici hanno agito sulla natura stessa dello scrivere, ponendo in maniera radicale il problema di una modalità espressiva diversa. Le guerre mondiali hanno ispirato opere che hanno affrontato la memoria di quella stagione e gli inquietanti interrogativi da essa sollevati mentre, subito dopo la conclusione del conflitto, si è imposto il problema di come trasformare quell’esperienza in memorie. La carica simbolica degli eventi bellici non si è certo esaurita con la morte di chi li aveva vissuti in prima persona poiché sul mercato editoriale continuano, infatti, ad apparire testi scritti da persone nate anche dopo la fine della guerra, impegnate in vario modo a fare i conti con le riemersioni di quella stagione. Questo vastissimo corpus letterario si inscrive nel sistema ancor più complesso e stratificato della memoria e dell’Immaginario collettivi, sul cui funzionamento gli studiosi si sono molto interrogati. Riflettere in particolare sui testi letterari e sulla loro capacità di comporre la frammentazione di spazi e di tempi permette di indagare approfonditamente la questione, di tracciare una mappa in base alla quale orientarsi nella memoria collettiva dei conflitti mondiali del Novecento, combinando diversi approcci teorici e metodologici: dalla geo-critica alla narratologia, dalla storia dell’editoria agli studi di genere, etc. Considerando in un’accezione allargata la categoria di “letteratura della memoria” è possibile interrogare una vasta platea di generi, dal romanzo alla poesia, dal teatro alla scrittura per il cinema, dalla memorialistica all’autofiction, dal reportage al fumetto. In essi vengono prese in considerazione proposte che si confrontano con gli eventi bellici passati nell’ampiezza di tutto il suo spettro, attraverso argomenti come l’occupazione, la resistenza, la liberazione, la segregazione, la deportazione, lo sterminio, la memoria, la rievocazione, senza limiti geografici né temporali, accogliendo interventi teorico-comparatistici ed interdisciplinari, nei quali sono analizzati aspetti di sistema e potenziali collegamenti tra ambiti di studio differenti. La Prima guerra mondiale, ad es., non ha di certo ‘occupato’ il territorio della Letteratura meno di altre che l’hanno preceduta o seguita. La cultura europea, posta improvvisamente innanzi ai mutamenti radicali proposti dall’avvento della modernità, ne rimase profondamente traumatizzata, mentre la produzione letteraria, risentendo in modo decisivo di quella cruda e dolorosa realtà, finirà per diventarne l’espressione diretta. Il tema bellico gode tuttora di grande popolarità, all’interno di uno sterminato numero di scritti appartenenti ad ogni genere letterario, vergati da scrittori d’ogni nazionalità, rimasti sconvolti dall’efferatezza di cui si dimostrò capace l’umanità che, come non mancò di rilevare subito Sigmund Freud, pensava di appartenere alla più alta delle civiltà e che dovette registrare, viceversa, una ferocia fino ad allora inaudita.

La Guerra e gli intellettuali. Tra attrazione e crisi di coscienza.

Papa Benedetto XV, già nel 1915, ammoniva nell’Enciclica “Ad beatissimi apostolorum” che il tremendo fantasma della guerra dominava dappertutto, dominando i pensieri di ogni individuo. Non era il solo a restare fedele al progetto di una pace duratura tra i popoli. Il capolavoro di Thomas Mann, “La montagna incantata” si chiuderà con una domanda/augurio, se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’attorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore. Iniziato durante la Grande Guerra, questo romanzo spiega il lento cambiamento dell’autore che, dall’interventismo spinto, passò dalla parte dei valori democratici e della pace.

Anche Erich Maria Remarque, nel suo “Niente di nuovo sul fronte occidentale” racconterà che, dietro la retorica imperialistica, si nascondeva il terribile stato di poveri e soldati consegnati al massacro. La Grande guerra esercitò su alcuni anche un fascino ambiguo, come in Ernst Jûnger che in: “Nelle tempeste d’acciaio”, la celebrò come azione vitale contro le finzioni borghesi. Con la maturità, come Mann, comunque, pensò bene di ravvedersi, cambiando nettamente idea e diventando, lungo il corso della sua esistenza secolare, il cantore, assieme ad Heidegger e Spengler, dell’avvento infausto della “Civiltà della tecnica” e dell’avverarsi del “Tramonto dell’Occidente”. Anche in Italia molti presero l’abbaglio di vedere nella guerra la soluzione della crisi. Mentre Marinetti, nel suo Manifesto del Futurismo, inneggiava alla guerra, i nazionalisti e D’Annunzio vedevano nel conflitto la realizzazione del mito estetico della Nuova Italia risorta. D’altronde, anche il mite Pascoli aveva assecondato con indulgenza filo-proletaria l’impresa libica nel 1911, dato che per lui, siccome la Libia non era altro che una prosecuzione geografica naturale dell’Italia, essa andava conquistata, così, in questo modo gli italiani potevano recarvisi trovando lavoro. Se Ungaretti, nel 1914, vedeva nell’arruolamento la soluzione al suo vagabondaggio esistenziale, reale e metaforico, affermandone la sua estraneità e il suo desiderio di essere consacrato italiano, in seguito avrebbe scritto ne: “Il porto sepolto”, uno dei documenti, tra i più celebri, dello strazio e della fraternità della trincea, punto di riferimento della corrente poetica ermetica. La morte non retorica, dispensatrice di miseria e orrore è al centro, come s’è visto, anche dell’opera di Rebora. Se nei “Canti anonimi” il poeta aveva capito che con la guerra, “l’età cavernicola è in noi”, in “Viatico” l’orrore esploderà con le frasi: “tra melma e sangue/ tronco senza gambe/ e il tuo lamento ancora/ pietà di noi rimasti”. Marinetti, come abbiamo visto, fu poeta, scrittore, drammaturgo e militare italiano. In lui si fondono vitalismo sfrenato e aitante attrazione per la guerra. Canterà: “le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa, le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne, il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche, le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano”. In questo autore, il vitalismo senza freni, sostanziato in una nuova idea di arte e della vita, nel segno del dinamismo e dell’agonismo, si manifesterà anche nell’esaltazione di un attivismo sfrenato e apparentemente trasgressivo, in realtà semplice esasperazione degli stereotipi di un’epoca maschilista e priva di ogni risvolto sentimentale. Negli anni di guerra Marinetti, oltre che come scrittore, non si risparmiò nemmeno come soldato, tanto da guadagnarsi ben due medaglie di bronzo (una terza gli fu assegnata come comandante in Abissinia).

La cultura e la letteratura del secondo dopoguerra.

Nel dopoguerra le cose cambieranno. L’esigenza principale in campo culturale era quella di dare ora al paese una letteratura nuova, diversa da quella del ventennio fascista. Quello che ora si voleva era un letterato che manifestasse il suo impegno sul reale attraverso un’ideologia politica di sinistra. In questo periodo si svilupperà la corrente neo-realistica, che non fu mai una scuola vera e propria, con un programma organico ben dichiarato, ma una tendenza a cui molti scrittori, nell’immediato dopoguerra, aderirono compiutamente. Col Neorealismo, dopo la parentesi fine ottocentesca verghiana del verismo italiano e del naturalismo francese zoliano, tornava in auge la realtà. Si svilupperà in campo letterario, ma anche cinematografico, attraverso i film di De Sica e Rossellini, maestri del cinema neorealista. Molti scrittori, come Vittorini, Pavese, e Calvino, anche se abbracceranno tale corrente, non potranno essere definiti completamente neorealisti. Elio Vittorini, siciliano, nato nel 1908, si trasferirà presto a Firenze, entrando a far parte della rivista “Solaria”, diventando uno dei più attivi divulgatori in Italia della letteratura americana. Durante la Seconda guerra mondiale entrerà nella resistenza e, alla fine del conflitto, comincerà a lavorare all’Einaudi di Torino, diventando, insieme a Calvino, uno dei principali animatori della cultura italiana del dopoguerra. In “Uomini e no”, romanzo scritto alla fine della guerra, si proporrà di registrare la realtà di quegli anni, della resistenza a Milano, mentre i “non uomini” sarebbero individui disimpegnati socialmente e politicamente. In un altro romanzo, “Conversazione in Sicilia”, racconterà la storia di Silvestro, che torna in Sicilia dopo essersi trasferito per lavoro a Milano e che spera di trovare lì, illudendosi, una realtà diversa da quella della guerra. Torna in Sicilia e ha lunghissime conversazioni con la madre, attraverso le quali cerca di ritrovare il passato, ed invece, parlando con lei e con molti compaesani, capisce che anche la sua Sicilia è un mondo cambiato, offeso, che conosce la miseria e il dolore, esattamente come Milano. Il neorealismo vittoriniano è lontano dal neorealismo classico, perché la realtà di cui parla diventa una metafora, come tutti i racconti di viaggio, della ricerca di Sé, di una vita ormai perduta, in cerca di quell’assenza di dolore e dell’incoscienza tipici dell’infanzia, anche se il tentativo fallisce, perché la Sicilia non è più come prima. Silvestro potrà tornare indietro, ma con la sofferta accettazione delle cose, che non si troverà, ad es., in Pavese. Il piemontese Cesare Pavese lavorerà anche lui per Einaudi, come Calvino e Vittorini. A differenza loro, però, Pavese non entrerà tra le file della resistenza, ma verrà arrestato per attività antifasciste, perché innamorato di una partigiana. Finita la guerra, continuerà il suo lavoro, suicidandosi nel 1950. Scriverà poesie e romanzi. Neorealistici saranno: “La casa in collina” e “Il carcere”, mentre, lontano dal neorealismo sarà: “La luna e i falò”. Nei suoi romanzi ci sono i temi del dolore, della miseria della guerra, della futilità della vita, del ritorno alle Langhe (terra d’origine), del tentativo inutile di tornare indietro nel tempo e di recuperare l’innocenza perduta. Italo Calvino è stato uno degli animatori della cultura del dopoguerra, lavorò per Einaudi e partecipò alla resistenza. Scrisse articoli e saggi su tutte le principali riviste relativi a tutti i fenomeni principali della modernità. Scrittore dalla lucida curiosità intellettuale, intelligente, critico, considerava la realtà una specie di labirinto, qualcosa di complesso in cui era difficile orientarsi. Diceva che l’uomo moderno non doveva evitare il labirinto, doveva entrarci e sfidarne la complessità, cercando di comprenderla. Si è tentati di attribuire al neorealismo “I sentieri dei Nidi di Ragno” poiché ha, come temi, la guerra e la resistenza, viste attraverso gli occhi di un bambino, Pin, un orfano che sarà accolto in una banda di partigiani. Il romanzo è ricamato su uno sfondo parzialmente neorealista in quanto la realtà appare troppo trasfigurata dagli occhi del protagonista, che dona al racconto un alone fiabesco. La trilogia de: “Il Visconte dimezzato”, “Il Cavaliere inesistente” ed “Il Barone rampante” sono tutti romanzi in cui vengono messi in luce gli aspetti dell’uomo moderno, ma parlando e scrivendo di una realtà ironica e fantastica. Il torinese Primo Levi nasce nel 1919, verrà deportato durante la Seconda guerra mondiale e morirà suicida. “Se questo è un uomo” è scritto in base alla sua esperienza, nel tentativo di capire, scrivendo, quello che era successo. Il romanzo “La tregua” verrà scritto quando ritornerà dalla prigionia di guerra. Si chiama così perché, dopo che è tornato, l’autore capisce che è stato un momento di tregua fra gli orrori del lager e la difficoltà di reinserirsi nella vita quotidiana. Levi è disilluso, non può più credere in un uomo diverso e il suo ultimo romanzo, “Sommersi e salvati”, esprime la coscienza di chi sa che ci sarà sempre chi viene sommerso e chi viene salvato. Si chiederà, con grande senso di colpa, perché a lui è toccato salvarsi. Levi si distingue per una prosa lucida e semplice e nel suo suicidio verrà espressa l’incapacità di credere nell’uomo e nel futuro.

La Guerra giusta.

Fino all’Ottocento, fare le guerre era considerato naturale. L’atto bellico poteva essere considerato giusto, oppure ingiusto. Il concetto prettamente romano di “bellum iustum” lo ritroviamo in Agostino, nella “Città di Dio”, dove dice che i malvagi godono a far la guerra, mentre i buoni la fanno per necessità. Agostino sottolinea come sia necessario valutare tre aspetti per verificare la legittimità della guerra. In primo luogo, la guerra deve essere autorizzata dal principe (autorità al servizio del divino). Il secondo principio, invece, riguarda la “Giusta causa”, che si collega al terzo principio: la “recta intentio”.

I principi agostiniani vengono ripresi da Tommaso d’Aquino nella “Summa Teologica”. Afferma Tommaso che quelli che fanno le guerre giuste hanno di mira la pace. Alla domanda se fare la guerra sia sempre peccato, Tommaso risponde che, a certe condizioni, la guerra è giusta e si configura come un’azione umana di carità. La giusta causa rimanda alla giustificazione della propria violenza come risposta a quella altrui, indicata come l’unica arma possibile per contrastare il male. Norberto Bobbio, nel suo: “Il problema della guerra e le vie della pace”, afferma che, ciò che permette di giustificare la violenza è l’esistenza di un’altra violenza originaria. Un problema senza soluzione, perché la violenza originaria è sempre, per ognuno dei due contendenti, quella dell’altro. La giusta causa e la retta intenzione risultano argomentazioni labili, eppure ancora utilizzate per dare legittimità ai conflitti, considerati l’unico mezzo possibile, anche se ne oscurano il dolore “contingente”, ma profondamente reale, di chi subisce l’atto bellico. Per discutere di Guerra giusta dobbiamo farci un’idea di che cosa sia la “Giustizia”. Nei Presocratici abbiamo una prima idea di giustizia in Anassimandro e Parmenide. In Platone, nella Repubblica, il sofista Trasimaco dirà che la giustizia è l’utile del più forte. Platone non è d’accordo e, attraverso il personaggio di Socrate, propone di leggere il concetto di Dike nella polis, attraverso non lo Stato, ma la città, formata: dai Demiurgòi (lavoratori), dai Phylakes (guerrieri), dai filosofi (governanti). Per Platone si ha giustizia quando ognuno dei tre svolge bene il proprio compito. Anche l’anima umana è composta da tre parti: la concupiscente, l’impetuosa, la razionale. Anche nel singolo, ciascuna delle parti deve svolgere il suo compito nel modo migliore. Ognuna di esse ha una virtù (eccellenza): temperanza delle passioni per la concupiscente, coraggio per l’impetuosa, la saggezza per la razionale. Quando ciascuna di queste parti svolge bene il suo compito, allora si attua la giustizia, sintesi delle virtù. I giusti sono i virtuosi che seguono la legge. Anche Aristotele pensa alle leggi di una città ben governata, ma in senso più generale, dove una virtù è un giusto mezzo tra due eccessi opposti. Anche la giustizia è medietà tra eccesso e difetto. Non è l’unica giustizia, poiché oltre ai rapporti pubblici vi sono i rapporti privati. Non centrano più i meriti, se uno fa un danno, anche se meritevole, deve risarcirlo, come un servizio prestato deve essere ripagato: si parla di “Giustizia commutativa o correttiva”. Tali concetti arrivano sino al giorno d’oggi, con il liberale Rawls e la sua “Teoria della giustizia”, che riprende da Aristotele il concetto di giustizia come uguaglianza (garantire sia reddito minimo che libertà di scelta), col comunitarista Michael Walzer in “Sfere di giustizia”, come giustizia merito della comunità, nella “Giustizia come virtù” di Alasdair MacIntyre, in Amartya Sen con la giustizia nella distribuzione dei beni a seconda delle capacità e nella possibilità di veder realizzata, nel modo migliore, tale libertà, e in Martha Nussbaum, con la sua idea di giustizia mediata dai sentimenti e dalle emozioni.

La seduzione della Guerra.

“La guerra è un amore che nessun altro amore è riuscito a vincere”, scrive James Hillman nel suo libro: “Un terribile amore per la guerra”. Ed ancora: “La guerra appartiene alla nostra anima in quanto verità archetipica del cosmo”. Non è un caso, nota Hillman, che la letteratura occidentale nasca con i poemi greci, dove Efesto fabbrica armi, Ares guida le truppe in campo aperto, Apollo porta la guerra nelle città e Atena è stratega militare. “Il guerreggiare è padre di ogni cosa”, diceva Eraclito. Eppure, spiega Hillman, nonostante la guerra sia, con ogni evidenza, l’elemento primario di ogni filosofia dialettica, i maggiori filosofi non hanno sondato abbastanza questo “universale fantastico” dell’uomo. Ed ancora: “La guerra non è un problema risolvibile con la mente pratica, più attrezzata per la sua conduzione che per la sua conclusione”. La pulsione alla guerra va affrontata applicando l’analisi del profondo. “Per comprendere la guerra dobbiamo arrivare ai suoi miti, agli abissi della crudeltà e della tragedia, alle altezze della sublimità mistica”, afferma lo psicoanalista. Hillman applica gli strumenti psicanalitici a soggetti ed eventi bellici: dalla guerra di secessione a quella del Vietnam, dal generale Patton alle sindromi dei soldati nelle ultime “guerre umanitarie”, dall’analisi degli stati psichici indotti dalla disciplina al non senso della morte dei compagni. Arriva ad una conclusione cruciale: “Siamo tutti appassionati voyeurs delle guerre mediatiche e della loro offerta di violenza estetizzata. E oggi, nello schermo televisivo o nei fogli dei giornali, la guerra è messa in cornice come un’opera d’arte”.

Guerra e Paranoia.

“Certi uomini non cercano qualcosa di logico, come i soldi. Non si possono né comprare né dominare, non ci si ragiona né ci si tratta. Certi uomini vogliono solo veder bruciare il mondo”. La battuta, ripresa dal Film “Il cavaliere oscuro”, del 2008, di Christopher Nolan, recitata dal saggio ed esperto maggiordomo Alfred (l’attore Michael Caine), viene rivolta ad un Bruce Wayne “Batman” (l’attore Christian Bale) ancora troppo giovane ed imberbe per comprendere a fondo gli abissi profondi dell’animo umano. Lo psicoanalista Luigi Zoja, spiegando la paranoia attraverso una prospettiva storico-psicopatologica, sembra sondare tali profondità, ripercorrendo i sentieri scoscesi ed impervi di questo disturbo personologico. L’autore ne esamina vari esempi: dal delirio di Cristoforo Colombo allo sterminio dei nativi americani, dall’Affaire Dreyfus alla Grande Guerra, per poi concentrarsi sui dittatori del Novecento. Zoja ci fa vedere quanto il paranoico possa influenzare gli altri convincendoli, trascinandoli con la sua follia lucida. Il paranoico è convinto che ogni male vada attribuito agli altri, è incapace di sguardo interiore e quindi individua negli altri (ebrei, borghesi, indigeni, asiatici, etc.) il male. Da essi si deve difendere, possibilmente attaccandoli per primo, elaborando, poi, una teoria del complotto con la quale compensare solitudine ed insicurezza. La solitudine, causa e conseguenza della sospettosità, viene spezzata dalla fantasia del delirio di riferimento. L’insicurezza, a lungo negata, trova sbocco nelle fantasie di grandiosità, anche se poi teme che la gente, accorgendosi del suo valore, per gelosia, si coalizzi impedendone il riconoscimento dei meriti. Megalomania e invidia vengono attribuite ai rivali, ma appartengono al soggetto. Il sospetto (complottismo) pervade il paranoico. Forse un sospetto fondato, ma eccessivo e distorto. Con la proiezione persecutoria il paranoide attribuisce la sua distruttività all’avversario. Ciò giustifica i suoi progetti di aggressione e soffoca i suoi sensi di colpa. Da qui una serie di sintomi: l’immaginazione dei piani distruttivi contro di lui, il segreto tramato alle sue spalle, l’ossessività minuziosa con cui studia i piani per sconfiggere i nemici. Nella mente del paranoico l’attacco preventivo è tattica che permette di cogliere l’avversario impreparato, nonché giustizia anticipata. Il paranoico è un auto-referenziato, incapace di autocritica, a volte narcisista. In genere, ha carisma ed è convincente per le moltitudini. Così, la paranoia, da individuale, diventa collettiva e, nel convincere tutti dell’esistenza di un avversario esterno che va sconfitto, il delirio si autoalimenta. La paranoia, per Zoja, va oltre la sfera psichiatrica, dilatandosi nella storia, poiché essa non si limita al singolo, si rivolge alla società, diffondendosi come una pandemia. Secondo Zoja, i nazionalismi, i razzismi e le guerre non sarebbero altro che manifestazioni paranoiche. Quando subentrano timori ed incertezze, il popolo accetta le parole del capo carismatico. Il delirio si propaga in follia comune e con la paranoia non si discute, né ci si ragiona. Nelle guerre anticipatorie, la paranoia si camuffa, diventando protettrice contro un nemico comune, in genere non reale, come nel caso degli Ebrei durante il nazismo. Sul delirio cova il dubbio, il sospetto contro un avversario che va eliminato, coniugando la presenza di ulteriori aspetti nella paranoia, quali l’annientamento e la distruzione. Per la massa che lo segue, il leader paranoico non è solo un capo politico, è un maestro specializzato in difese psichiche. Insegna un nuovo assetto interiore a persone che non ce l’hanno. Il gruppo ritrova un temporaneo equilibrio attribuendone il proprio squilibrio a un altro gruppo. La paranoia, paragonata alle altre psicopatologie, è molto più pericolosa e socialmente destabilizzante. La schizofrenia ha un costo tragico, questo è vero, colpisce una parte della popolazione sempre più esclusa da una società iper-produttiva e funzionale. I disturbi orali, come la bulimia e l’anoressia, aumentano col crescere del consumismo e del bisogno di apparire, ma essi scorrono nella storia, non la determinano. La paranoia, invece, potrebbe affermare a buon diritto: “la storia sono io”. Un paranoico che sia anche un abile predicatore avrà ottime possibilità di farsi dei seguaci. La paranoia collettiva è un ciottolo posto in cima a una ripida pietraia e, se gli si dà un calcio, ci sono buone probabilità di creare una frana: il leader paranoico, inarrestabile, può trasferire senza scrupoli l’intera popolazione sul piano inclinato. Mentre la paranoia ha un aspetto collettivo e contagiante la società, la psicopatia rimane individuale. Scatenando impulsi aggressivi nella massa, però, la paranoia favorisce gli psicopatici, li seleziona, affidandone ruoli di potere (si rammentino chi erano i “fidati” di Hitler, come Himmler, Goering, Gobbels, Borman, etc.). Una grande sfida futura per la società sarà riuscire a mantenere, nell’indifferenza di una massa oramai fragile ed anestetizzata dai consumi, la capacità d’indignazione e di autocritica. Come antidoto, riconoscere i propri peccati, rispettandoci per quello che siamo, fa bene all’individuo, ma anche alla società, perché la paranoia fa troppo soffrire il soggetto e il suo prossimo. La paranoia, al di là dei cancelli dei Centri di salute mentale, confusa nella vita di ogni giorno, sparpagliata in ogni piega della società, ha sterminato più della peste, umiliando e annientando nella storia più uomini della collera di Dio. Troppo sangue, infatti, ha fatto scorrere la paranoia per lasciarla agli psichiatri, che possono fermare la singola mano folle che afferra il coltello, ma non quella di Hitler o Stalin, poiché avevano dalla loro parte le masse.

Guerra e Civiltà.

Più di vent’anni fa, nel 2002, il filosofo bresciano Emanuele Severino scriveva profeticamente che la contrapposizione Usa-Russia non era mai venuta meno, perché non era mai venuta meno la capacità dell’arsenale nucleare russo di competere con quello americano. Parole che potrebbero essere scritte oggi, dopo l’invasione dell’Ucraina, preceduta dalla prova di forza in Crimea nel 2014. Nel 2002, infatti, i segnali per pensare a un disgelo Est-Ovest c’erano tutti: l’accordo anti-terrorismo firmato da Nato e Russia e il Nato-Russia Permanent joint Council che avrebbe dovuto portare all’ingresso di Mosca nell’Alleanza Atlantica. Severino, però, non si faceva ingannare da questi accordi guardando alla situazione nel suo complesso. Dal 1989 aveva sempre sostenuto che, nonostante la crisi profonda dovuta al crollo dell’Unione Sovietica, l’apparato scientifico-tecnologico sotteso all’Unione Sovietica e alla Russia-Csi, sarebbe riuscito a sopravvivere sino al momento in cui avrebbe potuto attivare e sfruttare le enormi risorse naturali della Russia e delle altre repubbliche ex sovietiche della Csi” (Comunità stati indipendenti, l’organizzazione delle ex repubbliche sovietiche nata nel 1991). Secondo il filosofo, l’Occidente non aveva ben compreso che la fine del socialismo reale non era la fine di quell’apparato tecnologico che all’Est avrebbe dovuto salvaguardare il socialismo marxista, ma che, proprio per salvare la propria capacità competitiva rispetto all’Occidente, aveva finito col togliere di mezzo l’intralcio, costituito appunto dal marxismo. Il discorso sviluppato dal filosofo però indicherebbe solo una costante che va ben oltre la forma ideologica che questa tensione ha assunto durante la guerra fredda. E’ nota, infatti, la massima di Eraclito secondo il quale: “La guerra è madre di tutte le cose”, ove guerra è il conflitto tra gli opposti che genera quel continuo divenire che esprime la realtà di ogni cosa. Emanuele Severino, nei suoi scritti, capovolge la frase e afferma invece che “La cosa è madre di tutte le guerre”, ossia il pensare gli enti separati e isolati come cose significa il pensarli in opposizione, dunque in guerra gli uni con gli altri per contendersi l’infinitesimo spazio-tempo da cui si pensa che possano emergere dal nulla. Mentre nel primo caso la guerra appare inevitabile all’ esistenza stessa, nel secondo appare come risultato di un modo radicalmente folle di pensare (il pensare che separa). Per Severino, l’alienazione essenziale, la Follia estrema, è la fede nella quale si crede che le cose diventino altro da ciò che esse sono. La filosofia, nascendo, porta al culmine questa fede, affermando che l’evidenza suprema è che le cose escono dal nulla (dal loro non essere) e vi ritornano. All’interno di tale fede cresce la storia dell’Occidente, e ormai la storia dell’intero Pianeta: non solo la storia delle sapienze, ma anche delle istituzioni, delle opere. Con ciò si giunge alla negazione inevitabile di ogni dimensione immutabile, quindi di ogni verità innegabile. Nella sequenza degli scritti del filosofo si compie il tentativo di smascheramento della Follia di questa fede consentendo al linguaggio di testimoniare l’assoluta innegabilità del destino della verità.

Maturità, reciprocità, empatia, relazione e senso di responsabilità come antidoti alla Guerra.

Nel celebre testo di Hannah Arendt intitolato “La banalità del male”, Adolf Eichmann, uno dei responsabili dello sterminio degli ebrei, giustifica le proprie azioni con un banale: “ma io ho solo eseguito degli ordini!”. Dissente la filosofa asserendo che, siccome ognuno di noi è, al di là dei ruoli che ricopre, un essere umano, è, appunto, chiamato alla comune responsabilità di pensare e capire il senso di quello che fa, senza accampare scuse. È una riflessione che, come quella di Jonas, chiede di non limitarsi a subire i ruoli che siamo chiamati a ricoprire nella vita, ma a renderli compatibili, pensando al bene di tutti, al comune destino di esseri umani. Perché allora nella storia e nel nostro vissuto continua a prevalere il male sul bene? Secondo Simone Weil, queste tragedie, in fondo, rivelano la nostra miseria umana. Gli eventi non ci costringono al male, ci rivelano chi siamo in realtà. Cioè, esseri sospesi tra bene e male. In verità più inclini a seguire i nostri istinti (“homo homini lupus”, come diceva Hobbes) che la nostra coscienza, sedotti più dal male che dal bene. Una coscienza nostra, ma anche di tutti, in grado di aiutarci ad andare oltre gli istinti individuali e di gruppo che, se assolutizzati, possono diventare corporativi, nazionalistici, etnocentrici, se non addirittura razzisti. Mentre, come ci hanno insegnato i classici, ma anche le grandi tradizioni cristiane, umanistiche, illuministiche, democratiche, il nostro primo compito, per realizzare la “fraternità”, quindi una pace secondo giustizia, è quello di cercare ciò che unisce, e non ciò che divide. Anche se l’affermazione di ogni Io è primaria, non possiamo limitarci all’egocentrismo. Maturità è rendersi consapevoli che viviamo in simbiosi gli uni agli altri. La migliore educazione contro la guerra nasce riconoscendo gli uni e gli altri come parte di una stessa comunità. La vera fatica del percorso educativo, per Weil, è conservare ed alimentare l’innocenza originaria, quella dei bambini, che si riconoscono nella reciprocità, al di là delle differenze. Al disordine del mondo si può solo, parzialmente, riparare attraverso la ragione e la “cognizione del dolore”, fondamento di ogni fraternità. Come dice Bloch: si dovrebbe fondare un’etica cosmica basata sul “dovere della paura” rispetto ai possibili esiti catastrofici delle nostre azioni, sulla speranza e sul “coraggio della responsabilità”. Julia Kristeva, riprendendo Freud, scrive che: “quando combattiamo lo straniero, lottiamo contro il nostro inconscio, contro la nostra “inquietante estraneità”. Ciò si ricollega ai nostri desideri e alle nostre paure infantili dell’altro. La Kristeva parla di “identità sdoppiata”, di “caleidoscopio di identità”, affermando che non si dovrebbe “cercare di “cosificare” l’estraneità ma di sottrarsi al suo odio e al suo peso con la ripresa armoniosa delle differenze che essa presuppone e propaga”. Si dovrebbe andare verso Kant e alla sua “federazione di popoli”, un “generale ordinamento cosmopolitico”. “Un sociale non omogeneo, ma mantenuto come un’alleanza di singolarità” attraverso una “diversità coordinata”. Prendendo spunto dal ragionamento universalista di Montesquieu, “lo Stato che crede di aumentare la propria potenza rovinando lo Stato vicino, solitamente s’indebolisce assieme ad esso”.

Conclusione.

Prendendo spunto dal ragionamento dello psicoanalista Romano Màdera, non essendo arrivati a una coscienza solidale universale, ma solo a una rete planetaria di produzione e di scambi, non riusciamo, noi esseri umani, a percepire il vincolo di appartenenza che ci accomuna. Dovremmo invece coltivare la cultura della terra, dove di comune non esiste nessuna dottrina unica, ma la ricerca della comprensione reciproca e dell’”autorealizzazione solidale”. Per Màdera viviamo in un’epoca di “follia epidemica di guerra non dichiarata (e quindi senza regole) di tutti contro tutti”, dove l’immagine del nemico è diventata “onnipervasiva”, dove “l’insicurezza corrode ogni legame fra gli umani, e crea l’humus di una guerriglia civile molecolare, sempre latente ed esplosiva”. Un distanziamento sociale, differenziante, ma cooperativo, potrebbe portarci verso un “sincretismo biografico”, inteso come “condivisione solidale del percorso di ognuno”. Ma, si chiede alla fine: “quante catastrofi saranno ancora necessarie perché l’umanità arrivi a capire cos’è diventata, e che è necessario ritrovare il senso di una costruzione, spirituale e materiale, della cooperazione globale?”.

Bibliografia.

A. Agostino d’Ippona, La città di Dio, Città Nuova, 1997.

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